Hamdallah su Skype_Marisa della Gatta
_“Pronto nana, marhaba, keifik? Ciao nonna, come stai?”
“Hamdallah Ringrazio Dio”.
Il piccolo Suren si chiedeva spesso cosa sua nonna intendesse di preciso quando, dall’altoparlante del pc, gli diceva “hamdallah” e sentiva nella sua voce un velo di tristezza e preoccupazione. Quando chiedeva, il papà non sapeva come spiegargli che, nel suo paese di origine, quando si dice così, è una sorta di puro ringraziamento a Dio per la vita in sè, sia che si stia bene o male.
Gli piaceva guardare “i nonni, gli zii e i cuginetti della Siria” e baciarli nello schermo, farsi vedere dalla webcam, poter giocare con loro, seppure a distanza.
“Che stai facendo?” – chiese entusiasticamente al nonno Suren, che non aveva mai conosciuto di persona ma che gli era così familiare, forse perché portava il suo nome.
“Niente di che, siamo seduti a casa, e tu Suren?”
“Aspetto che la mamma mi prepari la cena. Voi cosa mangiate oggi?”
“Bulghur (‘grano’) e lenticchie. Voi?”
“Pasta al pomodoro”.
Il piccolo Suren non immaginava cosa era costretto a fare suo nonno per poter recuperare quel piatto e dell’acqua da bere. Una volta alla settimana, al ritorno dal lavoro, nonno Suren attraversava i quartieri, in macerie dove però la quotidianità non era distrutta, e si recava alla “Associazione Armena”, dove distribuivano un po’ di cibo a loro Armeni.
“Pronto, ‘ammo Elias, keifak? zio Elias, come stai?”
“Hamdallah Ringrazio Dio”. Elias appariva sempre “brillante” nello schermo.
“Come va lo studio?” – Suren chiedeva sempre allo zio dell’università. “‘Ammo Elias diventerà dottooore!”, gli dicevano sempre papà e mamma. In realtà, il piccolo non sapeva che lo zio studiava in Armenia per non sprecare la sua gioventù nella guerra, dove di lui, che era infermiere, non c’era più bisogno. Prima aveva 70
iniziato ad assistere le vittime nell’ospedale in cui lavorava. Poi, avevano chiuso l’ospedale, ma lui continuava di nascosto, in un appartamento trasformato in un pronto soccorso di fortuna. Quando però, lo licenziarono definitivamente perché “non servivano più infermieri”, in una notte di un mese “tranquillo”, salutò la mamma e prese il bus che, dopo giorni e giorni di viaggio e di pericolose frontiere da attraversare, lo avrebbe portato a rincominciare tutto a Yerevan.
“Pronto, keifkun kulkun? “come state tutti?”
“Munihin “stiamo tutti bene”.
Il giovane Suren finalmente capisce: i “nonni, zii e cuginetti della Siria” non dicono più ‘Hamdallah’. Tutte le tecnologie all’avanguardia che ha non gli servono più. Emozionato, si prepara finalmente a incontrali. Mamma e papà gli hanno promesso di portarlo da loro per un mese intero ad Agosto e lui non sta nella pelle. Solo lo zio Elias non ci sarà. Fa il chirurgo in Canada, dove hanno molto bisogno di lui e non può assentarsi.
La pace in Siria. Aleppo senza le bombe. Incontrare i parenti in carne ed ossa, poterli abbracciare e baciare senza lo schermo, parlare a loro non gridando in un microfono, stare a tavola insieme lontani dalla webcam…
Queste essenzialità della vita erano per Suren il futuro remoto.