Hugo Cabret, sulle tracce fantastiche di George Méliès
Tratto dalla graphic novel di Brian Selznick, il film consente al regista Martin Scorsese di esaltare la sua cinefilia, così come di esibire la sua mirabile arte visiva grazie anche al 3D. Però, la storia disegnata di un dodicenne rimasto orfano che vive nella torre della stazione di Montparnasse, in una Parigi dei primi anni Trenta, con l’intento di riparare un automa lasciatogli dal padre orologiaio, ha molte più sfumature e articolazioni narratologiche della versione cinematografica.
di Alessandra Fagioli
Non sempre spettacolarità di mezzi e profondità di narrazione riescono a coniugarsi, forse perché entrambe le dimensioni hanno una “portata” dominante, non facile da conciliare con altre espressioni artistiche. Immagini e parole possono integrarsi mirabilmente, come dimostra tanta narrativa illustrata, ma quando subentrano tecnologie sofisticate per animare una storia, questa rischia intimamente di semplificarsi per lasciare spazio alla magnificenza degli effetti visivi. È quello che accade nell’ultimo film di Martin Scorsese, il suo primo girato in 3D, tratto dalla graphic novel di Brian Selznick La straordinaria invenzione di Hugo Cabret.
Il volume alterna pagine scritte organizzate in capitoli e sequenze di disegni al carboncino che illustrano i diversi episodi, dall’intreccio piuttosto articolato e ricchi di personaggi sfaccettati. È una sorta di romanzo di formazione dal sapore dickensiano in cui si racconta la scoperta delle origini del cinema, e in particolare degli esperimenti illusionisti di George Méliès, attraverso la storia di Hugo Cabret, un dodicenne rimasto orfano che vive nella torre della stazione di Montparnasse, in una Parigi dei primi anni Trenta, con l’intento di riparare un automa lasciatogli dal padre orologiaio, in cui si racchiude appunto il segreto che lo porterà a scoprire le meraviglie della settima arte.
Un regista come Scorsese, che spesso ha fatto della cinefilia una sua cifra stilistica, non poteva trovare migliore fonte per celebrare gli albori del cinema, con tutte le suggestioni ivi racchiuse, e nondimeno riflettere sull’importanza del recupero e della conservazione delle grandi opere del passato. Trattandosi poi di quelle di un grande illusionista come Méliès, pioniere degli effetti speciali all’epoca di un cinema primordiale, egli decide di ricorrere alle tecniche più avanzate in materia di spettacolarità, e in particolare quella vertiginosa profondità di campo con primi piani in rilievo che si riesce a raggiungere solo con il 3D. Il risultato è un trionfo della visione stereoscopica applicata a un’ambientazione labirintica come la torre dell’orologio, in cui si inseriscono pendoli oscillanti e voluminosi ingranaggi, o a quella brulicante e caotica della stazione parigina, con affondi su atmosfere e personaggi da commedia del muto, o a quella in esterni di una città gotica e notturna, dalle prospettive inquietanti su vicoli, ponti e statue.
Naturalmente Scorsese non si limita a mettere in scena la storia attraverso i suoi passaggi “rivelatori”, ma inserisce una serie di richiami interni, raddoppiamenti, abissi onirici, effetti a sorpresa, che rendono ancor più seducente lo sviluppo dell’azione: ripropone la celebre scena con Harold Lloyd appeso alle lancette dell’orologio in Safety Last (ammirata da Hugo e Isabelle quando si intrufolano nel cinema), destinando alla medesima sorte il ragazzo, che nella fuga si ritrova anch’egli appeso nel vuoto; raddoppia la realtà nel sogno, con la scena del treno che entra a tutta velocità nella stazione travolgendo ogni cosa e precipitando dalla vetrata sulla strada (ispirato a un fatto realmente accaduto), che poi si rivela un incubo del ragazzo all’interno di un altro incubo; ma soprattutto riproduce le memorabili scenografie di Méliès con le relative riprese in teatro di posa attraverso la tridimensionalità, amplificandone la meraviglia e la magia, in un omaggio che innesta gli artigianali effetti dell’epoca in quelli attuali generati dalle più sofisticate tecnologie.
Insomma, una grandissima operazione metacinematografica che non solo omaggia i grandi artisti del cinema muto, in una sequenza che ne riesuma alcuni momenti essenziali (da Chaplin a Keaton, a Griffith, a De Mille), ma fa anche ricorso ai labirinti mentali di Borges e alle geometrie impossibili di Escher, a un sapiente incastro di scatole cinesi e di mise en abyme, al cruciale rapporto tra cinema e sogno e tra uomo e automa, alla stessa Metropolis di Fritz Lang e alle atmosfere dei film di René Clair e Jean Vigo. Un compendio dunque di citazioni, omaggi, richiami e figure retoriche, diretto con grande maestria e soprattutto estrema padronanza del dispositivo cinematografico.
Ma tutto questo a un prezzo. Quello di avere non solo semplificato la struttura di una storia all’origine tutt’altro che elementare, eliminando personaggi, cancellando conflitti, attenuando tensioni, ma anche di averne alterato la natura stessa di parabola, tutta giocata sul tema della scoperta e dell’invenzione.
Nella sceneggiatura del film viene eliminato il personaggio di Étienne, un ragazzo con un occhio solo che lavora in un cinema e fa entrare gratuitamente Hugo a vedere gli spettacoli finché non viene licenziato dal proprietario. Ed è sempre lui a mostrare al ragazzo il libro sulle origini del cinema e sull’opera di Georges Méliès, curato dal suo maestro René Tabard, presso la biblioteca dell’Accademia Cinematografica. Il rapporto tra Hugo e Isabelle, figlia adottiva di Méliès e sua moglie, è in realtà più conflittuale, la ragazzina non è solo esaltata dalle avventure come si vede nel film, ma è assai più combattuta internamente, collabora in parte con l’amico, ma poi scappa da questi e involontariamente lo ferisce. Inoltre si scopre che è la figlia di un assistente di Méliès, morto insieme alla moglie in un incidente d’auto, e per questo poi adottata dal regista. Il rapporto stesso di Hugo con l’automa è assai più complesso: il ragazzo si aspetta che il robot abbia un messaggio per lui da parte del padre, in quanto scopre che questi ha modificato alcuni ingranaggi mentre cercava di ripararlo, ma poi, ricevendo dall’automa rimesso in funzione il disegno originario impostato da Méliès, si stupisce che il padre non sia intervenuto a cambiarlo. In ultimo, nella colluttazione finale, il robot viene distrutto per sempre, senza prospettiva di ulteriore riparazione.
Ma la chiave di tutto, insita nel titolo stesso dell’opera, è appunto nella capacità taumaturgica del protagonista, il quale – come Méliès aveva compiuto la “straordinaria invenzione” del cinema – realizza a sua volta una “straordinaria invenzione”, ovvero un automa in grado di scrivere e disegnare l’intera sua storia. Non sarà dunque Isabelle, da appassionata lettrice, a diventare autrice di un libro su Hugo, ma egli stesso a creare una macchina in grado di narrare gli eventi che gli sono occorsi, alla stessa maniera in cui Méliès aveva creato un automa in grado di riprodurre le immagini dei propri film.
In definitiva, Scorsese sceglie un’impostazione più melodrammatica per la sua messinscena (il bambino abbandonato nella torre, la ragazzina invaghita dei misteri, l’ispettore impacciato e la fioraia chapliniana, il mistero rivelato grazie alla complicità), e amplifica all’estremo la dimensione della spettacolarità, soprattutto riguardo quel grande organismo-macchina che è la torre dell’orologio, riprodotto in miniatura anche nel corpo dell’automa e metafora del mondo intero, concepito appunto come immenso ingranaggio in cui tutte le parti hanno una propria funzione.
Eppure questa “riduzione” filmica del libro (si direbbe qui nel senso letterale della parola) non riesce a mascherare fino in fondo lacune narrative e debolezze psicologiche, vicende sfrondate qua e là e personaggi un po’ banalizzati, dove il 3D dà grandezza al film ma toglie statura alla storia, quasi infine a dimostrare che la profondità tridimensionale non sempre si rivela direttamente proporzionale a quella narratologica.