I brevissimi 2011 – Petunia di Marianna Tumeo_Civita Castellana(VT)
anno 2011 (I sette peccati capitali – l’avarizia)
Anche adesso, quando ci ripenso dopo tanti anni, mi sembra impossibile che la Petunia potesse salire tutte quelle scale, andare a trovare la signora Bianca, sedersi accanto alla grande stufa a legna e godersi il calduccio di quella stanza al penultimo piano dell’allora più alto edificio di tutto il paese.
Le scale erano veramente tante per le gambe dell’ottuagenaria signorina. A guardarla bene, però, si intuiva quale grande caparbietà la spingesse a sopportarne la fatica, ed io bimbetta del piano di sotto ero affascinata da quella personcina sottile, dall’antico candido chignon, che incorniciava un viso quasi trasparente, percorso da infinite piccole rughe, convergenti tutte, a incastonare due occhietti neri, vivaci dall’insondabile profondità.
Così, nei lunghi pomeriggi d’inverno, sgattaiolavo su, e assistevo incuriosita all’incontro delle due amiche, prese dal racconto delle loro vite e della trascorsa gioventù; dei tanti figli ormai grandi e ancora tutti in casa, l’una, della solitudine e degli assenti nipoti, l’altra.
Eravamo agli inizi degli anni Sessanta, dal loro narrare, prendeva vita un ritratto del secolo andato, che ai miei occhi si tingeva di favola, tanto era ricco di particolari sconosciuti e fantastici.
La signora Bianca aveva lasciato, sposa, il suo paese nel Veneto, per seguire il marito nella conduzione di un piccolo emporio. Una vita difficile, con otto figli, lontana dalla sua realtà; il marito, signor Settimio, che di certo non era né una compagnia, né una consolazione, alla nascita dell’ottavo figlio, pensò bene di ritirarsi in un’altra stanza e tramutarsi da uomo di casa a pensionante.
La Petunia, invece, allorché i nipoti si sistemarono con le rispettive famiglie , era rimasta sola, nella seppur dignitosa indigenza. I suoi abiti lisi, lo scialle sbiadito, tradivano la sua condizione miserevole, anche ai miei occhi innocenti, senza però sminuirne il fascino.
Con molto decoro, per non dispiacere la sua ospite, accettava la merenda che Bianca le offriva: una fetta di polenta abbrustolita, pane ed olio ed un bicchier di vino, erano, più tardi lo capii, la sua frugale cena, che lei a volte ricambiava con un barattolo di mostarda, chiedendone sempre indietro il vuoto. Poi la sera ritornava alla sua camera e cucina, ai margini della pineta.
Altri inverni passarono e conobbi, attraverso le parole di Petunia, la Grande Guerra, Arturo, il fratello che vi morì e i nipoti venuti nel piccolo centro dell’Agro Pontino come coloni. Lei li aveva seguiti per poterli accudire, ma loro la videro sempre e solo come un fastidio, cosa le procurò un dolore sempre più cupo e rancoroso.
Finché un mattino, all’inizio dell’estate una notizia fece il giro del paese : la vecchia signorina della casa accanto alla pineta era morta; niente di straordinario, aveva quasi novant’anni ed era spirata nella tranquillità della sua dimora, portata via dal vento del mare in una bella notte di giugno. Nessuno che ne piangesse la scomparsa, nessuno che ne rimpiangesse la presenza.
Intorno alla piccola abitazione si fece subito una gran folla; era quella un’epoca in cui ci si stupiva ancora facilmente e la notizia di una morte solitaria poteva suscitare una partecipata più che morbosa condivisione. L’anziana donna era molto conosciuta, chiunque sapeva dei suoi rapporti con i parenti e tutti aspettavano di vedere come questi avrebbero onorato la vecchia zia.
La sera prima Petunia era rincasata un po’ affaticata, ma stranamente più allegra del solito. Pervasa da un’euforia fanciullesca, si era accomodata davanti alla finestra aperta a godersi la brezza serale, e, senza rendersene conto si era ritrovata bambina sulle sue montagne, mentre la voce familiare di suo padre la chiamava, senza autorevolezza questa volta, ma con dolce insistenza le diceva: – Petunia ti stiamo aspettando! – Allora sentì il suo corpo farsi leggero, alzarsi libero, divenire immenso, tanto grande da sovrastare tutta la sua lunga vita, i luoghi che aveva conosciuto, il gelo e il calore della gente, i sogni e le disillusioni, l’amore vagheggiato e mai trovato nel suo lungo cammino. Ora tutto questo non le apparteneva più. La solitudine aveva lasciato il posto ad una nuova condizione, e niente le avrebbe ormai tolto quel nuovo senso di pace.
Così la trovarono la mattina dopo, seduta davanti alla finestra aperta, sorridente a guardare il cielo, le mani in grembo a custodire chissà quale segreto.
Intorno povere cose raccontavano della sua vita: alcune vecchie foto che la ritraevano giovinetta, una coperta ingrigita dal tempo, che ricopriva il letto addossato ad una parete spoglia ed una finestra, la quale ingombra di tanti barattoli arrugginiti costituiva il suo “giardino”: piante grasse di ogni dimensione e varietà rallegravano, a dispetto dei loro contenitori, il piccolo davanzale. All’orizzonte la montagna di Circe guardava indifferente.
Di lì a poco una squadra di vicini pietosi si adoperò per sgomberare la piccola dimora e, nel trambusto, uno dei “vasi” cadde, rovesciando a terra, insieme alla zolla e alle radici di un’Euphorbia, un piccolo involto cerato, portando allo scoperto l’incredibile contenuto: tante banconote dai tagli assortiti. Allora mani avide e curiose rovesciarono tutti i barattoli rinvenendo un’insperata fortuna. Nello stesso istante però la finestra si aprì e una folata di quel vento di mare avvolse come un turbine le banconote che volarono via, lontane tra i pini e un vociare di bimbi, felici ed affannati a rincorrere stupiti quell’inaspettato tesoro.