I brevissimi 2014 – La Musulina e la festa di Carnevale di Sara Palmieri_Ravenna.
_Anno 2014 (I sette peccati capitali – La superbia)
Non so perché la chiamassero così: “ ‘A Musulina”. Se per qualche attinenza col dittatore del ventennio o perché per il suo lavoro utilizzava la mussola, una stoffa molto leggera, simile a una garza, con cui negli anni Sessanta, si confezionavano fini camicette per signora. Dalla “Musulina”, una sarta molto richiesta, si andava per farsi cucire o per noleggiare i vestiti di carnevale. Il suo portoncino di legno si apriva su due rampe di scale, lungo le quali, a Carnevale, “a Musulina” appendeva i vestiti che aveva abilmente confezionato e che lasciava visionare alle sue clienti in una variopinta passerella. Le clienti
erano soprattutto mamme con bambini, che, salendo, osservavano estasiate quel tripudio di colori e di luci emanato dai costumi adorni di brillantini e di paillettes, di piume e di chiffon. Le maschere di D’Artagnan e Zorro si alternavano a quelle da sceriffo ed astronauta, fata, dama e, perfino, da olandesina. ‘A Musulina ti aspettava in cima alle scale e si beava dell’estasi che i suoi capolavori procuravano ai clienti che avanzavano stupiti tra gli Oooooh!!! Me la ricordo grassa, con una folta chioma cotonata e un grembiule trapunto di spilli e fili colorati. Ti introduceva con sussiego nel suo regno ingombro di stoffe, di ritagli svolazzanti per terra, di carte di velina bianca su cui disegnava i modelli, mentre i suoi numerosi gatti circolavano indisturbati, salendo e scendendo da sedie, tavoli, mensole. Ormai ero grande per il mio costume da cinesina e non mi stava più neanche quello da cosacco, cucito per una recita scolastica, così mia mamma mi portò dalla Musulina per fittarne uno. I costumi, venendo noleggiati, non erano sempre nuovi, ma già usati e si vedeva la differenza con quelli che l’artigiana aveva invece cucito apposta per quell’anno. Tra questi ce n’era uno bellissimo, da dama. Su una stoffa dal rosa antico, erano stati inseriti pizzi e trine, le maniche erano lunghe, a sbuffo sulle spalle, la gonna ampia, plissettata sull’orlo e sostenuta da un cerchio; un cappellino con veletta in organza completava il costume. Il noleggio di quell’abito era costoso, ma visto il mio interesse, mia mamma lo prenotò. Indossarlo mi catapultò nel mondo delle fiabe, tra principi e fate, boschi incantati e valli immerse nel sole. Peccato che la festa a cui andammo non fosse così amena: i bambini arrivavano con i loro costumi perfetti ma, dopo poco, nella mischia del carnevale impazzito, zeppo di cow boy che sparavano pallini colorati, di zorri che sguainavano finte spade, di indiani dalle urla disumane, di risa, di pianti, di bave e di sudori, erano diventati sgualciti, macchiati, commisti ai vestiti di tutti i giorni su cui erano stati sovrapposti per evitare il freddo. Mi muovevo in quella baraonda come in una casa di cristallo, attenta al mio abito, cercavo di evitare baruffe, coriandoli e spruzzi di schiuma. Avrei voluto che tutti rispettassero il mio costume, anche perché non era mio, era della Musulina. Non mi divertii affatto e guardavo rassegnata quei bambini vestiti da pirata o da contadino, che si rotolavano a terra con evidente soddisfazione. Ad un tratto, in fondo alla sala, vidi la mia compagna di classe, Liù, vestita da Mary Poppins, con un ridondante vestito di velluto rosso, col mio stesso problema. Stemmo insieme tutto il tempo, nell’angolo, osservando gli altri che si divertivano, scambiandoci annoiate i confetti che le mamme ci avevano infilato nelle borsette. Fu allora che ci passarono davanti due bambine vestite da strega. Le sentii chiaramente, nonostante avessero avvicinato il capo e messo la manina davanti alla bocca, dire tra loro: “Guarda quelle due, non danno retta a nessuno, con quei vestiti pomposi. Ma chi credono di essere? Che superbia!” Superbia – questo termine mi era completamente nuovo. A casa guardai nel vocabolario, che recitava: “Eccessiva stima di sé, accompagnata da ambizione smodata e da disprezzo verso gli altri”. Mi sentii un verme e compresi per la prima volta quanto sia facile fraintendere gli atteggiamenti. Quando andammo a restituire il costume alla Musulina non provai il dispiacere che avevo inizialmente temuto, anzi ebbi un senso di liberazione. Lei lo ispezionò, lo guardò da un lato e dall’altro, poi disse con ammirazione: “Brava, non ha nessuna macchia e non è nemmeno sgualcito, posso riporlo per l’anno prossimo senza neppure lavarlo!” E rivolta a mia mamma: “Complimenti, l’ha educata proprio bene questa bambina!” Mia mamma corrispose guardandomi con orgoglio. Quelle parole invece di rallegrarmi, mi fecero provare rabbia e rancore per la festa rovinata. Se avessi avuto un costume da zorro, le avrei trafitte entrambe con la mia spada di plastica!