I Brevissimi 2020 – Una bellezza semplice, Massimo Terzini_Veroli(FR)
Anno 2020 – (I colori dell’iride – Azzurro)
Tuttora, quando posso, faccio volentieri lo sforzo di arrivare a piedi fino qui, nel punto più alto del promontorio.
Questo non è un posto molto frequentato. Certe volte è addirittura respingente, per via dei venti che non avendo ostacoli si accaniscono sull’unica panchina che qualcuno, chissà quando, avrà voluto collocare di fronte al vuoto.
Ormai la considero la mia panchina, ed anche quando la trovo occupata da qualcuno: per lo più coppiette romantiche o turisti solitari, mi basta aspettare qualche minuto per averla tutta per me.
Allora mi siedo, mi accendo uno dei miei mezzi toscani e gustando l’aroma intenso del tabacco, punto gli occhi in direzione dell’orizzonte.
Mare e cielo. Una sconfinata distesa di azzurro sovrapposta ad una distesa di azzurro altrettanto sconfinata.
Acqua ed aria. Densa e liquida la prima quanto impalpabile ed evanescente la seconda, ma entrambe prive di una propria forma e di un proprio colore, eppure entrambe capaci di raggiungere un’intensità di tono così carico non appena l’indefinibile consistenza della loro materia diventa massa infinita.
Nessun altro colore può essere ottenuto allo stesso modo.
Un prato d’erba è una vastità smisurata di fili dello stesso colore.
Un campo di papaveri o la distesa gialla di un campo di grano sono il risultato di una sommatoria infinita di petali rossi o di spighe dorate.
L’azzurro no. L’azzurro è un colore magico…
Tutti gli altri colori sono una promessa mantenuta, l’azzurro è la sorpresa che non t’aspetti.
A che punto scatta il miracolo? Quanta ne occorre di acqua e di aria, perché il non colore cominci a diventare colore? Quanta ne dovrei togliere ora, prima che quegli azzurri intensi diminuiscano di tono e comincino a ridiventare trasparenti?
Di azzurro mi piace anche il suono della parola e la disposizione delle lettere che la compongono. Quella doppia zeta e quella doppia erre, l’una per il cielo, la seconda per il mare, separate appena da una u baricentrica che fa da asse di simmetria, come a voler mettere in ordine su una riga ciò che la natura ha voluto sovrapporre: un orizzonte verticale che divide a metà due porzioni di spazio appartenenti ad un universo palindromo.
La prima volta che venni quassù, ci arrivai in braccio a mia madre.
Era estate da un giorno, ed io compivo allora il mio terzo anno d’età. Era metà pomeriggio di una giornata calda e limpida di giugno, come ce ne sarebbero state tante altre in quella stagione.
Allora non c’era nessuna panchina sulla quale fermarsi a sedere. Mia madre si accovacciò accanto a me e puntando l’indice in direzione dello spazio aperto disse: “Guarda quanta bellezza!” poi aggiunse “Ricordatelo sempre: la vera bellezza è semplice”.
Ero ancora troppo piccolo per accorgermi di quanta tristezza trattenuta ci fosse dietro quelle parole: lei sapeva che la malformazione visiva che mi portavo dietro dalla nascita non avrebbe tardato a fare il proprio corso.
Glaucoma congenito bioculare progressivo.
Voleva che i miei occhi trattenessero quella piccola porzione di bellezza, e che fosse lei a regalarmela, prima che fosse troppo tardi.
Tutte le volte che ora ci torno da solo, lo faccio per riportare alla memoria quel momento in cui, per tutto il tempo che lei mi restò accovacciata a fianco, mi sembrò di essere il destinatario di un’alleanza benevola, il fortunato spettatore di un prodigio allestito solo per me: nelle narici l’odore del Mediterraneo, sul viso il vento di Libeccio, nelle orecchie le parole di mia madre. Come cornice, la bellezza semplice di due azzurri intensi fatti di acqua e di aria uniti lungo una linea che in realtà non esiste.
Ora so che le cose che amiamo si possono vedere in molti modi, perciò, dopo aver assaporato l’ultima boccata acre del mio sigaro, mi concentro su quello che riesco a sentire fuori e dentro di me, lasciando che le sensazioni diventino ricordi, e che i ricordi si sovrappongano per un minuto al muro nero che ho davanti, fino a portare di nuovo alla luce quell’istante perfetto incastrato per sempre dentro lo scorrere indistinto del tempo.