I debiti illegittimi. Intervista a François Chesnais_I parte
Traduzione di Ilaria Bussoni
[Pubblico la versione integrale dell’intervista apparsa in versione ridotta sul n° 16 di “alfabeta2”]
François Chesnais, professore associato di economia all’Università di Paris 13, haun lungo passato di studioso e militante. È stato membro del partito trozkista e ha partecipato alla nascita, nel 2009, del Nuovo Partito Anticapitalista. È redattore della rivista marxista “Carré Rouge” e consigliere scientifico di ATTAC. Nell’ambito della sinistra radicale francese, Chesnais sollecita una visione il più possibile internazionale della crisi politica e sostiene la necessità d’integrare questione sociale e questione ecologica. I suoi diversi studi sulla mondializzazione si accompagnano a una grande attenzione per i movimenti antisistemici. È in quest’ottica che è opportuno leggere il suo ultimo libro Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, uscito in Francia nel 2011 e tempestivamente tradotto da “DeriveApprodi”. Chesnais non si limita a realizzare un’ennesima analisi della crisi del debito europeo, ma offre uno strumento di prassi politica, elaborando il concetto di “debito illegittimo” e di indagine da parte di comitati cittadini sulla natura del debito pubblico. Sappiamo come, anche in Italia, questi temi siano all’ordine del giorno, grazie al lavoro di economisti come Andrea Fumagalli e alla campagna lanciata da Guido Viale sul “manifesto” a fine dicembre. La campagna internazionale contro il debito illegittimo, promossa dal Forum sociale mondiale di Nairobi nel 2007, è diventata nel frattempo una questione politica cruciale non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per gli ex-opulenti paesi del Nord. Per Chesnais, quindi, questa fase della crisi presenta anche un’opportunità per ricondurre una serie di lotte locali e nazionali ad un fronte comune, capace di attraversare il fossato tra paesi ricchi e paesi poveri.
Vorrei riprendere una riflessione fatta da molti commentatori nel corso di questo periodo: mi riferisco ad esempio all’editoriale di Serge Halimi su «Le Monde Diplomatique» che sintetizza il problema: mentre il capitalismo attraversa la peggior crisi dal 1930, mentre le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni hanno chiaramente mostrato i loro fallimenti, perché i partiti delle sinistre europee «appaiono muti e imbarazzati» e l’offensiva spetta ancora una volta alle soluzioni della destra: austerità, rigore e azzeramento del Welfare?
Penso che ci sia stato un salto epocale: in un arco di trent’anni abbiamo visto la morte del vecchio movimento operaio con i suoi partiti e i suoi sindacati, con le sue illusioni e le sue menzogne, tanto sul fronte dell’Urss e dello stalinismo quanto su quello della socialdemocrazia, e a dire il vero non ci sono più partiti di sinistra. Si continua a usare questa parola per convenienza e per nostalgia. Non so in che senso la utilizzi Halimi, ma ciò che da 18 mesi sta accadendo in Grecia, ovvero forme di resistenza per lo più impreviste, credo che abbia ancora un fondamento nelle organizzazioni politiche e sindacali ma che abbia anche inventato modelli di organizzazione e di lotta con obiettivi spesso disapprovati da questi stessi partiti. Ad esempio il movimento «Io non pago» non piace al partito comunista greco, né ai sindacati che esso controlla. Poi ci sono statila Tunisia, l’Egitto e oggi «Occupy Wall Street» che annunciano un periodo fatto da un lato da convulsioni del sistema finanziario mondiale, con l’aggravarsi della recessione – forse non proprio una depressione come negli anni Trenta ma comunque una recessione molto lunga –, e dall’altro un progressivo contagio, che è il contagio dei movimenti che maturano e si organizzano al riparo dai proiettori e che scoppiano in un momento dato, o per ragioni del tutto accidentali come in Tunisia o per decisione da parte delle persone, come è accaduto a quelli che hanno lanciato «Occupy Wall Street». Io credo che non ci sia più niente da aspettarsi dai partiti di sinistra, perché il loro pensiero è in tutto per tutto esaurito nei vecchi stampi.
Da profani, oggi potremmo avere l’impressione di essere quantomeno alla fine del pensiero unico e di assistere all’apertura di un vero e proprio dibattito intorno alle politiche economiche. Si tratta di un’impressione senza fondamento e la diversità dei punti di vista riguarda dettagli o siamo davvero di fronte a uno scontro di paradigmi economici e politici radicalmente diversi? In altri termini, il discorso esperto sull’economia è passato finalmente all’età polifonica o continua a parlare con un’unica voce?
Stamattina Paul Jorion, alla trasmissione radiofonica di France Culture, replicava a un giovane ma alquanto reazionario giornalista, Brice Couturier. E diceva un certo numero di cose condivisibili. Molti dibattiti apparentemente di opposizione, ad esempio, sono in realtà discorsi e ricerche politiche che tentano di salvare il sistema stesso. In questa seconda fase della crisi mondiale e soprattutto in Europa, a causa dell’estrema fragilità della zona euro, si è sviluppato un dibattito che non ha avuto la stessa intensità nel 2008, e credo che questo vada inteso come l’indice del grado di estrema vulnerabilità a cui è giunto il sistema finanziario mondiale. La grande preoccupazione si accompagna all’estrema diversità delle soluzioni e delle ricette proposte. Ma il dibattito si colloca in tutto e per tutto nell’idea di prolungare la vita di questo sistema finanziario e della forma di globalizzazione che gli serve da supporto. Quello che mi ha colpito è come il problema climatico, un problema di grandissima urgenza, il problema dei problemi, di nuovo in discussione a Durban in Sudafrica, sia del tutto eclissato dal tentativo, negli Stati Uniti e in Europa, di salvare un sistema che ha accelerato e aggravato tutti i problemi ecologici del pianeta, che ha accelerato il cambiamento climatico. Credo che se fra un secolo ci sarà ancora qualcuno in grado di fare la storia di questo periodo, si chiederà «Ma a cosa stavano pensando quelli? In che tranello si erano ficcati?». Oggi facciamo un bilancio della totale irresponsabilità che ha portato alla guerra del 1914 e la si guarda con un certo stupore e l’idea del suicidio dell’Europa è diventata…
…una constatazione
Sì, è un’idea che viene per lo meno condivisa da una vasta schiera di persone negli ambienti intellettuali e questi stessi ambienti, rispetto alla situazione odierna, o non capiscono niente o hanno una tale paura dell’abisso… C’è una bella espressione inglese, uncharted waters, che risale al XVI secolo, quando i battelli partivano da Genova o Amsterdam o Londra e approdavano in regioni del mondo la cui cartografia non era mai stata fatta prima. Stiamo per entrare in un periodo storico che ha questi tratti, che ha dunque questo riflesso molto generalizzato di paura e conservatorismo nel quale ci si dice: meglio quello che c’è piuttosto che…
Sì ma ho l’impressione che anche tra le fasce sociali più sfavorite ci sia questo stesso riflesso, cioè che persino le persone che hanno pochissimo da perdere da un cambiamento più radicale preferiscano aggrapparsi alle politiche di rigore difese dalla destra, come a dire meglio tirare avanti nelle difficoltà che conosciamo piuttosto che venirne fuori con qualcosa di estraneo…
Sono d’accordo e si tratta di un riflesso molto diffuso. Siamo partiti da questa domanda di Serge Halimi nei confronti dei dirigenti politici, che sollecitano la fiducia da parte di coloro che hanno meno strumenti materiali e intellettuali, per ottenere la loro delega… Io invece mi interrogo sul grado di paralisi degli intellettuali, del personale politico della sinistra, mentre la borghesia, per farla corta, è sempre mossa dal riflesso di preservazione del proprio dominio, è ciò che la mette in moto e che fa sì che per essa la lotta di classe non abbia mai fine…
Dunque, secondo lei neanche oggi in piena crisi ci sono spazi sui media ufficiali e dentro la politica istituzionale per proporre un’alternativa alle politiche di austerità?
Il problema è che la soglia è molto alta e la situazione comporta diverse variabili impreviste. La variabile imprevista con la quale mi sono scontrato più direttamente durante le presentazioni del mio libro sul debito illegittimo è stata far capire che se non abbiamo dei piani pronti per impadronirci del sistema bancario, per renderlo di nuovo pubblico e per socializzarlo, il non pagamento dei debiti, persino di debiti piccolissimi, può provocare il crollo del sistema bancario, in ragione della sua attuale fragilità. Dobbiamo affrontare il fatto che qualunque potere politico che cerchi di rompere con la condizione attuale delle cose deve denunciare tutti i trattati, e in Europa deve denunciare tutti i trattati europei. Qualunque politica seria deve stabilire immediatamente un divieto alle delocalizzazioni delle imprese e deve invitare gli operai a impadronirsi e ad autogestire le imprese che cercano di chiudere… Dietro questo dibattito sulla deglobalizzazione(1) ci sono cose giustissime, perché ci sono momenti in cui, a partire da criteri stabiliti e noti alle parti in causa del commercio internazionale, occorre negoziare forme di scambio ed è impossibile tollerare la concorrenza selvaggia con la corsa al ribasso dei salari come unico modello.
Occorrerebbe reintrodurre un concetto tabù come quello di protezionismo?
Preferisco l’idea di condizioni negoziate dello scambio, che sono altrettanto indispensabili rispetto al problema del cambiamento climatico… Uno degli aspetti dell’altissimo consumo energetico sono le filiere produttive globalizzate con il relativo impatto dei trasporti. Tutto questo per dire che la sfida è alta e sono in pochissimi ad assumersela. A «Le Monde Diplomatique» c’è chi se l’assume, e tra questi Frédéric Lordon, o Emmanuel Todd, a modo suo e a partire da un’altra formazione… Si tratta di gente con un pensiero che non mette pezze al sistema…