I futuri sbagliati_Errico Buonanno
_Alla metà del XVII secolo, il gesuita brasiliano António Vieira ebbe l’idea fenomenale di mettersi a scrivere una Historia do futuro, in cui avrebbe raccontato per filo e per segno gli avvenimenti dei prossimi mille anni di storia dell’umanità. Scrisse l’introduzione, e morì. Peccato. O buon per lui, forse, che ancora può essere ricordato come un veggente sfortunato e non come l’ennesimo falso profeta. Se c’è una caratteristica, infatti, che unisce tutti i pronostici che vengono fatti sul futuro, è questa: sono immancabilmente sbagliati.
Sbagliati, da sempre, i pronostici dell’apocalisse. I Testimoni di Geova si dicevano sicuri che la fine del mondo sarebbe giunta nel 1914. Passata la data fatidica e ritrovatisi grossomodo incolumi, spostarono l’appuntamento al 1925. Poi al 1975, poi a un anno da definirsi. Ma ancora prima: un anonimo assiro scriveva su una tavoletta che “i segni della fine sono dappertutto”. Lo scriveva nel 2800 avanti Cristo. Martin Lutero collocava il giorno del Giudizio nel 1600 e Tommaso Campanella nel 1603. Eppure anche oggi che la superstizione è bandita, le manie escatologiche non fanno che darci puntualmente nuovi e terribili appuntamenti con la fine, magari ammantati di scientificità: chi si ricorda del Millennium Bug? Prima o poi, ovvio, l’apocalisse giungerà, ma qualche cosa mi spinge a pensare che lo farà in modo imprevisto, per lo stupore di tutti i veggenti che ce l’hanno annunciata per millenni, sbagliando.
Però, se i profeti di sventura hanno quasi sempre torto, anche chi immagina futuri sorprendenti rischia di fare una magra figura. Invano leggiamo le opere di fantascienza d’antan, sforzandoci di trovare quegli scrittori che avevano (oh, com’é bello pensarlo) “previsto tutto”. Possiamo stupirci di particolari: Asimov che aveva immaginato già la videochiamata, Mario Morasso che aveva descritto il telecomando e il jet… ma non sarà un caso se si tratta ogni volta di inezie, minimi particolari inseriti in un quadro totalmente errato. È vero: Karel Capek aveva previsto i robot, eppure il Duemila, a conti fatti, non è esattamente quell’epoca robotica che tanto a lungo ci si era attesi. Sì, siamo andati sulla Luna, come immaginava Verne, ma lo spazio di certo non è casa nostra, né esercita più l’attrattiva di un tempo.
E il teletrasporto? E la realtà virtuale che doveva sostituirsi al mondo concreto? La verità è soltanto una: il terzo millennio non assomiglia in realtà in nulla al mondo fantascientifico che le generazioni precedenti avevano sognato.
Insomma: a voler prevedere il futuro si sbaglia, e forse l’unico modo per non cadere in errore è parlarne in maniera confusa e vaghissima come faceva Nostradamus. E perciò, allora? Che ci resta da fare? Dovremmo forse rassegnarci al fatto che il futuro è futuro proprio perché è imprevedibile e ignoto, e perciò meglio non pensarci e smettere di domandarci che cosa mai ci aspetterà? Forse sarebbe la scelta peggiore. Perché il valore dell’immaginazione non è stato mai nel vedere o prevedere la realtà, bensì nell’arte dell’immaginazione stessa. Immaginare è di per sé un valore. Ovvero: è proprio provando a immaginare il domani, e dunque sbagliando clamorosamente, che l’umanità fa passi avanti.
È stato – si sa – sbagliando in pieno gli esperimenti di navigazione, ipotizzando nuove vie, che si sono scoperti continenti. È stato sognando e progettando delle utopie fallimentari che in qualche modo si è fatta la Storia. È stato attraverso esperimenti azzardati che si è finito per trovare tutt’altro. E se il domani è inconoscibile, noi ad ogni modo non dobbiamo stancarci di crederci. Non dobbiamo mai smettere di illuderci di poterlo costruire, prevederlo, dominarlo, perché è proprio questa pia illusione ciò che riesce a fabbricare il futuro. Non il futuro che avevamo previsto, non certo quello che ci aspettavamo. Ma un futuro, Deo gratias, concreto e sorprendente. Sempre remoto, e sempre pronto a tornare lontano, per noi, non appena l’avevamo sfiorato.