I raccoglitori di emozioni, Tanja Spes_Maribor
Racconto vincitore Premio Energheia Slovenia 2018
Racconto vincitore Premio Energheia Slovenia 2018
Mi rigiro qua e là per il piccolo letto, illuminato dal sole mattutino. Le lenzuola giacciono appiattite e in disordine sul letto grande. Evidentemente si è alzato già molto presto, perché non emanano più molto calore. Ammiravo la sua pazienza di fare il turno di mattina – per questo è necessario un certo livello di abilità e perseveranza che io non ho mai avuto. Si sa com’è la gente la mattina – i pensieri inespressi volano, mentre loro ci camminano sopra e li calpestano, e non è possibile raccoglierli in nessun altro modo, tranne che usando delle pale speciali per staccarli. No, veramente non scambierei la sensazione di quando ti svegli e tutto intorno a te è morbido e caldo con quel caos là fuori. Prima di aprire gli occhi, ti copri ancora un po’ con il copriletto e due coperte per catturare quello che resta dei sogni e giri la testa leggermente a sinistra per non sentire il giro d’aria proveniente dalla vecchia finestra alla tua destra. Quando mi sveglio, i sogni giacciono sul cuscino, si incollano ai miei capelli. Li pettino via e li getto nella spazzatura. Chissà dove e di chi sono adesso che non sono più miei. Se non ci fosse tutto questo chiasso periurbano fuori, potresti quasi goderti il silenzio. Controlli l’ora sul telefono. Non sono ancora le nove. Sorridi perché sei in grado di svegliarti prima della sveglia e non sarai in ritardo per il lavoro. Il tuo sorriso svanisce un po’ quando ti ricordi del tunnel della metropolitana che ti porterà via dall’oceano blu verso il cemento grigio della città. Mi rigiro su un fianco. È ora di alzarsi e stiracchiare il corpo. La parte bassa della schiena mi fa un po’ male a causa del turno di notte di ieri. Giro la pagina del calendario giornaliero, oltre alla data ci trovo anche un bel pensiero per l’inizio della giornata. Probabilmente l’unico che troverò oggi. Raggiungendo la fine delle scale che portano al salotto e alla cucina a sinistra, o avanti verso l’ingresso, già dimentico cosa c’era scritto. Chi ha arredato questa casa doveva aver avuto un grande dono per la decorazione. Tutto ciò che è o non è al suo posto da allo spazio un tocco di comodità. Alcuni appartamenti e spazi sono soltanto questo: un posto vuoto, dove vivi, dove hai tutto ciò di cui hai bisogno, e niente di più. Altri invece, ti offrono un caloroso benvenuto e ti riempiono di calore quando torni dalle strade piene di cemento, circondate da mattoni rossi. Le tende nere sono tirate. Ci nascondono dalle curiose occhiate dei passanti per strada. Al centro del tavolo coperto da una tovaglia variopinta, c’è un mazzo di gigli bianchi e arancioni in un enorme vaso di vetro. A fargli compagnia ci sono pile di documenti, varie paia di cuffie, un portatile, qualche briciola, cartine di caramelle e una tazza viola vuota con un cucchiaino d’argento. La sedia è ancora scostata, come l’ho lasciata nel cuore della notte. Ci è appesa una borsa di pelle semiaperta, lì c’è anche uno zaino aperto con dentro un foglio piegato due volte. La penna è accanto alla tazza. Ogni volta, dopo essere tornata a casa dal turno di notte, bevo il tè prima di andare a dormire. Quel tempo in più passato con le dita congelate avvolte attorno a una tazza calda mi permette di raccogliere i miei pensieri, ripassare la giornata e me stessa dalla testa ai piedi. Mi permette di calmarmi. Inciampo nelle scarpe sportive e gli do un calcio verso la finestra, finiscono sotto il termosifone. Le lanterne blu, verdi e rosa appese alla staccionata nel cortile interno oscillano al vento. Qualcuno ha dimenticato di portare fuori la pattumiera marrone, troppo piccola per tutta la spazzatura che si nasconde all’interno delle buste di plastica nere. Con le pantofole scivolo sulle piastrelle bianche della cucina e verso dell’acqua nella teiera. Mentre aspetto che l’acqua bolla, metto nella mia tazza una bustina di tè nero, prendo il latte dal frigo, verso in un’altra tazza dei cereali e li mescolo allo yogurt greco gusto caramello salato. Quando il tè è pronto, mi siedo sulla sedia scostata e prendo dallo zaino il foglio piegato, è ricoperto di una scrittura in corsivo nera. Rileggo la pagina e, dopo qualche ora di sonno, mi sembra meno spaventoso. A volte torno a casa con il cesto pieno, ma con il cuore vuoto. Ieri è stata una di quelle notti – le mie speranze sono crollate, ma ora, alla luce del giorno, ci sono ancora, piuttosto piccole e brillano leggermente. Non è ancora tempo di seppellirle. Le spingo semplicemente via da qualche parte vicino a quelle briciole sul tavolo che poi finiranno nella spazzatura. Il mio sguardo cade su un foglio di carta accartocciato sotto il computer. Le dita curiose lo aprono e lo spianano. È un curriculum vitae. Sorrido tra me e me. Anche lui non ci ha ancora rinunciato – cerca ancora lavoro presso il Dipartimento per le idee scartate. Probabilmente vuole concentrarsi sugli individui piuttosto che su tutto il caos legato alle interazioni interpersonali. Penso alla grandezza della sua ambizione. Perché non mi impegno di essere promossa? La sveglia suona e mi riporta al presente – è tempo di andare a lavoro. Torno in camera, mi vesto, e dopo una breve riflessione copro la mia maglietta con un maglione rosa. «Questo colore ti sta benissimo,» mi è stato detto delle settimana fa da una sconosciuta in un negozio. Sospiro con disprezzo. Dove lavoro, i colori non esistono davvero. Né nero né bianco, solo grigio. Prendo un cappello rosso dal letto e dei piccoli orecchini dall’armadio, poi vado a fare un’ultima visita al bagno prima di uscire. Poso il cappello sullo scaffale e mi dedico distrattamente agli orecchini, uno di loro mi cade nello scarico. Per un attimo guardo inorridita il lavandino, mentre mi rendo conto piano piano che non riuscirò più a recuperare quell’orecchino rosa a forma di rosa che fa parte del mio paio preferito. Sono sempre stata quel tipo di persona che alza gli occhi di fronte agli annunci sui giornali dopo le feste: «Qui e qui ho perso il mio braccialetto preferito / la mia collana / il mio anello / il mio maglione / qualsiasi altra cosa.» Il mio primo pensiero è sempre stato: «Come puoi perdere il tuo oggetto preferito?!» Beh, ho scoperto come – con facilità. Mi dico che sono solo cose materiali e che affezionarsi alla transitorietà è ad ogni modo invano e che posso trovarci una lezione. Op là giù per le scale, dove prendo la mia divisa da lavoro – un lungo cappotto grigio con il cappuccio. Un’ombra grigia tra dei volti grigi, invisibile. Sulla strada verso il tunnel della metropolitana inseguo ancora gli ultimi raggi del sole e la magnifica vista sulle barchette colorate, comodamente galleggianti sul fiume, e la spazzatura variopinta che le circonda tutto intorno, gettata dai ponti di coperta come dei pensieri indesiderati. Prima di scendere le ripide scale mobili, faccio un respiro di aria fresca. Cerco la linea grigia e aspetto che il treno passi. Mi copro il viso con il cappuccio e guardo i volti intorno a me. Pensierosi, incollati alle finestre, come se potessero vedere altro invece delle pareti grigie, e agli schermi – a tutto, soltanto mai rivolti gli uni verso gli altri. Ci vogliono esattamente 27 minuti per arrivare in città dove la gente già da molto tempo costruisce edifici invece di relazioni. Ogni giorno ce ne sono di più. Il cemento grigio si estende dove una volta c’era l’erba verde. Dove una volta crescevano foreste, ci sono adesso degli alberi solitari o dei prati che aspettano di diventare grigi. Sulle colline, che sembravano una volta un muro verde, ora crescono nuove case. I villaggi di una volta diventano delle piccole città. E le città si trasformano in cemento, nient’altro che un riparo grigio per della gente grigia. Sono la casa di migliaia di persone che non sanno guardarsi intorno, ma fissano degli schermi pieni di stimoli che tengono in mano. Se mai si guardassero intorno, vorrebbero andarsene. Se si guardassero intorno e davvero notassero quello che le circonda, non sarebbero grigie. Ma alla gente non importa. La gente preferisce andare avanti invece di fermarsi, guardare e aprire gli occhi. In fretta, come se fosse possibile battere il tempo. Cercano il maggior numero di porte aperte, il maggior numero di possibilità, il maggior numero di tutto, tutto ciò che potrebbe arricchirli dall’esterno perché sono così vuoti all’interno. Gli edifici crescono, i prodotti si acquistano, ma sono soltanto mattoni che ogni giorno costruiscono molti muri intorno a loro. Si costruiscono delle gabbie, pensando di essere liberi. «La gente già da molto, molto tempo invece delle relazioni costruisce edifici.» Penso a questo semplice modo di dire che usiamo noi sul lato soleggiato per indicare queste persone, lo rigiro per la lingua e tra i denti, come un filo interdentale, qua e là, come se potessi constatare qualcosa di nuovo. Dai pensieri mi risveglia una valigetta nera che mi colpisce pesantemente la coscia sinistra. Non ricevo alcuna scusa. Non mi ha visto, non mi ha sentito. Alzo le spalle. Dopo tutto, ho un lavoro grazie a loro. Con le mani in tasca, faccio un paio di passi dalla stazione verso l’ascensore. Entro, eseguo la scansione del mio documento di identificazione, premo il mignolo sul lettore di impronte digitali e quando si accende la luce verde, premo il -6 e raggiungo gli uffici del mio dipartimento passando i dipartimenti che considerano le persone come individui, il Dipartimento per i falsi ricordi e i pregiudizi, il Dipartimento per la fantasia più profonda, il Dipartimento per il passato, il Dipartimento per la nostalgia e il Dipartimento per i sogni. Una voce cordiale da robot annuncia all’apertura di una grigia porta scorrevole il «Dipartimento per le cose mai dette, livello 6, si prega di uscire.» L’aria è fredda e nonostante le luci c’è un’atmosfera buia e tetra. Faccio dei cenni vaghi agli altri dipendenti che incontro sulla strada per il mio armadietto. Inserisco un codice a sei cifre, e quando la porticina si apre, prendo dall’armadietto un cesto grigio. Mi volto e appoggio tutto il corpo alla porticina, si chiude con uno scatto. «Quante volte ti abbiamo già detto che facendo così infrangi le regole?» Mi guarda severo, mi toglie il cappuccio e mi fa un ampio sorriso. Lo colpisco con un pugno sulla spalla. «Come va oggi?» Il suo sorriso si oscura con un profondo sospiro di serietà. «Puoi essere felice di non essere stata qui per il turno di mattina. Le mani mi fanno davvero male per quanto ho raccolto.» Con lo sguardo osserva gli altri volti in ufficio che si muovono intorno con eleganza ed efficienza. «Come tutti gli altri.» Lo prendo per la vita e lo spingo avanti con la schiena rivolta verso di me. Inizio a massaggiargli il collo. «Non sei in ritardo?» «Sto procrastinando.» «Risparmia un po’ di forza nelle mani. Il mondo là fuori aspetta.» Sorrido e lo abbraccio. Mi serve solo un po’ di calore umano prima di andare fuori al freddo. «Avete fatto la raccolta differenziata?» Ride. «Non perderai la speranza, vero?» Si volta verso di me e sorride con compassione. I suoi occhi blu sono in pieno contrasto con l’oro che glieli adorna e si riflette sulle sue lentiggini. Come l’alba sull’oceano. «Va bene, il mio turno sta per iniziare!» dico con falsa gioia e mi dirigo di nuovo verso l’ascensore. Indosso di nuovo il cappuccio, premo +6, esco dall’ascensore e comincio a camminare tra la gente. Mentre corrono a una velocità impensabile intorno a me, raccolgo i resti dei loro pensieri e delle loro emozioni, tutte cose mai dette. Sono stufa di raccogliere per strada, dove ci sono intorno soltanto pensieri confusi, frasi incompiute, preoccupazioni monotone e complimenti. «Hai un bel sorriso.» «Grazie per il tuo tempo.» «Mi mancherai.» «Sei importante per me.» «Mi piacciono le tue scarpe.» « Credo in te, ce la puoi fare.» «Grazie di essermi vicino.» Dei bei contenuti, però circondati da una strana vergogna, per la quale ho dovuto buttarli tra quelli negativi. Queste dichiarazioni non hanno mai trovato il proprio destinatario. Gli aeroporti, le stazioni dei treni e degli autobus sono i posti peggiori, per questo li evito sempre. E proprio così non mi piacciono neanche i turni di notte. Questi sono particolarmente devastanti – sono un silenzio pieno di una disperazione particolare, di speranze vuote e cuori infranti. Oggi giacciono sui marciapiedi l’ansia, i dubbi, il nervosismo, la paura, l’impazienza, il malumore e la confusione che si mescolano ai gas di scarico delle macchine veloci. C’è tanto amore non dichiarato. Saltello per le piste ciclabili evitando abilmente i ciclisti e occasionalmente qua e là raccolgo i resti in vista. Poi lo vedo. Si estende su tutto il pianoterra di un grattacielo in vetro terribilmente alto. Un ristorante di lusso. Sì, oggi potrei pulire accuratamente qualche spazio chiuso, gli spazi aperti sono un incubo – i resti non si esauriscono mai, e se mai accidentalmente mi perdo un po’ e mi avventuro per la stessa strada che ho fatto qualche ora fa, secondo la quantità di resti sembra come se non ci fossi mai stata. Sembra la fatica di Sisifo. Attraverso il vetro guardo le persone sedute in abiti formali l’una di fronte all’altra, con una postura eretta, i volti finti e tra di loro un tulipano con lo stelo verde e i petali rosa. Sale e pepe, come se lo zucchero non mancasse affatto. Bicchieri artigianali riempiti con il miglior vino e le posate in argento. Mi chiedo cosa la gente butti via lì. Nel mio orologio inserisco l’ora, il nome dell’edificio, il nome della via e confermo le coordinate. Così sulla mappa comune questa posizione diventa verde, ciò significa che gli altri raccoglitori possono tranquillamente trascurarla. Attraverso con attenzione la strada, spingo la maniglia ed entro.
Le mie orecchie sentono una delicata musica per pianoforte. «Cosa c’è di sbagliato in queste persone, stanno sedute così tranquille e non ballano?» mormoro tra me e me. Seguendo il ritmo, mi avvicino dolcemente al primo tavolo. Una coppia di mezza età, non riesco a capire se hanno soltanto una relazione d’affari o qualcosa di più. Si sorridendo amichevolmente. Sto in piedi vicino al tavolo e per un po’ li osservo soltanto, guardo a sinistra, guardo a destra, le loro parole si perdono in lontananza. Sul pavimento vicino ai piedi ci sono i loro dubbi e le loro insicurezze. Ognuno ne ha circa la stessa quantità. Quando ho iniziato a lavorare, in ufficio si è sparsa la voce che le donne ne hanno di più a causa della pressione sociale, ma presto ho capito che i complessi di inferiorità non sono condizionati dal genere. Mi accovaccio e con entrambe le mani raccolgo tutte le emozioni ed i pensieri che invece di essere stati detti sono stati gettati a terra e li metto nel mio cesto. I bordi di alcuni sono così taglienti che rischio di farmi male. Mi alzo e mi avvicino da un altro tavolo. Un’altra coppia. Sembra che stiano mangiando un pranzo veloce durante una pausa dal lavoro. Sul cappotto di lui trovo «Vorrei chiederti di uscire, ma ho paura che mi rifiuti» e sul cappuccio di lei è appeso un «Vorrei invitarti fuori, ma ho paura che mi dirai di no.» Sorrido. Pensieri simmetrici. Detti ad alta voce, potrebbero creare la possibilità di un insieme incredibilmente bello. Oh, ma loro non lo sanno. Si nascondono l’uno di fronte all’altra, come se potessero proteggersi dal dolore. A volte vorrei urlare ad alta voce, dirgli di essere onesti, di rischiare, di lasciarsi andare alle emozioni. Calcolano le emozioni come se fossero matematica. Vogliono provare solo e soltanto le emozioni positive e belle, tutto il resto è da seppellire, respingere. Quando capiranno che se non permetti a te stesso di provare dei sentimenti negativi, non puoi provare neanche quelli positivi? Si tratta di equilibrio. Si tratta di crescita. Eppure potremmo crescere così bene gli uni vicino agli altri, imparare gli uni dagli altri, aiutarci.
Lo stesso si ripete da un tavolo all’altro, il cesto si riempie. Poi la vedo. È seduta da sola al tavolo, appoggiata allo schienale della sedia, mastica una penna e pensa a qualcosa che i suoi occhi seguono sullo schermo del monitor del portatile. Un caffè latte mezzo bevuto con una superficie completamente calma riposa in una liscia tazza bianca vicino ad un quaderno aperto. Faccio il giro del suo tavolo due volte e rimango sorpresa di non trovare nulla per terra. Probabilmente è venuta qui ed è rimasta sola. Ciò che voleva dire al mondo intero lo ha abilmente riportato sullo schermo, senza resti. C’è qualcosa sul suo viso che mi incuriosisce, così mi siedo sulla sedia di fronte a lei, appoggio i gomiti sul tavolo e la osservo in silenzio. Lo so, questo non è uno dei compiti del mio lavoro e di nuovo dovrò cercare scuse per aver perso così tanto tempo, ma queste persone suscitano in me un interesse troppo grande. Non sono in grado di capirli, eppure lo desidero così tanto. Poi lo vedo, è sul tavolo, sotto i petali di un tulipano morente che l’ha ricoperto con un po’ di polline. «La città è baciata dal sole e le mie emozioni nell’andarmene fanno un leggero contrasto con questa luce. Un mare di pensieri ti tira tra le sue correnti, in cui è difficile trovare un’ancora di descrizioni spoglie. Prima o poi tutto si riduce ad un cliché, fatto di una profonda gratitudine e gioia. Però è vero.» Raccolgo il pensiero che brilla nei colori di queste calde emozioni scintillanti come un arcobaleno tra le mie mani. Perché qualcuno getterebbe qualcosa di così bello? Fisso il pensiero, troppo forte, quasi per farlo esplodere o scomparire. Premo il pulsante sul fondo del cesto che divide il suo contenuto in tre parti e poso accuratamente il pensiero nel cassetto centrale. «Nessuno ha mai detto che il riciclaggio non si fa.»
La sera siamo seduti su una poltrona bianca, le mie gambe sono incrociate con le sue, e dopo una cena deliziosa leggiamo ciascuno il proprio libro. So che non dovrei portare il lavoro a casa e che non dovremmo parlarne nello specifico, ma non posso trattenermi. «Guardi mai il contenuto?» Alza un sopracciglio e mi fissa per qualche istante prima di rispondere. «Cosa intendi?» Stringo le labbra e alzo gli occhi. «Penso a questo – se qualche volta non tocchi solo l’emozione, ma guardi anche il pensiero.» «È possibile separare i due?» Mi sento un po’ meno audace. «Hai notato lo schema?» «Non c’è bisogno di fare la raccolta differenziata, perché tutti i pensieri sono negativi?» «Oggi ne ho trovato uno che seconde me è positivo. Ma c’era qualcosa di triste in esso, quindi l’ho etichettato come ambivalente. Mi ha fatto pensare.» «Perché qualcuno getterebbe via qualcosa di positivo?» «Secondo me ci stiamo sbagliando. Penso che dovremmo ordinarli in base al contenuto, non solo a seconda della prima impressione data dall’emozione.» Chiude il libro, lo appoggia sul pavimento di legno e prende tra le mani un bicchiere di vino. Assomigliamo quasi a quelle persone di quella città, in quel ristorante. Però noi non buttiamo via nulla. «Non capisco.» «Quando facciamo la raccolta differenziata, la facciamo in base alle emozioni che le persone provano di fronte al pensiero che stanno buttando via. Ma non controlliamo se il pensiero è veramente carico di energia negativa. Oggi ho rovistato un po’ nel cesto.» China la testa e mi guarda con rimprovero. Non mi importa di questi rimproveri invisibili che si sciolgono sulle sue ciglia dorate e cadono sulla coperta. Si raccolgono sui suoi morbidi bordi. La pulirò più tardi. «Sono giunta alla conclusione che in termini di oggettività, la maggior parte ne è priva di energia negativa. Al contrario, potremmo descriverli come belli. Meravigliosi. Pieni di speranza e desiderio.» La mia voce si spegne mentre il mio sguardo se ne va in lontananza. So che vede qualcosa spezzarsi nelle mie pupille nere. Fa male. Fa male che loro non vedano di essere abbastanza. Abbastanza intelligenti, belli, gentili, adatti, qualsiasi cosa in una marea di qualità. «Hanno solo paura,» concludo infine.
Entrambi ci perdiamo da qualche parte nei nostri pensieri, pensando alle differenze che ci separano. Interrompe il lungo silenzio. «Sai, hai ragione. Penso che si vergognino della loro vulnerabilità. Temono che essere completamente onesti l’uno con l’altra porti alla separazione invece che all’unione…» «Perché sono convinti che a causa della loro vulnerabilità, gli altri penseranno che non valgono la relazione?» Annuisce. «Però siamo tutti vulnerabili, tutti noi abbiamo le nostre debolezze. Ma ciò non significa che non ne valiamo la pena, che non dovremmo volerci bene, che non dovremmo essere gentili con noi stessi. Ti ricordi il giorno in cui noi due stavamo scoprendo i nostri punti deboli? Era così bello, perché non rappresentavano più qualcosa di negativo, ma attraverso l’amore diventavano qualcosa di positivo…» «Loro questo non lo sanno, nessuno glielo ha mai mostrato.»
«E se raccogliessimo tutti questi resti e glieli dessimo di nuovo in tasca? Di nuovo nelle loro mani?» Mi prende le mani e intreccia le sue dita alle mie. «Ti capisco perfettamente e davvero ammiro il tuo grande cuore, ad ogni battito per le tue vene correre la gentilezza, ma… sei invisibile. Loro non ti vedono. Non puoi costringerli a riprendere qualcosa che non vogliono, qualcosa che non vogliono accettare.» «Potrei almeno fare qualcosa per cambiare il loro modo di pensare, per farli smettere di avere paura?» «Come lo faresti?» «Non lo so, verserei dell’amore nel loro caffè, lo pianterei nei fiori sui davanzali delle finestre, lo mescolerei al detersivo, negli shampoo…» «Dovranno capirlo da soli. Dovranno lasciarsi andare da soli, essere disposti a correre rischi e prendere l’iniziativa… Probabilmente si sono abituati all’organizzazione, al controllo, alla prevedibilità, per questo hanno paura… del rifiuto.» «Tu mi stai dicendo che preferiscono correre il rischio di non sfruttare il loro potenziale, piuttosto che essere rifiutati e affrontare emozioni negative?» Sospira profondamente. «Sì, è esattamente ciò che intendo. Non si rendono conto del fatto che a volte tutta la possibile felicità supera ogni tristezza, se qualcosa non va.» Mi sento impotente e mi sistemo comodamente nel suo abbraccio. Quindi continueremo a svolgere il nostro lavoro, pulire per loro ed essere grati di vivere la nostra vita qui, dove si ama il sole, però non ci si difende dall’oscurità, perché è inevitabile. «Ti voglio bene.» Forse già domani non me lo dirà più. Ma non importa. «Lo so, grazie, anch’io.» Come faccio a spiegarlo a tutta quella gente grigia?
Traduzione dallo sloveno di Tereza Hussu