Il bambino di Namibia
fotoracconto vincitore Premio Kaleidos Africa’s Pictures 2012_di Carmen Simini
sezione 15-17 anni
La prima volta che venni in Africa con i miei genitori avevo tre anni, mio padre era un famoso fotoreporter e voleva fare un servizio fotografico su alcune tribù africane. Dopo pochi giorni dal nostro arrivo in Namibia papà aveva già scattato centinaia di foto, ma poco prima di ripartire si ammalò di una terribile febbre, e quando finalmente credeva di stare meglio improvvisamente fu preso dalle convulsioni: delirava.
Quella febbre altissima era stato il sintomo della malaria. Inevitabilmente dopo poche ma interminabili ore trascorse in una capanna di fango, mio padre si spense tra le braccia di mia madre. Lei da allora non aveva più voluto fare ritorno in Italia, ormai l’Africa le aveva preso tutto, l’amore della sua vita, la sua felicità, e quella felicità mia madre riusciva a ritrovarla in parte solo negli sguardi profondi degli Himpa, la tribù che ci aveva accolti.
Vivendo con quegli uomini, così in simbiosi con la natura le sembrava di sentirsi più vicina a mio padre.
Di fronte alla loro povertà si sentiva tremendamente impotente ma gli sguardi di quei bambini le trasmettevano una letizia e una gioia di cui ormai non poteva più fare a meno.
Ogni giorno io e lei ci recavamo insieme alla pozza dell’acqua,
e io, in tutta la mia spensieratezza di bambino, mi divertivo da impazzire a sguazzare nel fango con gli altri bambini, in realtà quello che per noi era un divertimento era l’unico modo per sfuggire al caldo torrido della savana.
Andare alla pozza mi piaceva tantissimo, lì infatti ci si poteva imbattere in animali di ogni specie: enormi elefanti, agili gazzelle, giraffe dal collo lungo e a volte anche qualche babbuino dispettoso…
Quella pozza si era formata dopo la stagione delle piogge, e ormai era quasi prosciugata, c’era più fango che acqua e bere era diventato poco piacevole, ma la sensazione di sete era così forte che ogni volta non potevo fare a meno di mettere le mani a ciotolina , immergerle nei punti appena più profondi e poi di portarle alla bocca, bevendo a piccoli sorsi.
Presto di quella pozza non sarebbe rimasta che un enorme conca vuota, e allora gli Himpa si sarebbero spostati ancora, alla ricerca di altra acqua, alla ricerca di un territorio magari più fertile e generoso, con i loro volti segnati dall’esperienza e dalla fatica.
Io e mia madre seguimmo quella tribù per ben due anni, e ogni sera, sedendo di fronte alle nostra capanne di paglia e sterco, guardavamo il sole scivolare lentamente al di là delle dune.
Mia madre diceva che prima di tornare a casa voleva terminare il servizio fotografico di papà, in realtà in Africa stava cercando di ritrovare se stessa, in quel continente arido e sofferente cercava di sfuggire alla realtà.
E ancora oggi l’immagine degli Himpa che ogni sera si riuniscono rimane ben impressa nella mia mente e nel mio cuore, non dimenticherò mai l’Africa e le ricchezze che quegli uomini così poveri hanno saputo regalare a me e a mia madre semplicemente con un sorriso.