Il bambino di strada_Angela Nyokabi Baiya
_Racconto finalista seconda/terza edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Katia Basile
Svoltai all’incrocio e imboccai la strada che conduceva alla nostra casa
ad un piano, nel quartiere residenziale di Kileleshwa. I miei due figli,
Kui e Maina, seduti sul sedile posteriore, giocavano ad alta voce nonostante
i miei rimproveri.
Nei pressi di casa, vidi di nuovo il bambino, con la mano tesa, pronta a
ricevere qualsiasi cosa. Doveva avere avuto all’incirca sei anni, pressappoco
la stessa età dei miei figli. Aveva un volto così familiare che
talvolta si confondeva con l’ambiente a tal punto che non riuscivo a vederlo
malgrado fosse lì. Come facevo di solito, guidai oltre senza guardare
nella sua direzione. Alcuni giorni lo guardavo, seppur brevemente,
appena il tempo necessario per ringraziare Dio che nessuno dei miei
figli vivesse nelle sue condizioni.
La vista del bambino era tremenda, i piedi nudi, gli abiti stracciati, il
naso gocciolante e la pancia prominente. Molte volte gli avevo portato
i nostri avanzi che prendeva accennando un sorriso. Al mattino presto
e a notte tarda non si poteva non vederlo camminare su e giù per la strada
con la mano tesa. “E’ possibile che non si stanchi mai o non abbia
una casa in cui andare?”, mi chiedevo.
Feci un cenno al guardiano mentre svoltavo verso il nostro tortuoso viale
d’accesso. Lasciai il portabagagli aperto affinché la nostra domestica
Wangechi prendesse la spesa del mese ed entrammo in casa. Era stato
un sabato pomeriggio lungo e caldo. Non era facile tenere a bada i
due ragazzini scalmanati che si aggiravano nel supermercato affollato mentre
prendevano gli articoli dallo scaffale. Per farli stare buoni avevo dovuto
cedere alle loro piagnucolose richieste di gelato e cioccolata. Gli sguardi
di disapprovazione degli altri clienti non mi furono d’aiuto.
Sprofondai nella mia sedia preferita con il giornale in mano e cercai di
far cessare gli strilli di Kui e Maina. Wangechi era indaffarata a preparare
il tè della sera. Mio marito Mwangi sarebbe rientrato subito dopo.
Era manager di una delle grandi banche del paese e spesso lavorava anche
il sabato.
Conducevamo una vita agiata. Non ci mancava nulla. Il lavoro di Mwangi
ci consentiva di vivere bene. La banca soddisfaceva i nostri bisogni
primari pagandoci persino i conti della spesa. Era stato perciò facile lasciare
il mio lavoro da redattore di libri per crescere i nostri figli.
Trascorrevo la mia abituale giornata leggendo e curando la corrispondenza
per giornali e riviste. Ogni sera andavo a prendere i bambini sebbene
lo scuolabus fosse disponibile. Ciò mi consentiva di uscire di casa
i giorni in cui non andavo a trovare i miei amici che, come me, preferivano
restare a casa e crescere i propri figli.
Pochi istanti dopo entrò Mwangi, era esausto. Aspettai che si rinfrescasse
e nel frattempo riunii Kui e Maina prima di sederci per il tè.
Nel tardo pomeriggio del giorno successivo feci la mia passeggiata domenicale.
Eravamo stati in chiesa ed eravamo tornati direttamente a casa.
La maggior parte delle domeniche uscivamo tutti insieme ma quel giorno
Mwangi, in particolar modo, aveva bisogno di riposare. Mia sorella
aveva convinto i suoi due ragazzi e si era recata alla funzione con suo marito.
Era il giorno di riposo di Wangechi ed ero piuttosto indaffarata. Avevo
perciò bisogno di un po’ di tranquillità e mi accinsi a fare una passeggiata.
Vidi di nuovo il bambino. Avrei dovuto portargli del pollo avanzato
dal pranzo. Poi, pensando che qualcuno avrebbe voluto mangiarne per
fare uno spuntino mentre ero via, non me ne pentii più di tanto.
“Saidia” disse a bassa voce, “aiutami”.
Mi spostai su un lato per evitare che la sua mano sporcasse la mia maglia
bianca e camminai respirando l’aria fresca e assaporando la calma
di un tranquillo pomeriggio.
“Saidia”.
Di sicuro non poteva pretendere che io gli dessi da mangiare ogni giorno.
Soltanto tre giorni prima gli portai un pasto completo. Il suo sguardo
si illuminò. Afferrò la mia mano e ringraziò più volte. La lavai immediatamente
non appena tornai a casa.
Attratta dai colori vivaci dei nuovi fiori al lato della strada, mi dimenticai
del ragazzo. Dovevo ricordarmi di tagliarne alcuni al ritorno per
piantarli nel mio giardino che diventava sempre più grande. Un vicino
mi salutò con un colpo di clacson.
Ci volevano ancora due ore prima che tornassi di nuovo a casa. Quando
mi avvicinai al bambino che era di spalle sperai che non si girasse e
che non mi vedesse – la sua mano sudicia mi faceva sentir male. Lo tenni
d’occhio calcolando il momento più opportuno per fuggire. Per la prima
volta notai la sua magrezza. La pancia prominente che spesso vedevo
quando mi avvicinavo con la macchina non si notava molto – probabilmente
era affetto da kwashiorkor. Una passante gli diede metà banana,
la metà che era troppo marcia per lei. Il bambino non cercò nemmeno di
scacciare le mosche che volavano sul braccio sinistro che cadeva mollemente
su un lato. Mi avvicinai e cercai di passare velocemente. Fu allora
che vidi la ferita grande e infetta, aperta sul suo braccio. Mi si chiuse
lo stomaco e sobbalzai come se fossi io a soffrire. Disgustoso, pensai.
Probabilmente si era azzuffato con alcuni dei ragazzi più grandi che frequentavano
la nostra strada. Tuttavia, non mi sembrava che la ferita fosse
stata causata da una zuffa. Forse, il morso di un cane? Non osavo immaginare
il dolore che provava, continuava comunque a chiedere l’elemosina
con un volto serio e innocente, troppo abituato ad ogni sorta di
dolore per avvertire quello provocato dalla ferita. Non era una ferita da
trascurare. Sarebbe andata in suppurazione. Passai tranquillamente davanti
al ragazzo, camminai pensando a cosa preparare per cena.
Di ritorno a casa fui accolta dagli urli dai quali ero scappata via. Mwangi
era con i quattro bambini e stavano mangiando il gelato che avevamo
acquistato il giorno prima. Sperai soltanto che me ne avessero lasciato
un po’, frutta con noccioline era il mio gusto preferito. Le briciole
di dolce sparse sui mobili della mia cucina erano un chiaro segno
che avevano preso il tè del pomeriggio.
Mia sorella e suo marito mangiarono con noi prima di andar via con i lo-
ro figli. L’indomani c’era scuola e mandai i miei bambini a letto presto.
Vidi il bambino di nuovo nei giorni successivi mentre passavo con la
macchina. Persino a distanza avrei potuto dire che la sua mano si stava
gonfiando di giorno in giorno. Domani, dissi a me stessa un giorno mentre
accompagnavo i ragazzi a casa, domani dovrò dargli un’occhiata. In
quel momento ero troppo impegnata nel completare un articolo che
avrei dovuto consegnare al direttore di un quotidiano nelle primissime
ore del mattino successivo. Tuttavia, il giorno dopo tornai a casa tardi
e ancora una volta dimenticai il ragazzo.
Riuscii alla fine a vederlo molti giorni dopo. Si chiamava Gidi e non
aveva idea di dove fossero i suoi genitori. Sua madre aveva abbandonato
la loro baracca, composta da una sola stanza ed era andata via senza
far mai ritorno. Suo padre, non l’aveva mai conosciuto. Perciò Gidi
era stato costretto a badare a se stesso meglio che poteva. Due settimane
prima si era ferito con una lama di ferro arrugginita che i vicini
avevano lasciato nell’immondizia. La ferita aveva sanguinato per giorni.
Era peggiorata da quando l’avevo vista una settimana prima e di sicuro
c’era bisogno dell’immediato intervento di un medico.
Non mi sarebbe costato molto chiamare un dottore per dargli un’occhiata
e medicarla.
Gidi era sudicio da capo a piedi e non poteva entrare nella mia macchina
in quelle condizioni. Il suo cattivo odore avrebbe reso fastidioso
il tragitto verso l’ospedale. Con estrema cautela lo portai a casa. Wangechi
lo lavò lentamente prestando attenzione a non ferirgli la mano.
Come era bello Gidi con alcuni dei vecchi abiti e con le scarpe da ginnastica
di Maina. Non sapevo perché stavo facendo tutto questo. Non
capivo nemmeno l’improvvisa compassione che provavo per quel bambino
molti mesi dopo che era diventato parte integrante del paesaggio
vicino alla nostra strada.
Mi sedetti intorno al tavolo e lo guardai in silenzio mentre divorava il
pranzo. Non mangiava da molti giorni. Avevo paura del gonfiore, le sue
dita sembravano piccole salsicce e l’intero braccio era molto più scuro
delle altre parti del corpo. Non aveva sensibilità.
Gidi fu ricoverato non appena il dottore gli diede un’occhiata. La sera
dello stesso giorno il braccio venne amputato. Come avevo sospettato
l’infezione era troppo diffusa per poterlo salvare. Tuttavia, potei vederlo
solo il giorno successivo. Giaceva sul letto guardando di fianco il moncone
bendato. Naturalmente stava piangendo.
“Mi hanno tagliato la mano” disse tra i singhiozzi. Gidi sembrava così
spaventato.
Avevo un nodo alla gola che ingoiai difficilmente per trattenere le lacrime.
Sarebbe potuto accadere ad uno dei miei figli, pensai ringraziando
Dio. Non l’avrei sopportato se Kui o Maina fossero stati lì. Fui presa da
un senso di colpa non appena misi il braccio intorno a Gidi. Piangevo
a dirotto. Non volevo che mi vedesse piangere. Mi sorpresi di me stessa,
mi ero completamente disinteressata del ragazzo fino a qualche giorno
prima. Ora mi ritrovavo in ospedale che piangevo per lui e cercavo
di trovare le parole per spiegargli perché gli avevano amputato il braccio
durante la notte. Perché non mi ero comportata in modo responsabile
due settimane prima?
Andai a trovare Gidi ogni giorno per tutta la settimana in cui fui lì. Avrebbe
preso continuamente degli analgesici fino a quando il moncone non
si fosse cicatrizzato. Al termine del periodo di degenza sorse il problema
di dove farlo andare. Mwangi fu irremovibile quando avanzai la proposta
di ospitarlo fino a quando non si fosse sentito meglio.
“Quel bambino non può assolutamente vivere qui” protestò. “Potrebbe
essere rischioso per i nostri figli”. Era vero. Gidi nutriva molto risentimento
contro sua madre per averlo abbandonato e contro il mondo che
lo aveva ignorato. Non sapevamo come avrebbe potuto reagire con i nostri
bambini.
Misi un annuncio sui giornali per chiedere ai suoi parenti di prelevarlo
dall’ospedale. Nessuno si fece avanti. Gli orfanotrofi non avevano
intenzione di prendere un amputato per mancanza di personale che potesse
assisterlo a tempo pieno. Vedendo quanto Gidi mi aveva coinvolta,
Mwangi propose di assumere qualcuno che si prendesse cura di lui all’orfanotrofio
che, infine, lo accettò a questa condizione.
Il giorno in cui lo accompagnai all’orfanotrofio, era in lacrime, spaventato
da nuovi ambienti e nuove facce. Lo rassicurai dicendogli che Otieno,
il giovane uomo che aveva accettato l’incarico, si sarebbe preso cura
di lui fino a quando non si fosse sentito meglio. Fu difficile lasciarlo
così abbattuto perché sebbene Gidi fino a poco tempo prima era soltanto
un volto come gli altri fuori del mio cancello, gli eventi degli ultimi
giorni avevano creato una tale intimità che non avrei mai ritenuto
possibile con un ragazzo di strada. Promisi di rivederlo tutte le volte
che potevo e così feci.
Col passar degli anni Gidi diventò un bel giovanotto. I consigli che gli
diedi gli fecero superare il risentimento e la rabbia che aveva serbato.
Prima che Gidi comparisse nella mia vita avevo vissuto troppo comodamente
nel mio mondo per preoccuparmi dei meno fortunati. Ora mi
trovo a bussare sulle porte di legno di uno dei quartieri poveri della città,
coinvolta in un programma di innalzamento della soglia della povertà.
Una volta al mese aiuto a distribuire viveri e indumenti. Siamo riusciti
persino a raccogliere i fondi per il braccio artificiale di Gidi, quando aveva
10 anni, che ha così riacquistato fiducia tra i compagni. Era sempre
una gioia partecipare alla giornata di assegnazione del premio all’orfanotrofio
e vederlo sollevare il trofeo come miglior studente ed un altro
come miglior atleta.
Una volta ogni tanto lo invitavo a trascorrere una giornata con noi. Il
suo affetto e il suo apprezzamento per le piccole cose della vita mortificarono
molto me e la mia famiglia. Esercitò un’influenza positiva sui
nostri due bambini al contrario dei nostri primi timori. Quando era con
noi la casa si riempiva di buonumore. Ogni qualvolta andava via, Kui
e Maina non vedevano l’ora di rincontrarlo.
Oggi Mwangi ed io sediamo in chiesa dove ci sarebbero dovuti essere
i genitori di Gidi. Pronunciata la sua promessa, Gidi guardò nella nostra
direzione ed io gli lanciai un sorriso.
Avevo provato una diversa commozione per Gidi quando era entrato nella
nostra casa e ci aveva chiesto di fargli da genitori il giorno del suo
matrimonio. Il grande giorno era finalmente arrivato. Il tipo alto ed atletico
davanti a noi era affascinante nel suo nuovo abito nero. Simulò
una passerella per la quale applaudimmo e fischiammo in segno di approvazione.
Prima di uscire di casa per recarci in chiesa, Gidi mi prese in disparte
e mi disse: “Grazie per avermi dato una seconda possibilità, Mamma”.
Era diventato un terzo figlio per me e per Mwangi ed un fratello per
Kui e Maina. Grazie a questa esperienza abbiamo imparato una lezione
di gran valore.
La cerimonia si concluse nelle prime ore della sera. Mentre si allontanò
con la sua bella sposa, Gidi si voltò verso di me e sussurrò la parola
“Grazie”.