Il barbiere dove si parla di lettere_Fabio Cerretani, Prato
_Menzione Giuria terza edizione Premio Energheia_1996.
La prima cosa che facevo, quando arrivavo in una città nuova e sconosciuta, era quella di crearmi un minimo di ambiente e di abitudine. Cominciavo con i colleghi dell’ufficio dove andavo a lavorare, poi estendevo progressivamente il mio raggio d’azione andando di pari passo con le normali esigenze quotidiane che di volta in volta si presentavano. Sceglievo così un negozio di alimentari, uno di verduriere, ed un bar, e prendevo contatto con i relativi gestori, che avrei poi incontrato quasi ogni giorno. Con loro scambiavo quelle chiacchiere usuali che mi facevano avvertire una parvenza di inserimento nell’ambiente cittadino. Proseguivo avendo riguardo ad incombenze meno frequenti, ma altrettanto importanti: mi sceglievo un medico, un farmacista, un edicolante, un barbiere.
Le scelte che facevo dovevano essere molto oculate, perché in seguito, fino al nuovo trasferimento, difficilmente avrei cambiato. Ma ormai potevo fidarmi del mio istinto, affinatosi attraverso gli anni: notavo con cura i particolari, osservavo attentamente le persone, perfino annusavo gli odori.
Fra le scelte che dovevo fare mi preoccupava più di tutte quella del barbiere. Non tanto perché tenessi alla mia capigliatura in modo particolare: allora ero già una persona di mezz’età, portavo i capelli molto corti e con una normalissima scriminatura a sinistra. Quello che mi inquietava, dei saloni di barbiere, erano le chiacchiere che dentro vi si facevano, e che spesso, per la loro vacuità, annoiavano il mio interesse quando addirittura non offendevano la mia pur modesta intelligenza. Mi seccava dover presenziare a ragionamenti, che si pretendevano seri e approfonditi, sulla politica, le donne e lo sport. Era quindi quasi con un sentimento di rassegnazione che finivo per curare questa scelta meno delle altre, convinto come ero dell’ineluttabilità del mio destino.
Nella città di Genova finii per scegliere il barbiere di cui sto per dire più che altro per la comodità che rappresentava, rimanendomi di strada sul tragitto che facevo ogni giorno dall’ufficio a casa.
In un pomeriggio di aprile, quindi, feci ingresso nel salone, dopo essermi assicurato che non ci fosse troppa gente ad aspettare. In effetti, non c’era nessuno, ed il barbiere, che lavorava da solo, mi accolse correttamente, e con un pizzico di quella diffidenza verso il forestiero che chi è nato o vive qui da molto tempo non sempre riesce a dissimulare. Bisogna dire che lui non è di qui. È un tipo di siciliano piuttosto basso e magro, apparentemente nervoso. Non fa buona pubblicità alla sua opera di acconciatore, visto che lui per primo è completamente calvo, se si esclude una esigua striscia di capigliatura residua che gli corre lungo la nuca e le tempie. Una persona piuttosto modesta, a considerarne l’aspetto, ma, come avrei avuto modo di apprezzare in seguito, dalle convinzioni molto radicate, convinzioni che è solito difendere con accanimento e con dovizia di argomentazioni.
Il primo taglio che mi fece, volteggiando intorno alla mia poltrona con la grazia di un figaro, d’altri tempi, mi lasciò abbastanza soddisfatto, anche se, a causa della completa assenza di altri avventori, non potei minimamente valutare la qualità della conversazione. Solo verso la fine si presentò una persona piuttosto corpulenta, con un folto paio di baffi e anch’egli quasi calvo, che in seguito avrei saputo essere l’avvocato Mazzei, e che scambiò con il barbiere alcune battute che mi apparvero sulle prime comprensibili solo agli iniziati. E in un certo senso era così, perché facevano riferimento ad una discussione svoltasi il giorno avanti, conclusasi solo per la chiusura del locale. Intesi solamente che si citava ripetutamente lo Sturm und Drang tedesco, mettendolo in relazione all’opera giovanile di Puskin, quella de “Il prigioniero del Caucaso”, per intenderci.
Ero affascinato dalle movenze del barbiere, e ragionavo sul modo inconsueto in cui era riuscito ad estorcermi sommarie informazioni su chi fossi, cosa facessi a Genova, quale era il mio titolo di studio e quali i miei interessi dopo il lavoro. Ma rimasi addirittura colpito dalla competenza con la quale ribatteva alle tesi dell’avvocato. Si diceva d’accordo sul fatto che l’opera di Puskin presenti un ampio arco di atteggiamenti, non ultimi gli influssi di Byron nelle opere giovanili (“suggestioni byroniane”, si espresse per la precisione il mio barbiere), ma si oppose recisamente e quasi accalorandosi a chi gli parlava di echi dello Sturm und Drang.
Bisogna a questo punto sottolineare che io sono uno che legge molto, da sempre. Posso anzi dire che la mia esistenza si riassuma nei libri che ho letto, i cui titoli e autori tengo catalogati in ordine alfabetico in una rubrica commerciale. Come dice il commercialista Croatto, di cui parlerò più avanti, tengo “una ordinata contabilità delle lettere”. Lo faccio più che altro perché ormai i libri che ho letto sono moltissimi, e non tutti mi hanno lasciato dentro qualcosa, alcuni li ho proprio dimenticati. Non vorrei rischiare di leggerli ancora.
Nonostante le mie letture, però, non dovete credere che io sia una persona colta. Spesso anzi mi sento soltanto uno di quegli schedari metallici degli uffici pubblici, un vecchio mobile che contiene merce preziosa che lì non dovrebbe stare. Né dal gran rimasticare di lettere con cui ho riempito le mie giornate sono riuscito a far scoccare la scintilla della proprietà di linguaggio e della chiarezza dell’esposizione. Di questo fatto la colpa è forse mia, ma ciò non mi impedisce di sentirmi un po’ tradito. Mi sono impegnato duramente per cercare di capire le regole del gioco, e ora mi ritrovo ad essere solo una macchina da citazioni, che emette sentenze, aforismi e brani poetici senza comprenderli veramente, ed in maniera spesso inopportuna rispetto alle circostanze. È vero che quasi mai nessuno se ne accorge, perché raramente accade che ci siano intorno a me persone in grado di rilevare e sottolineare la mia goffaggine. Io non frequento gente che legga libri per diletto o per lavoro, e nella mia cerchia di conoscenze, passo, anzi, per uno spirito libero, per un originale.
Ma è con me stesso che non mi sento all’altezza. La letteratura continua ad essere un’abitudine della quale non afferro le motivazioni profonde. Continuo a leggere solo perché non riesco a smettere, e per la paura di abbandonare l’unica costante della mia vita, quella da cui mi aspetto una soluzione a tutti i casi della vita reale, da lei già affrontati e risolti in passato. A volte, però, avverto distintamente l’inutilità di fondo di questo lungo tirocinio cui mi sto sottoponendo. Mi sembra di non aver imparato niente. Mi sembra che la mia emotività possa sperimentare se stessa solo in un ambito puramente virtuale, quale quello della lettura, che finisce così per apparirmi come una protesi interiore per la mia sensibilità atrofizzata.
Capirete, quindi, la mia sorpresa nel sentire quello scampolo di conversazione, per di più in quel luogo in cui mi attendevo si discutesse di ben altri argomenti. Da parte di persone, poi – un avvocato e un modesto artigiano – che avevo sempre creduto interessati a tutt’altro.
Fu soprattutto per questa ragione che decisi di continuare a frequentare il salone di quel barbiere. All’inizio con cadenza all’incirca mensile, in coincidenza con il taglio dei capelli, poi inventandomi le necessità più varie, quali le lozioni antiforfora e contro la calvizie; finché, alla fine, non venni tacitamente accolto come un frequentatore abituale di quello strano cenacolo, e ciò a dispetto del mio ben scarso contributo alle elevate discussioni che vi si svolgevano. “Pupillo della vita”, mi chiamava l’avvocato Mazzei che, nonostante la mia non più tenera età, mi aveva preso sotto la sua protezione, sentendosi un po’ l’intellettuale Settembrini della Montagna Incantata.
Un cenacolo, ho detto, ma per la precisione non è che fosse proprio così. Ebbi modo di rendermi conto che non si trattava, come avevo pensato all’inizio, di un gruppo di persone più o meno casualmente riunite dal comune interesse per le lettere. Loro, infatti, non erano amici. Non si frequentavano al di fuori del salone del barbiere. Non si scambiavano né visite né libri. Si comportavano come persone competenti nei rispettivi mestieri o professioni, ai quali unicamente apparivano interessati a chi li incontrava in circostanze usuali. Solo, frequentavano questo posto, ci si fermavano la sera di ritorno a casa dal lavoro, a fare due chiacchiere anche se non avevano bisogno di nulla. Ed è allora che parlavano di letteratura. Ma lo facevano come se conversassero del più e del meno. Come se a spingerli fosse solo, come appunto accade nelle conversazioni, l’inopportunità di lasciar cadere il silenzio. Parlavano di lettere non per passione, ma per buona creanza, e con il gusto di esporre opinioni definitive. Esprimevano ovvietà letterarie, vacuità filosofiche. La letteratura era un argomento nobile ma, trattato con la serietà e l’approfondimento che di solito si riservano alle ciarle sul tempo e sul campionato di calcio.
Ed allora io penso che fosse il locale a suggerire in qualche modo riflessioni del genere. Che da quei pochi metri quadrati promanasse un’esalazione misteriosa che spingeva tutti i visitatori a dare il meglio di sé in quel senso, a dar fondo alle proprie conoscenze in materia, fosse pure a costo di saccheggiare le proprie scarse reminiscenze scolastiche. Si assisteva, quindi, alle divagazioni sull’ambivalenza dei moduli poetici in Lamartine, tipica del laureando in Lettere, come pure al commento di una poesia di Angiolo Silvio Novaro da parte del metalmeccanico dell’Italsider con licenza elementare. Entrambe le performances, però, erano accolte con placida benevolenza da parte dell’avvocato Mazzei, il vero padre spirituale di quella comunità multiforme di eruditi occasionali, e l’unico che, oltre al commercialista Croatto, potesse definirsi un vero appassionato.
Mazzei apparteneva a quella specie di avvocati, ultimamente per la verità in via di estinzione, che coltivavano altri interessi oltre la propria professione, e che riuscivano a conciliare l’amore per il diritto con quello per le lettere, ritenendoli solamente due diramazioni di un unico ceppo umanistico. Aveva un buon successo nella sua professione, ed era stimato dai colleghi, che però apprezzavano in lui soprattutto le caratteristiche di giovialone amante della buona tavola non meno che delle buone letture.
Ma fu la figura del commercialista Croatto quella che finì per interessarmi maggiormente. All’inizio, per la verità, collegavo male i suoi sofferti discorsi su Kafka ai calzettoni blu infilati dentro le lucide scarpe gialle di tipo inglese, e soprattutto alla grossa Mercedes nera, che in un gesto di pudore parcheggiava lontano dal locale del barbiere. Nel suo ambiente si vergognava di quella che era vista come una passione ben strana, o quantomeno superflua, in quanto non portava quattrini. Viaggiava sempre con i libri nascosti dentro una vecchia e usurata copia del “Sole 24 ore”. Li comprava in fretta e furia in decentrate edicole di periferia, gettandoli via o regalandoli dopo averli letti, e penso che fosse questo fatto a provocare un gap nei confronti dell’avvocato Mazzei, più svelto di lui in fatto di inserimenti degli autori nelle varie correnti letterarie. Infatti, Croatto non disponendo di una biblioteca, era costretto ad archiviare tutto mentalmente. Il suo era un disordinato abbuffarsi di libri, che obbediva all’incoercibile impulso di chi troppo tardi aveva scoperto le reali coordinate della sua vita. Sapevo che aveva avuto delle noie a causa di questa sua insana passione, che l’Ordine lo aveva fatto dimettere dalla carica di consigliere che ricopriva, perché, come diceva il Presidente, “non si poteva tollerare che un Ordine fortemente motivato come il nostro fosse rappresentato da persone di animo sensibile e molliccio”.
Penso che avesse ragione. Se Croatto non era all’altezza di dirigere procedure fallimentari spesso complesse, e comunque sempre delicate, doveva farsi da parte, e lasciare il suo posto a giovani più ambiziosi e più grintosi.
Strano, perché a vederlo non si sarebbe detto. Sembrava in tutto e per tutto un vero commercialista, con il suo vestito di ottimo taglio, il grosso nodo della cravatta, i capelli ormai brizzolati e l’aria di supponenza. Evidentemente, pensavo, è dentro che è molle. Come definire, altrimenti, uno che appuntava le sue pur originali interpretazioni della Metamorfosi in margine ai piani di riparto dell’attivo fallimentare, che sviluppava le sue osservazioni sul Dialogo del Devoto e dell’Ubriaco sulle buste che avrebbe dovuto utilizzare per inoltrare ai competenti Uffici le dichiarazioni dei redditi dei propri clienti?
Queste sue manie me le aveva confidate, con aria giustamente indignata, una sua impiegata con la quale ebbi tempo fa una breve frequentazione. Lei poi finì per andarsene da quello studio, perché non ne poteva più di accendere il computer e di vedersi apparire ponderose pagine di studi critici sul “Castello”, lì occultate da Croatto durante le sue insonni notti di letterato.
Lui aveva cercato di migliorarsi, di diventare un vero commercialista fino nel profondo. Aveva strapazzato qualche poveraccio sull’orlo del fallimento, prosciugandone il conto in banca. Aveva comprato una casa assurda e questo grosso Mercedes nero, che guidava con un senso di imbarazzo e che parcheggiava lontano; e quando incontrava i suoi colleghi e i clienti cercava di comportarsi come quelli ritengono debba comportarsi un serio commercialista: con un’aria poco convinta e quasi scusandosi, allora, si sforzava di raccontare barzellette di una volgarità e un cattivo gusto esemplari.
Ma tutto questo suo affannarsi non è che gli fosse servito a molto: i clienti che erano stati di suo padre, commercialista anch’esso, lo abbandonavano uno dopo l’altro, e mi diceva che gli sembrava di vivere la decadenza della famiglia Buddenbrook, e lui era Hanno. Insomma, cominciava a trovare difficoltà a mantenere i suoi calzettoni blu e le sue scarpe gialle.
Nell’ambiente del barbiere, però, era molto considerato proprio per le sue maceranti contraddizioni, e soprattutto dal barbiere medesimo, il quale riponeva un’attenzione tutta particolare nella cura della sua capigliatura. Noi ne eravamo quasi gelosi, perché riservava a lui i prodotti migliori, e gli teneva da parte come anteprima tutti gli ultimi ritrovati in fatto di prevenzione della calvizie e debellamento della forfora. Assegnava dei nomignoli affettuosi, che spesso solo loro intendevano, a tutti i prodotti che lui mostrava di prediligere. Lo sentivamo chiedergli, con aria complice “dottore, lo facciamo un Don Chisciotte?”, riferendosi alla tintura per capelli, che combatteva contro i mulini a vento dell’inarrestabile invecchiamento. Oppure “dottore, avrei delle Anime Morte da stuzzicare”, e questo significava che aveva ricevuto un nuovo prodotto per il ripristino del bulbo pilifero. E mentre il barbiere gli frizionava la cute, lui si abbandonava sulla poltrona, ed erano gli unici momenti in cui fosse veramente sereno, in cui si ricompattasse la sua personalità dissociata. Si lasciava andare a sognanti variazioni sul tema del tormento artistico, e diceva di sentirsi tanto Adrian Leverkühn, e che il diavolo, prima o poi, gli avrebbe fatto visita.
Fu durante una di quelle interminabili frizioni alla cute che Croatto si sbottonò, annunciandoci di avere scoperto di non essere solo un lettore, ma di avere anche qualcosa da dire. Anzi,da scrivere. Insomma, si era reso conto di essere uno scrittore. Un artista.
“Ah, questa poi, no! Non te la passo! Figuriamoci un commercialista artista!…”, saltò su inviperito l’avvocato Mazzei. “Finora ho sopportato tutto, da te. Le tue arie da dotto, da bohemien in Mercedes con vestiti di Armani. Le tue assurde disquisizioni sui significati del Processo. Ma che tu voglia anche scrivere…NO! E dove lo farai, nel tuo studio, tra un cliente e l’altro?”
La sparata dell’avvocato, solitamente così pacioso ed al massimo sottilmente ironico, ci sorprese tutti ancora più dell’annuncio di Croatto, che in fondo era nell’aria già da tempo. Il macellaio smise di polemizzare con la giuria dello Strega, che non aveva ritenuto di premiare il libro di Pontiggia, e cadde la conversazione. Si sentivano solo le imbarazzate sforbiciate di rifinitura del barbiere intorno alla testa in ebollizione di Croatto. Il quale non rispose subito, ma lo fece dopo qualche lungo attimo che parve di meditazione. Poi disse:
“Non ho più uno studio…e non ho più la Mercedes. Quanto ai vestiti di Armani, al momento non me ne posso permettere altri, dovrei comprarne.”
Mazzei doveva aver compreso che quella dell’ex-commercialista non era una semplice posa, perché gli fece, con un tono quasi affettuoso: “E cosa farai, ora?”
“Te l’ho detto, cercherò di scrivere. Intanto ho trovato lavoro in una casa editrice, poi vedremo.” “L’Ipsoa?”
“Ma no, l’Einaudi.” Mazzei si alzò con qualche difficoltà dalla poltrona dove era sprofondato, scosse la testa, batté una pacca sulla spalla di Croatto, e ci salutò dicendo “Mala tempora currunt…” Il macellaio si chinò verso il suo vicino per chiedergli sottovoce il significato della frase latina, ed ebbe una pronta e soddisfacente risposta dal laureando in lettere. Ma il vero significato, che poi era quasi una profezia, l’avremmo compreso solo qualche tempo dopo, ed era riferito non tanto all’incomprensibilità dei tempi, quanto a quello che ci aspettava qui, dal barbiere.
Dopo quel giorno, Croatto si trasferì a Torino. Passò a salutarci una sera d’inverno che fuori era già buio, e tirava quel forte vento dell’entroterra che è piuttosto frequente a Genova. Aveva i capelli spettinati, ed il barbiere guardava con pena alla sua paziente opera vanificata. La sera prima era stato a cena con l’avvocato Mazzei, ed ora girava tenendo orgogliosamente sotto il braccio la “Nobiltà dello Spirito” nell’edizione dei Meridiani di Mondadori, che lui gli aveva regalato per ricordo. Aveva la sua benedizione, insomma, ed anche, come nelle più ruffiane lettere commerciali, l’assicurazione della sua distinta considerazione. Ci salutò tutti, presenti ed assenti, frettolosamente, perché aveva il treno dopo mezz’ora. Sembrava sopraffatto dall’entusiasmo per la nuova vita che andava ad iniziare, e ci assicurò che avrebbe mantenuto i contatti, su questo non avessimo dubbi, in fondo era anche grazie a noi che aveva scoperto la sua natura di artista. Tirò fuori da una modesta borsa da grandi magazzini, dove aveva radunato i pochi vestiti non firmati che aveva voluto con sé nella nuova avventura, un testo commentato sulla quarta direttiva Cee in materia di bilancio, e lo donò al barbiere, dicendo:
“Per lei non sarà certo un argomento appassionante come il suo Püskin, ma lo tenga per ricordo. Mi sono permesso di vergare una piccola dedica …”
Il barbiere sollevò la copertina in brossura, e apparvero la scrittura di Croatto, che così tanto somigliava al tracciato di un elettrocardiogramma, e il tratto nitido ed elegante della sua gigantesca Mont Blanc a ogiva. La dedica era scritta nello stile di una persona in fondo abituata più alla partita doppia e alle lettere commerciali che alle forme eleganti, e diceva:
“In partenza per un viaggio precluso ai più, e restando in attesa di regalarle il mio primo romanzo, mi pregio farle dono di questa opaca testimonianza del tempo che fu. F.to: dr.Croatto”.
Mi sembrò anche ambigua. Il viaggio precluso ai più poteva, sì, essere inteso come l’enfatizzato commiato dalla quotidianità di uno scrittore lanciato verso le vette dell’arte, ma anche come il momentaneo congedo di un benestante in partenza per una crociera molto costosa. Il destinatario però ne fu toccato. Soffocò un singhiozzo, ma lasciò brillare una lacrima, e infilò con amorosa cura il libro nello scaffale dove erano raccolte le lozioni e le pomate dell’ex-commercialista.
“E lei, dottore, mi raccomando, a Torino…non vada dal primo barbiere che incontra, ne scelga uno alla sua altezza”, disse poi, ma voleva dire “alla nostra”.
Da quel giorno Croatto non si vide più, né giunsero sue notizie.
Al suo addio, seguirono giorni strani, e stranamente vuoti. Si parlava del tempo, e si usciva sul belvedere che dava sul mare per studiare su quella immensa prospettiva i possibili sviluppi meteorologici. Da lassù lo sguardo spaziava senza ostacoli, e la veduta sembrava suggerire qualcosa che somigliava a un principio di ispirazione. Soprattutto colpiva me, che non avevo mai vissuto in una città portuale, il suono delle sirene delle navi, e l’odore del vento che sapeva di salsedine, e la luce riflessa dall’acqua.
Ero abituato a città che si sgranavano e degradavano in orribili periferie, e mi colpiva quell’improvviso e quasi rispettoso interrompersi dell’abitato di fronte al mare.
“Fa venire voglia di partire, vero dottore?”, mi diceva il macellaio, uscendo dalla sua bottega per fumare una sigaretta. In quella zona, la grande città si restringeva a quartiere minuscolo come un piccolo paese della Riviera, stretto intorno alla piazzetta con le aiuole, le panchine e le palme.
Il barbiere, dal canto suo, trasaliva ogni volta che si apriva la porta, e a volte, quando arrivavo di sera e non c’era nessuno, lo sorprendevo a sfogliare con aria mesta la guida alla compilazione del bilancio secondo i nuovi criteri comunitari. Quell’anno, mi disse, avrebbe preparato da solo la propria dichiarazione dei redditi, perché nessuno poteva sostituire Croatto.
Si sentiva che qualcosa stava preparandosi. E quando il barbiere ci confessò che la notte precedente aveva scritto un racconto, comprendemmo il senso del vaticinio dell’avvocato Mazzei, e anche del perché lui continuasse a parlare del commercialista fuggiasco con un misto di tenerezza e di rancore. Croatto aveva infranto un tacito patto tra i frequentatori del salone: quello di leggere a volontà, di parlare di opere e di autori fino a stancarcene, ma di non scrivere mai niente. Non ci dovevamo immedesimare, non dovevamo prenderci sul serio, e il confronto con gli autori delle nostre letture avrebbe dovuto continuare a scoraggiarci per sempre. Invece Croatto aveva osato, e nel modo più clamoroso. Logico che ora cominciasse a germogliare il seme che lui aveva interrato.
Il racconto che il barbiere ci lesse era orribile. Possedeva nello stesso tempo l’enfasi di Jünger e la retorica di Toto Cutugno. Voleva essere onirico ed evocativo ed invece era solo sonnolento e caricaturale. C’era perfino qualche errore di sintassi, contrabbandato dall’autore come ardita licenza poetica. Parlava, confusamente e a lungo, dell’invisibile ricchezza interiore di un modesto pescatore della riviera. Presentava immagini stucchevoli: notti trascorse a comporre musica dodecafonica, l’ottusità della gente del paese che non lo comprendeva, e l’amore di una ragazza semplice, che ugualmente non lo comprendeva, ma che almeno lo amava sinceramente. Attraverso l’amore di lei, il pescatore imparava ad apprezzare le cose semplici della vita, metteva su famiglia e rinunciava ai propri sogni di gloria, bruciando in un falò purificatore gli spartiti odoranti di pesce azzurro.
Nessuno ebbe il coraggio di stroncarlo. Ci fu chi parlò di risvolti autobiografici, chi di parabola con intenti educativi, chi addirittura di un bildungsroman. Il barbiere si scherniva, dicendo “è solo una cosetta …”. Io stesso partecipai al coro degli elogi, e l’inconfessata ragione del mio atteggiamento era che anch’io nutrivo la speranza di riuscire, prima o poi, a mettere su carta le mie suggestioni semplici, e di sottoporle all’approvazione di quella assemblea di ipocriti dilettanti.
Il passo successivo su quella strada pericolosa lo compì il guardiamarina Franzetti, che, estraendo dalla tasca della divisa un esiguo fogliettino, annunciò: “Anch’io avrei una cosetta…dopo tutto anche Conrad era un marinaio…l’ho già spedita ad una rivista letteraria, ma vorrei leggerlo in anteprima a voi”. Era già convinto della pubblicazione, e ci fece sorbire un allucinante poema epico guerresco, che vedeva una sua proiezione eroica compiere gesta mirabolanti e ciò nonostante rimanere la stessa persona modesta e disponibile di sempre, che, di tutti gli onori propostigli, si limitava ad accettare un vitalizio dallo Stato ed il cavalierato della Repubblica. I mediocri restano tali anche nell’estasi letteraria.
Quella sera il salone, pur con le serrande abbassate, restò illuminato fino alle undici, e da allora non ci fu più pace. Ci sentivamo tutti Croatto, e nella perdurante assenza di sue notizie, davamo credito alle voci più disparate sul suo conto, identificando il nostro destino di artisti con il suo. C’era chi lo aveva visto a Fiumicino, con una lunga barba e a fianco di una donna vistosa, mentre stava per partire per la Polinesia, sulle tracce di Gauguin. Altri dicevano che l’Einaudi lo avesse licenziato, e che lui facesse la fame in un solaio di piazza San Carlo, mentre scriveva il suo primo grande romanzo. Voci più credibili, infine, lo davano in India per un corso di letteratura italiana che teneva presso l’Università di Dehli. Sentendo questi discorsi, l’avvocato Mazzei nicchiava, perché forse lui già sapeva, anche se non ce lo poteva ancora dire.
In effetti, non erano mai notizie di prima mano. Nessuno aveva visto personalmente il commercialista. Nessuno gli aveva parlato. Tutti lo avevano saputo dall’amico di un amico, dal genero del cognato, dal suocero del cugino. È così che nascono e si diffondono le leggende metropolitane, senza che si arrivi mai a capire dove sia scoccata la prima scintilla.
Poi arrivò una misteriosa cartolina dal Venezuela, indirizzata al “circolo dei letterati”, che conteneva molti saluti e l’assicurazione che lì c’erano molti altri come lui. Ma non era firmata.
“Troppo banale – disse il barbiere – non può essere sua.”
“Cosa ti aspettavi, un trattato sugli scrittori sudamericani? – lo rimbeccò Mazzei – È lui, è lui, vedrete…”
Iniziammo a sospettare che c’era qualcosa di strano quando comparvero due ispettori di polizia. Erano due tipi vestiti come i loro colleghi americani, intravisti in polizieschi televisivi durante popolate cene in famiglia. Era a loro che dovevano ispirarsi, imitandone la sgangherata masticazione di chewing-gum e le maniere brusche e spesso scortesi. Si erano calati nel loro ruolo di detectives senza riguardo per nessuno, come se il mondo intero fosse colpevole e stesse a loro dimostrarlo. Fecero quasi piangere il povero barbiere.
Cominciarono con il chiedergli quali fossero i motivi che avevano spinto lo scomparso a frequentare quasi giornalmente il suo salone.
“Nient’altro che la comune passione per le lettere …”, riuscì a farfugliare, guardandoci come se si aspettasse da noi quell’aiuto che, vigliaccamente, non gli fornimmo.
I due poliziotti continuavano a dirigere verso di lui due sorrisi da rettile. Pensavamo che sospettassero che il salone del barbiere fosse la copertura di qualche altra attività, naturalmente illecita, che solo loro potevano sapere. Ma non disponevano delle parole per formulare un sospetto, e si rifugiavano nel gergo inquisitorio più abusato. Gli chiesero, come in una litania, quando avesse visto Croatto per l’ultima volta,
di che cosa avevano parlato, se ricordava come fosse vestito, se fosse solito frequentarlo anche fuori dell’orario di lavoro. Nessuno dei due prendeva appunti delle balbettanti risposte del barbiere. Sembrava che questo misero interrogatorio fosse solo un percorso obbligato e preliminare per giungere all’unica domanda che veramente li interessava. Quando finalmente la formularono, senza minimamente smettere quel loro sorriso, il barbiere sobbalzò sulle corte gambette, ferito nel profondo della sua mascolinità siciliana:
“Quali rapporti c’erano veramente tra lei e il dottor Croatto?”
“Che cosa…che cosa intende dire?”
“Sì: che cosa provava per lui?”
A questa comica possibilità non avevamo mai pensato: il barbiere era buliccio?
Con gli occhi puntati a terra in un intenso colloquio di sguardi con le punte delle scarpe, credo che ripensammo tutti a quel suo scattoso e sculettante arrotolarsi intorno alla poltrona del commercialista sognante. Alle loro lozioni e frizioni. A quel loro reciproco e complice ammiccare dopo una citazione di Püskin.
Nella risposta del barbiere si assistette al dissolversi di ventisei anni di vita al Nord, in gran parte spesi a cercare di assimilarne il dialetto. Si alzò sulle punte dei piedi e prese a sventolare sotto il naso del poliziotto che aveva parlato le dita della mano, nel gesto interrogativo proprio della sua terra d’origine:
“Cchi mminchia dici? Ma cchi mminchia dici? Pezzu di ricchiuni si’ttu! Frociu e pedirasta!…”
Con la concentrata fissità dei momenti topici, vidi brillare in controluce un arcobaleno di minuscole perline di saliva, che traeva origine dalla bocca convulsa e impermalita del barbiere e, dopo un arcuato tragitto aereo, andava a morire sugli occhiali scuri del detective. Questi perse in un colpo le sue arie da Marlowe di provincia, e cominciò addirittura a giustificarsi: stavano facendo il loro lavoro, dovevano vagliare tutte le possibilità… Ma il barbiere non li ascoltava già più, occupato com’era a riordinare forbici, pettini e spazzole su una mensola. Fremeva per l’atroce sospetto, e concedeva al resto del mondo soltanto le spalle erette a difesa della propria integrità virile.
I poliziotti se ne andarono innestando una retromarcia umiliante e ingloriosa. Li vedemmo, ormai lontani in fondo alla piazzetta, uno che gesticolava verso l’altro, che si era tolto gli occhiali e li puliva con un fazzoletto.
Ma lo scandalo era solo rinviato, e non si trattava di una storia dai risvolti piccanti. Era questione di soldi. La bomba scoppiò contemporaneamente in molti angoli della città. A noi fu recapitata dalle mani di un messo comunale, una sera d’ottobre che fuori pioveva. C’era il macellaio che stava recitando un lungo componimento poetico in rima, qualcosa che aveva a che fare con la tragedia delle bestie macellate. Il messo consegnò al barbiere, che firmò per ricevuta, un avviso dell’Esattoria dal quale risultava che non erano state versate le imposte dovute per gli anni precedenti, delle quali si richiedeva ora il pagamento con interessi e penalità cospicue.
“Non è possibile, ci ha sempre pensato il dottor Croatto!…Ci deve essere un errore…”
Ma non c’era nessun errore. I soldi che il barbiere gli aveva dato per i versamenti, il poeta-commercialista se li era tenuti per sé. Nello stesso modo si era comportato con tutti gli altri suoi clienti, finché, messi insieme alcuni miliardi in una banca svizzera, aveva simulato la crisi artistica, la rivelazione della sua intima essenza, ed era fuggito all’estero.
“Ora vive in Venezuela”, ci raccontò la sera dopo l’avvocato Mazzei, che era il più informato di tutti, “e vi assicuro che vive bene. Vive di rendita, e non potrà neanche essere estradato. Sarete voi clienti a dover pagare nuovamente tutto quello che avevate già pagato.” Ma non lo diceva con malignità, era anche lui incredulo, e ce l’aveva con se stesso per come era stato preso in giro: “Dovevo saperlo, un commercialista resta sempre un commercialista …”
Il barbiere nella disgrazia fu molto signore. Non inveì, non maledisse, non urlò. Si limitò a far sparire le lozioni di Croatto dalla vetrinetta mausoleo, e del testo sulla quarta direttiva Cee si persero le tracce. Dopo qualche tempo, scomparve anche la gigantografia di Püskin che teneva su una delle pareti, e che era un po’ il simbolo del locale. Io poi me ne andai da Genova, ma so che ha ottenuto una rateazione del pagamento, e che ne sta onorando le scadenze con una dignità propria di altri tempi.
L’unica sua reazione un po’ sopra le righe mi dicono che fu quando, qualche mese dopo i fatti, il guardiamarina Franzetti si lamentò per la mancata pubblicazione del suo poema epico-guerresco sulla rivista cui l’aveva inviato. Il barbiere si girò con una espressione furente che nessuno gli aveva mai visto, e brandendo le forbici come la spada dell’angelo vendicatore, gridò:
“GUAI!!! GUAI A CHI PARLA DI LIBRI NEL MIO LOCALE!!!”