Il bisnonno tirò un ultimo peto László Kiss, Gyula (Ungheria)
Racconto vincitore prima edizione Premio Energheia Europa 2001*.
Traduzione a cura di Beatrice Töttössy.
Il testo nelle due lingue edito da Carocci editore
Vedi che è vero, ogni cosa di cui sono fatto
aspira a passare dalla terra sull’altra riva
– come se di là il nulla sbocciasse, in eterno.
Peter Handke
Il bisnonno è ormai un pugno di stracci appoggiato a un angolo. Un pugno di stracci con un cuore, con polmoni, fegato e midollo. Dicono anche che il cortile della nonna, il cortile dell’incanto ai tempi in cui da lì mi avviavo instancabile verso mete inverosimili e strambe, il cortile dove, nella veranda posteriore, per tutta la vita la bisnonna ha pelato patate che sapevano d’amaro perché gli animaletti sistematicamente le intaccavano, quel cortile, il cortile incantato della nonna, è ora invaso dalle erbacce.
Dunque, la storia è che Ádi arrivava sempre nel pomeriggio, hai finito i compiti?, e subito ce ne andavamo in fondo al cortile incantato della nonna, a rintanarci nella serra di plastica, dove potevamo armeggiare a volontà nella vecchia borsa da pesca del bisnonno e nel suo sdrucito sacchetto per gli attrezzi dei tempi del militare, che ora sapeva di semola, e potevamo tentare di sbrogliare la lenza di nailon “Tartaruga”, che era sempre aggrovigliata, un filo robusto, un cinquanta, che il morso del luccio non avrebbe mai spezzato, di questo eravamo convinti tutti, ma che i lucci spezzavano regolarmente, sempre, quando era pieno inverno, con noi che ci congelavamo al braccio morto del fiume, dove, alla foce, si congiungeva con la corrente rapida dell’acqua viva e si formava una quantità di vortici e dove perciò era l’unico punto adatto a far arrivare la lenza, e lo spezzavano anche se era estate e noi, dal posto del signor Gottfríd, dalla “sua” base nel falasco abituavamo alla nostra presenza i piccoli e vigorosi carassi e dovevamo farlo senza dimenticarci del signor Gottfríd, che era un vecchio solitario, tipo quei donnaioli eternamente con l’amaro in bocca per la sbornia del giorno prima, e era fierissimo del posto che si era fatto e mantenuto da sé, un luogo segreto tra salici con lunghi rami pendenti e un muro fitto di canne massicce, dove non amava per niente che venissero altri, perché aveva l’abitudine di piazzarcisi con qualche zitella in attesa che l’esca facesse effetto e raramente tornava a casa a mani vuote, e noi continuavamo a non capire come mai in quel posto, nella base del signor Gottfríd, persino d’estate capitassero i lucci o almeno, ma sempre e di sicuro, gli abramidi e i carassi. Allora una mattina mi decisi a far vedere al bisnonno quel posto, quel luogo segreto del signor Gottfríd, che era sempre divinamente approvvigionato e che permetteva anche a me di tornare a casa, quasi sempre, con un secchio pieno di abramidi, ma il bisnonno, che a quei tempi portava lenti già un po’ più spesse e se qualche volta si concedeva un bicchiere di vino con acqua frizzante, il fröccs, lo faceva esclusivamente dopo il pranzo della domenica, e quando mi presentavo a lui, fiero dei miei secchi pieni di abramidi, si limitava a dirmi, senza energia, carpette!, il bisnonno non ce la fece a reggere alla pendenza dell’argine, perse l’equilibrio, ruzzolò su se stesso e scivolò sui pantaloni di velluto giù lungo il ripido sentiero, si alzò una nuvola di polvere, si ruppero in mille pezzi le flessuose canne, lui urlò terribili insulti al cielo e finì bocconi in fondo al canneto, proprio là dove Ádi stava tentando di snodare il “Tartaruga” perennemente aggrovigliato. Il fatto che il bisnonno fosse finito per terra e che, per quel giorno, non lanciasse la lenza, non fu un gran guaio, e Ádi fu il più contento perché il bisnonno spesso faceva finire l’attrezzo sulla riva opposta, che qualche volta ad Ádi c’erano volute ore per tirare fuori l’amo dal folto del falasco, in questi casi il piombo rimbalzava verso di noi ad altissima velocità e una volta era finito dritto sulla fronte di Ádi, che però non disse neppure una parola, ma preparò veloce trentaquattro ami e desquamò sveltissimo gli abramidi già tolti dall’acqua, per mettersi infine ad ammazzare il tempo avanzato facendo flessioni a terra. Nessuna meraviglia, la pesca non doveva essere presa alla leggera, questo Ádi lo aveva imparato più che bene, tanto da prendere persino in considerazione l’eventualità di abbandonarla, perché, quando un giorno il bisnonno aveva fatto ruotare a lazo la canna di bambù a doppio mulinello e aveva lanciato l’amo innescato con un grasso lombrico da letame, noi a lungo avevamo aspettato il tonfo del piombino nell’acqua, ci meravigliavamo molto, il bisnonno addirittura aveva parlato e aveva detto, dove diavolo è finito?, al che Ádi, che era lì di dietro, preso dal “Tartaruga” aggrovigliato, aveva risposto con voce debole nel mio culo, il filo infatti sbucava fuori dai suoi calzoni di pelle corti e stretti, era lì che penzolava con Ádi avvilito che fissava il vuoto mentre il lombrico scivolava adagio, sul robusto nailon, in lento avanzamento verso il basso.
Dopo quel giorno, dopo il ruzzolone lungo la costa dell’argine, il bisnonno guardava sempre meno verso il fiume e alla fine chiuse definitivamente con la pesca, anche se nella cittadina si continuava a dire e ripetere quel vecchio Kanczler! quel Tittya Luzsvik! e questo perché ambedue di pesca se ne intendevano per davvero, infatti possedevano parecchie scatole fornitissime dei migliori ami a uncino del tipo, “Musztáng”, dove si trovavano persino un amo dorato a uncino munito di molteplici dardini, l’amo con la barba, un altro a gambo lungo e tre dardini, e ancora un amo, davvero favoloso, di carbonado color rame, perfetto per il pesce persico, per la pesca, e a questo il bisnonno, nonostante non andasse mai a pesca, ci teneva moltissimo, tanto che nella tasca laterale del sacchetto per gli attrezzi che sapeva di semola lo sistemò nella zona riservata agli oggetti segreti, da dove lo tirò fuori una sola volta, quando, affaticato dalla caccia mattutina alle carpe, per giunta sotto un sole più forte del solito, le mani non gli bastarono per tirar via il tappo della bottiglia della grappa, e neppure Tittya Luzsvik ci riuscì, perché la pesca mattutina della carpa lui la reggeva ormai solo fino a un certo punto e in effetti alle nove, l’ora in cui il bisnonno era lì a lottare con il tappo incastrato, normalmente lui già dormiva sbuffando pesante dalla coppola tirata sugli occhi, soltanto quella volta il bisnonno adoperò il favoloso amo di carbonado color rame, l’amo perfetto per la cattura del pesce persico, e però, per l’appunto, lo trovammo raddrizzato invece che ricurvo nella zona segreta del sacchetto per gli attrezzi che sapeva di semola, zona da cui, ogni volta che con Ádi perlustravamo le tasche, sistematicamente uscivano oggetti di valore, l’astuccio aperto di un preservativo, una fiaschetta di vetro opaco, alcune fotografie dai margini logori con volti indistinguibili, ami a uncino raddrizzati, filo di nailon e coltelli da tasca, ricordi di pesche dei tempi andati, di antiche, segrete cacce riuscite.
Ai tempi delle nostre perlustrazioni fra i segreti del sacchetto per gli attrezzi, il bisnonno non andava più a carpe. Non andava di prima mattina, perché in quelle ore stava seduto sul divano senza dire una parola, in qualche punto gli si era scucito il tessuto, tutto consunto, della giacca di velluto che indossava e di tanto in tanto un rutto gli riportava alla bocca i resti della frittata male masticata oppure la peperonata, il lecsó, finiva a seccarsi sui suoi baffi. Neppure nella tarda mattinata andava più, perché erano le ore in cui Marika, assunta per assisterlo, si dava un gran da fare nel cortile, nel cortile incantato della nonna, e appendeva, tutta dinamica, sul filo “Tartaruga” teso fra l’officina e lo sgabuzzino per la legna, i pigiami ingialliti appena lavati, mentre il bisnonno, nella cucina estiva, per tenere in esercizio le ossa addormentate, con un lento movimento meccanico si pettinava i pochi, radi capelli color bianco calce. Nei pomeriggi neanche andava più il bisnonno a pescare, perché, in quel lasso di tempo, quando anche Ádi arrivava, il cortile spesso si riempiva di gente, venivano in visita Tittya Luzsvik e i suoi e mentre io mi rintanavo con Ádi sotto la tenda di plastica dove indisturbati e felici ci abboffavamo con gusto divino di pane e marmellata o magari con il filo “Tartaruga” giocavamo a strozzare le galline nel pollaio, il bisnonno con la bisnonna e Tittya Luzsvik con la moglie, riparati dall’ombra gigante del vecchio pero e della tettoia del cancello di legno tinto di lilla, sedevano a testa china, e fra tutte la testa più china era quella di Tittya Luzsvik, che aveva anche lui ormai rinunciato alla pesca perché un giorno, al suo solito posto nel falasco all’inizio di Ponte Monco, un gruppo di giovani teppisti l’avevano aggredito, l’avevano picchiato in testa, vecchio di merda!, lo avevano spinto a calci fino all’attrezzo per le arrampicate nel vicino parco giochi e, per ultimo, anche il suo vecchio sacchetto di attrezzi gli avevano tirato dietro, sparisci!, quel bellissimo sacchetto che era una favola, su cui sua moglie aveva ricamato varie figure, due carpe abbracciate, un canale, un ramo morto di fiume, sullo sfondo un ponte, anche quel sacchetto gli avevano tirato dietro, che come l’altro conteneva un taschino nascosto, uno spazio segreto, ma questo, che nel sacchetto di Tittya Luzsvik ci fosse uno spazio segreto, a quei teppisti non interessava affatto.
E poi il bisnonno nemmeno la sera andava più a pesca, perché, nelle ore serali, era già sul divano rannicchiato e chiuso in un silenzio offeso, meno quelle volte in cui si alzava, raggiungeva Marika con lo sguardo fisso, ho un sacco di merda addosso, e allora doveva essere accompagnato a passi ben ritmati fino al baracchino del cesso, e la cosa andava ripetuta anche più tardi, anche la notte, almeno per tre volte, giacché da solo non ce la faceva più a camminare con il ritmo giusto, non era più quello di una volta, quello dei balli in maschera nella piccola città o quello del fronte, in servizio come ciclista, me lo dicevano sempre, e raccontavano anche che gli avevano sparato alle gambe e che una pallottola gliele aveva attraversate le gambe e questo per me divenne facilmente un’immagine perché il bisnonno aveva gambe talmente arcuate che il pomeriggio, quando di solito se ne stava seduto zitto accanto al cancello di legno lilla, la gatta Cili e il bassotto Morzsi si mettevano a giocare a fuori l’agnello, dentro il lupo attorno ad esse.
Ad ogni modo: l’immagine del soldato ciclista in guerra mi faceva sognare con grande gusto e io correvo in effetti a darne notizia ad Ádi e così continuavamo insieme a pensare più a fondo l’immagine del bisnonno sulla piazza centrale della cittadina rasa al suolo e avvolta dal fumo, mentre pedalava fra i cadaveri e urlava a squarciagola fuori di sé carpette!; già a quei tempi, quando fantasticavamo sul bisnonno che pedalava in guerra, non potevamo che immaginarcelo in questa unica maniera dato che, ogni volta che tornavo dal fiume con il secchio pieno di abramidi, lui a mezza bocca, con un suono appena decifrabile, diceva soltanto carpette!; più avanti invece neanche lo sguardo alzava più, per cui a un certo momento non mostravo più la pesca a nessuno, né alla nonna alla quale bastava vedermi preparare il galleggiante dell’amo per farsi venire un conato di vomito, né alla bisnonna che passava il pomeriggio seduta con lo sguardo nel vuoto e in attesa della litania serale e che, quando le mostravo fiero il mio luccio, mi faceva un cenno di complimento, bello!, ma che si complimentava con me anche quando tornavo con il secchio vuoto e con i lombrichi inutilizzati; e non mostravo più il secchio carico di pesca specialmente al bisnonno, il quale, quando io in fondo al cortile, davanti all’officina, sul lastricato usurato pulivo gli abramidi, sonnecchiava all’ombra del cancello lilla con la testa china, tirando fuori però, ogni tanto, un profondo sospiro, carpette!, un sospiro che a mano a mano andò tramutandosi in un mero sospirare continuo sempre più intenso, impossibile da calmare e, alla fine, in una conclusiva notte profonda e muta.
Del grande interesse della bisnonna per la messa, fummo costretti con Ádi a rendercene conto ben presto, perché ogni volta che lei si avviava verso la chiesa era come splendesse di più il sole. Quando la bisnonna, con il fazzolettone fissato con gran cura in testa e con gli stivali che scricchiolavano, s’avviava verso la chiesa, sistematicamente incrociava sull’angolo la moglie di Tittya Luzsvik e la signora Teca, che abitava nella strada accanto in una casa con la veranda recintata di legno verde e dalla quale faceva un gran piacere fare un salto di tanto in tanto, perché era troppo bello mettersi al cancello ad aspettare che arrivasse, a passi lenti e senza fretta, Báttya, il marito secco e ossuto della signora Teca, ben sapendo che quel tempo di attesa era sufficiente per trovare sulla veranda nella cesta il pane fresco e odoroso del forno Zsarnóczay, morbido e con ancora nei tagli della crosta tracce non bruciate della farina che era stata cosparsa sulla pagnotta cruda. Ma la bisnonna incrociava anche Annuska, la signora dal fazzoletto nero e sempre giovane, la misteriosa cuoca di via Árnyas, che arricchiva con la laska, le tagliatelle fatte con le sue mani, la zuppa di patate insaporita con panna acida e che nella dispensa non faceva mai mancare una buona grappa fatta in casa, una robusta pálinka di pere e, il lunedì di Pasqua, quando il rito voleva che i maschi aspergessero di profumo le femmine, aveva sempre visite più numerose del consueto e, anzi, qualcuno passava da lei persino nella “giornata della donna”, o di domenica, solo un brindisi, cara Anna, per il fine-settimana, e che, per questa ragione, era stata abbondantemente circondata da invidie, ma, ciò nonostante sulla sua tomba, dove poi la bisnonna passava ogni giorno, l’edera non è mai stata gialla. La bisnonna incontrava anche Tóni Osze, che era un magnifico pescatore di luccio, ma senza licenza, e che io andavo a trovare spesso al braccio morto del fiume, alla base, nel luogo segreto, dove lui di solito mi metteva in mano un mucchietto di piccoli lucci, di sigarelli, avvolto in carta di giornale ingiallita, zitto! è per zia Katyuska, perché era riuscito a pescare solo i sigarelli, ma intanto continuava a tenere d’occhio in silenzio i galleggianti della lenza nel loro ondeggiare agitato e nessuno mai riuscì a beccarlo. La zia Katyuska, pur essendo priva di licenza, dava gli appuntamenti a Tóni Õsze fra i cespugli e gli arbusti sul retro della chiesa e anche lei era una che la bisnonna incrociava lungo la sua lenta camminata verso la messa, e lei i sigarelli li prendeva e subito li buttava nello strutto bollente, non appena io arrivavo nell’angusta cucina, in fondo al giardino, accanto allo sgabuzzino della legna, una cucina estiva dove, sulla parete dietro a un enorme divano, stavano appese due fotografie incorniciate, una con una grande famiglia, l’altra con una famiglia meno grande, due giovani, una ragazza e un giovanotto, e poi, su un comò, in un vaso dall’orlo scheggiato, fiori sempre freschi e fragranti. Perché realmente le cose andavano così: lungo la strada verso la messa la bisnonna incontrava sempre tutti, perché la messa era l’unica occasione per incontrarsi con tutti, anche con quelli con cui non ci si incontrava mai, così diceva sempre la bisnonna mestamente, e solo con il bisnonno non riusciva a incontrarsi, perché per lui la messa non esisteva, e questo da molto tempo, da quando da ragazzino, chierichetto, era stato addirittura cacciato dalla parrocchia perché di nascosto si beveva il vino rosso e perché, durante la distribuzione dell’ostia, mandava sordi peti.
Vero è che io pure spesso accompagnavo la bisnonna alla messa e inoltre che Ádi si unì a noi almeno tre volte, fin quando smise di frequentare la chiesa perché, un giorno, quando il parroco Pepi, che aveva orecchie a sventola, era giunto all’ultima frase del rito, la messa è finita, fratelli, lui era esploso in uno sghignazzo, la fiaba è finita bambini, Orecchiotto se ne va’ – (Cantilena con cui, negli anni settanta, terminava quotidianamente una favola televisiva che aveva a protagonista un orsetto chiamato “Orecchiotto”)-, e a quel punto le moltitudini erano entrate in tumulto e lui era corso via con i suoi stivaloni di gomma gialla che – intollerabilmente – facevano plaf plaf plaf, un’altra volta invece Ádi aveva alzato la voce, sopra a quella di tutti gli altri, all’ultima frase, ringraziamo Dio onnipotente!, e però aveva aggiunto con una gran risata ma questa, caro mio, questa è autoironia!, al che le moltitudini, anche in questa circostanza, lo avevano sfidato con sguardi di censura; la conclusione fu che il prete non ne poté più del suo gregge e lo abbandonò e noi, quando ci raggiunse la notizia che Pepi, il parroco dalle orecchie a sventola, aveva deciso di piantare la città, restammo terrorizzati, perché senza il parroco era finita la festa – o, detto da Ádi, la giostra aveva chiuso – e fu allora che anche io rinunciai a frequentare la chiesa, per giunta a quei tempi fummo presi da cose molto più importanti con la conseguenza che, alla fine, i vicini andarono da mio padre ad avvertire che, insomma, avevo proprio toccato il limite.
Con il tempo, al momento in cui la bisnonna usciva per andare in chiesa il bisnonno si faceva sempre meno trattabile, si alzava di continuo dal divano, mentre i suoi ginocchi urtavano l’uno contro l’altro, a volte addirittura perdeva l’equilibrio e cadeva sul tavolo, dove Marika come al solito faceva le parole incrociate, dove va, nonno?, per lui si faceva notte sempre più presto, a casa!, e un giorno lo ritrovarono sulla riva del canale, in camicia da notte, seduto, la testa china, su una panchina del campo da gioco situato accanto al braccio morto del fiume e, mentre lo aiutavano a salire in macchina, disse soltanto carpette!; la notte andava sempre peggio, lui lottava con la bisnonna come in gioventù aveva lottato con i bulli della sua città che lo guardavano sempre storto perché andava a corteggiare in via Árnyas, dove abitava la bisnonna; la bisnonna di norma, o andava nella vigna dove sistematicamente si faceva venire il mal di stomaco per le troppe fragoline di bosco, oppure passava la giornata a casa cucendo o lavando i pavimenti, a seconda, perché erano altri tempi quelli, tempi in cui a Ponte Monco scoppiavano e stridevano i razzi bellici e, nelle mattinate in cui il cielo era terso, l’acqua agitata del canale mandava bagliori metallici, a un certo momento addirittura venne proibito ai bambini della zona di fare il bagno nel fiume perché i soldati sovietici giovani avevano preso l’abitudine di tuffarsi nudi da Ponte Monco. Perché alla bisnonna era capitato di vivere in quelle condizioni e in genere andava al mercato oppure, il fine-settimana, andava a passeggiare nel boschetto cittadino con l’ombrello da sole in mano e, dopo essersi liberata della tata, si metteva esitante a ciondolare intorno al chiosco della lángos, la pizza fritta, accanto alla galleria, oppure sedeva accaldata accanto alla fontana che sta sotto la torre dell’acqua, ma poi proseguiva il suo giro e arrivava persino alla strada dei bottai, dove il bisnonno lavorava sia la mattina, che il pomeriggio e così, alla fine, lui cominciò ad accompagnarla nelle sue passeggiate, e fu per questo che i bulli cominciarono a lanciare al bisnonno occhiate di sfida, perché accompagnare la bisnonna a passeggio era vincere un trofeo, e difatti finì che una notte l’accoltellarono davanti alla chiesa colpendolo alle gambe e alle mani, e lui fino alla fine non smise mai di esibire le ferite in cantina, fra le botti del vino, questa me la fece Faragó!, o durante i lavori di allargamento della latrina, questa qui è roba di Renya Forrás!, o anche nei pomeriggi passati sotto il vecchio pero, questa qui, invece, è di Misu Korpák!; ferite per le quali poi Misu Korpák pagò con i suoi occhi, quando un giorno, gli apprendisti bottai alzarono il gomito più del solito, per cui il loro gagliardo spirito straripò di colpo, come l’acqua nel canale durante le grandi piogge a primavera, o come il cielo irato sopra Ponte Monco quando era impossibile pescare i lucci perché, all’improvviso, scatenava una pioggia dannata e interminabile, esattamente come in quella notte straripante di spirito gagliardo, il sangue traboccò dagli occhi di Misu Korpák, che fece una brutta fine perché doveva fare una brutta fine.
Perché, accompagnare a casa la bisnonna era stato davvero vincere un trofeo e, proprio per questo, tutte le sere si era formata una lunga fila di gente del luogo a Ponte Monco, allo sbocco fra canale e fiume, nel punto dove s’ammucchiavano le ninfee, una fila di gente che aveva seguito passo, passo, le due sagome mentre avanzavano sul dorso lastricato del ponte, una donna dalle forme opulente e una ragazza snella, e mentre una sagoma si distaccava dall’altra restando indietro, il più delle volte la ragazza snella, con i capelli tirati su, fissati da molti pettini i cui molti colori mandavano bagliori intensissimi quando lei, giunta alla riva opposta, apriva l’ombrello da sole prendendo le sembianze di una figura familiare che, in una vecchia fotografia, ha un sorriso appena accennato e una lunga veste, bianca come la neve, mentre alla sua destra sta un giovane con i baffi in abito elegante, una di quelle vecchie fotografie che si possono vedere soltanto nelle cucine estive che vengono costruite accanto a sgabuzzini bui e trasudano grasso oppure sulle pareti macchiate e ingiallite delle verande dei cortili interni vicino allo schiacciamosche. Intanto, al di sopra del ponte ora vuoto si era formata una nube passeggera di femminile parfum mentre dal canale irradiava una calma imperturbabile, cumulo di prudenza astuta, di silenzio, di ritualità, di impassibilità e di acquiescenza, una calma simile a quella che promana dalle statue di pietra del portale della chiesa cittadina. E di nuovo soltanto calma, soltanto lentezza, una sensazione quasi identica a quella che provai quando per la prima volta non mi fece piacere l’arrivo della neve nel cortile incantato della nonna perché il bisnonno quel giorno, in cui per la prima volta non mi fece piacere l’arrivo della neve e la bisnonna se ne era andata alla messa senza ritorno, quel giorno il bisnonno ancora una volta, l’ultima, fece uscire lo spirito dalla bottiglia e si sprigionò odore di vecchiaia.
* Il racconto è stato pubblicato, con il testo originale a fronte, in Scrittori ungheresi allo specchio, a cura di Beatrice Töttössy, Roma, Carocci editore, 2003, pp. 218-235.