L'angolo dello scrittore

Il buono, il brutto e (soprattutto) il cattivo della tecnologia: Il mondo nella dimensione Bezos, di Maurizio Canosa

(Seconda parte)

 Lo sviluppo tecnologico ci ha resi più sicuri?

Vi ricordate quando a scuola si adoperava soltanto il vecchio, caro registro cartaceo? E’ ormai un reperto archeologico, ancora parzialmente in uso in qualche istituto, ma senza il crisma dell’ufficialità. Inevitabilmente sostituito dal più evoluto e veloce registro elettronico, viene oggi usato a mò di promemoria per i meno digitali. Su quel fascicolo personale il docente annotava pazientemente a penna voti, valutazioni e note. Alla fine della giornata di lavoro, il “giornale del professore” veniva riposto nell’apposito armadietto, preziosa custodia dei giudizi di successo e fallimento di qualsiasi alunno riportato in elenco. Poteva però accadere che qualche Lucignolo più scapestrato e audace decideva che quei voti erano da sabotare, si intrufolava nottetempo nella scuola, s’impadroniva del pregiato documento e lo vandalizzava crudelmente. Oppure, meglio ancora, correggeva da provetto amanuense i voti poco graditi, per poi tornarsene a casa tutto contento per la bravata. I più radicali, potevano perfino pensare di dar fuoco all’intero parco registri della scuola, nel tentativo di depistare le indagini. Ma tutto finiva lì, con danni importanti per il mondo educativo di quell’istituto, è vero, ma tutto sommato limitati. Viene quasi da rimpiangere quel periodo, per certi aspetti romantico. Oggi i Lucignoli si chiamano hacker, sono in grado di sabotare in un’unica semplicissima operazione i registri elettronici di oltre il 40% delle scuole italiane e chiedono il riscatto in bitcoin perché non diffondano o distruggano del tutto i dati sensibili. E’ successo di recente nel nostro Paese, quando Axios Italia, la società che gestisce la piattaforma di oltre 2500 scuole italiane, ha subito un attacco senza precedenti che ha di fatto bloccato l’accesso al registro per migliaia di docenti e famiglie per molti giorni. Questo accade nella società tecnologica avanzata, e accade perché ci si trova ad essere totalmente vincolati a un unico elemento all’interno di un sistema. E più lo alimentiamo, più gli diamo importanza, più quell’elemento cresce in potenza, fino a che non possiamo più controllarlo. L’evoluzione sempre più rapida della tecnologia dovrebbe consentire di migliorare gli apparati di controllo e sicurezza in ogni settore della nostra vita sociale, eppure si ha la sensazione che all’aumentare dell’efficacia dei sistemi di cybersecurity, aumenta al tempo stesso anche la capacità di sabotaggio della pirateria informatica, in una spirale angosciosa e continua che si autoproduce.

Quello della scuola italiana in ostaggio degli hacker è solo un esempio, ma pensiamo al progresso dell’Intelligenza Artificiale.  E’ arrivato al punto che oggi si è in grado di produrre sistemi tecnologici in grado di apprendere da soli (il cosiddetto Machine Learning), ma non è difficile intuire i pericoli nascosti dietro l’evoluzione di un apparato di dispositivi in grado di imparare continuamente fino a diventare più efficienti, più forti, più intelligenti di un essere umano.

Nick Bostrom, professore di filosofia all’Università di Oxford e autore di un illuminante saggio sull’argomento (Superintelligenza, Bollati Boringhieri) ha dichiarato in modo perentorio che “l’Intelligenza Artificiale è una minaccia più grande per l’esistenza umana rispetto al cambiamento climatico“. Il suo timore non è isolato, ma condiviso da molti intellettuali. Però quello che più preoccupa è che non sono solo i filosofi a dirsi allarmati. Lo stesso Stephen Hawking, l’astrofisico recentemente scomparso forse più noto al mondo, firmando un appello con altri 400 scienziati ha detto senza mezzi termini che l’Intelligenza Artificiale potrebbe portare alla scomparsa della razza umana.

Nel frattempo, l’esaltazione per gli incantamenti di un mondo sempre più intelligente, sempre più performante, sembra quasi non trovare opposizione. Oggi tutto è magnificamente smart: siamo circondati da smart-house, smart-car, smart speaker, perfino smart-city. Eppure, qualche anno fa la Chrysler ha dovuto ritirare dal mercato quasi un milione e mezzo di veicoli forse non particolarmente “smart”, perché era stato riscontrato che era possibile intervenire da remoto sull’impianto frenante della vettura, indipendentemente dalla volontà del guidatore-proprietario. E allora la domanda è lecita: siamo proprio sicuri che non sia più rischioso di ciò che crediamo il futuro digitale che ci aspetta?

Costretti a casa dalla pandemia siamo entrati in pieno nella dimensione Bezos. Se è vero che tutto o quasi si fa con uno smartphone, un pc e una connessione wi-fi, è anche vero che Amazon, in questo caso, c’entra sempre, perché è dappertutto. E non si parla solo di acquisto di prodotti. Che si guardi una partita di calcio, o un film, che si stipuli un contratto d’assicurazione, organizzare un viaggio, la megazienda di Bezos è onnipresente, capace di fare business su qualsiasi cosa.

Più la nostra dipendenza dall’universo del web si estende, più le corporation del digitale si espandono in profitti, Amazon in testa. Eppure, nel 2020 sono cresciuti del 77% i reati on line contro i minori. La percezione di vulnerabilità e insicurezza si va spostando progressivamente dal “fuori” al “dentro”, dai vicoli bui di una metropoli all’interno della nostra stessa abitazione. Qualche giorno fa, è stata pubblicata la notizia che numeri di telefono e in alcuni casi nome e cognome, data di nascita e indirizzo e-mail di circa 35 milioni di italiani iscritti a Facebook stanno circolando sul web, gratuitamente. Nel mondo, pare siano stati violati oltre 530 di milioni profili di oltre cento Paesi. Si può anche considerare che questo sia un costo salato da pagare, ma necessario e inevitabile. Personalmente ne dubito, ma almeno dobbiamo esserne  coscienti.  In un sistema iperconnesso siamo perennemente esposti, e sono gli stessi oggetti tecnologici che abbiamo in casa, così vicini, così familiari, a poter essere trasformati, a nostra insaputa, in elaborati strumenti di violazione della privacy, sorveglianza e controllo delle nostre vite. Pensiamo non solo ai computer collegati in rete, ma anche agli adorabili smart speaker dalla voce suadente che ci dicono che tempo farà e ci cambiano canale al televisore, subdoli e odiosissimi marchingegni – come è stato abbondantemente dimostrato – registratori occulti di conversazioni e rapinatori di dati di ogni tipo. E spesso la realtà sembra superare la fantasia. Perfino gli innocenti giocattoli possono essere usati come sofisticati congegni-spia. “My Friend Cayla – spiega in un’intervista Shoshana Zuboff, autrice di The Age of Surveillance Capitalism – bambola parlante di Genesis Toys, memorizza le parole che i bambini le rivolgono e le trasmette – con un’app che accede anche alla fotocamera e alla rubrica contatti del cellulare – ai server di una terza parte, Nuance Communications, azienda specializzata in riconoscimento vocale, che può inviare questi spezzoni di dialogo ad altre società e organizzazioni. La CIA, con registrazioni di questo tipo, affina i suoi sistemi di riconoscimento vocale. Nel 2017, in Germania, Cayla è stata messa al bando come uno ‘strumento di sorveglianza illegale’ ed è stato chiesto alle famiglie di distruggere gli esemplari acquistati. In America, invece, non è stata presa alcuna misura”. Se dunque qualcuno pensa che queste siano solo le esagerate fantasie di un complottista, credo debba ricredersi. Per quanto mi riguarda, considero banali e farneticanti le teorie cospirazioniste, ma sono disposto a correre il rischio di essere frainteso, perché evidentemente mi trovo in buona compagnia. Per fare un altro esempio, David Jacoby, Senior Security Researcher del team Global Research & Analysis di Kaspersky Lab, dopo aver esaminato i dispositivi presenti nel salotto della sua abitazione, ha notato come tutti quelli presi in esame fossero vulnerabili. “Dalle smart tv, ai baby monitor, alle macchine del caffè, tutti questi strumenti potrebbero consentire l’accesso ad hacker. In particolare le ricerche di Jacoby hanno evidenziato che ogni dispositivo connesso e controllato da una app ha quasi sempre almeno una criticità legata alla sicurezza sfruttabile dai criminali. Proprio per questo è importante che i produttori risolvano tutte le vulnerabilità, dalle più o meno critiche, e sicuramente prima che il prodotto venga messo sul mercato. Insomma una realtà piuttosto preoccupante, che necessita una maggiore consapevolezza e il bisogno di intraprendere azioni specifiche per evitare il più possibile questi rischi” ( Cristina Columpsi, Rischi smart home: come difendersi dagli attacchi informatici). Si può pensare ciò che si vuole, ma l’Internet-delle-cose che si va prefigurando, palmare esempio di ciò che è in grado di creare l’esigenza dell’informazione globale, è un universo già concreto e presente più che mai nelle nostre vite. Una realtà che ci sta costringendo sempre più alla dipendenza da solo elemento (la tecnologia) e soprattutto da un solo centro di comando, per di più operabile a distanza. La nostra casa, la nostra auto, il nostro conto in banca, tutto può essere interconnesso e collegato a unità di controllo leggerissime e vulnerabili, come sono per esempio gli smartphone. Se malauguratamente qualcuno dovesse rubare il nostro telefono, saremmo perduti. E a pensarci bene non è nemmeno necessario, perché oggi, come si è visto, con l’evoluzione della pirateria informatica è possibile entrare quasi in ogni sistema digitale e controllarlo comodamente da remoto.

 

Ci ha resi più liberi?

In questi ultimi anni siamo diventati così dipendenti dai nostri telefoni e computer portatili che la psicologia ha coniato un termine da associare ad una nuova patologia: “nomofobia” (da no-mobile fobia), vale a dire la paura di smarrire il telefonino, o che si scarichi la batteria, o di non essere connesso. Se vent’anni fa ci avessero detto di questa nuova e strana patologia, ci saremmo messi a ridere. Invece non solo esiste, ma è abbondantemente diffusa, sia tra i giovani che tra gli adulti. C’è una ricerca dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che ha messo in luce che il 64%, adolescenti, in Italia, soffre di questa nuova forma di fobia. In Gran Bretagna, il 53% degli adulti che si trova in situazioni di questo tipo ha dichiarato, in quei momenti, di soffrire di sintomi fisici evidenti e fastidiosi, veri e propri attacchi di panico, tachicardia, vertigini, sudorazione. Per non parlare dell’ormai nota la cosiddetta Vibranxiety, la sindrome da vibrazione fantasma, caratterizzata dalla convinzione quasi ossessiva, presente soprattutto tra i giovani, che il telefono vibri per una chiamata o un messaggio.

“La presenza ubiquitaria della tecnologia – ha spiegato il neuropsichiatra Claudio Mencacci – provoca quella che potremmo definire come una vera e propria sovrastimolazione sensoriale.  I ragazzi sono sempre esposti a micro-stimolazioni attraverso gli smartphone.  Alert, messaggi, like tendono a creare uno stato di allerta, con conseguenze che si riscontrano sull’attenzione, sulla memoria e sui ritmi del sonno. Quasi il 90% dei ragazzi riferisce di aver sperimentato il fenomeno della ‘vibrazione fantasma’ ovvero del falso allarme di ricezione di un messaggio sul cellulare”.
Il risultato, è la costruzione di personalità continuamente inquiete, deboli e destrutturate perché sempre più inclini alla distrazione, sempre inconsciamente in attesa di qualcosa, una parvenza di novità che possa provenire da uno schermo da tablet o smartphone: un’informazione, una foto, un video, un messaggio.

Marshall McLuhan scriveva dell’invadenza dei mass media e di come siano in grado di plasmare le personalità già mezzo secolo fa. D’altra parte, è altrettanto evidente che questa radicale metamorfosi che le tecnologie mettono in atto non sia casuale e involontaria, perché le pulsioni economiche del capitalismo neoliberista che ne stanno alla base, ne costituiscono certamente l’origine. Così, continua McLuhan, “una volta che abbiamo consegnato in nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti” (Gli strumenti del comunicare).

Se fossimo realmente liberi, ognuno di noi potrebbe decidere il punto esatto in cui fermarsi nell’utilizzo della tecnologia. Eppure, siamo davvero in grado di affermare: “ora basta, il livello di evoluzione tecnica di cui dispongo per me è sufficiente?”  Non siamo in qualche modo costretti sempre ad “aggiornarci” per non restare indietro e non sentirci in colpa di fronte alla società che avanza? (verso dove, poco importa).  L’uomo della società avanzata è in realtà antiquato, come diceva Gunther Anders già negli anni ‘50, perché è sempre un passo indietro rispetto agli oggetti tecnologici che produce, sempre costretto ad inseguire, a correre, ad adattarsi obbligatoriamente a un mondo e a dei bisogni indotti che in fin dei conti non ha voluto, o non ha scelto; bisogni e oggetti che, se provasse un attimo a riflettere, comunque non gli servono per rendere più gratificante la sua vita. E’ faticosissimo, tuttavia, resistere alle tentazioni che il mondo della tecnica produce, così come è ancora più faticoso tenere il passo sempre più rapido della sua evoluzione. In questo, la tecnologia si rivela superiore perfino all’economia. Infatti, mentre in un’economia capitalistica come quella in cui viviamo le periodiche crisi di sovrapproduzione ne scandiscono inevitabilmente i tempi, tra fasi di sviluppo e fasi di depressione, la tecnica, dall’invenzione della ruota a quella del microchip, non ha mai sofferto le incertezze della ciclicità; ha sempre continuato il suo cammino con un movimento continuo, ininterrotto, uniformemente accelerato, senza mai lamentare momenti di crisi. Infatti, si deve considerare che ci sono voluti poco meno di 50 anni perché l’elettricità, dalla sua invenzione, potesse raggiungere un quarto della popolazione; per coprire lo stesso numero di persone, dall’invenzione del televisore sono stati sufficienti 25 anni, 15 per il computer portatile e solo 7 per il telefono cellulare.

E poi c’è un altro aspetto da considerare. Non si può non riconoscere infatti che siamo passati da una società della disciplina a una società del controllo (o della sorveglianza, come la definiscono i più esperti). “Se la tua storia d’amore sta finendo – ha detto Mikko Hypponen, uno dei più grandi esperti di cyber sicurezza – è molto probabile che Facebook lo sappia prima di te”. Ormai, non è da fanatici no-global pensare che le multinazionali dell’hi-tech spingono perché restiamo collegati in rete il più a lungo possibile, per carpire i nostri dati e utilizzarli a scopi commerciali. Così come sappiamo benissimo che, sempre connessi, abbiamo solo l’illusione della libertà, perché siamo tracciabili e rintracciabili in qualsiasi momento. E sappiamo altrettanto bene che, grazie ai social, noi stessi siamo diventati al tempo stesso sorvegliati e sorveglianti. E che siamo anche in ogni momento reperibili, tanto che ormai è diventato difficilissimo separare la sfera del tempo libero e familiare da quello del lavoro. Non a caso si parla oggi di diritto alla disconnessione, vale a dire il diritto per il lavoratore di non essere continuamente reperibile e di non rispondere alle chiamate di lavoro nei giorni di riposo. Un’opportunità che in Italia, purtroppo, è ancora una chimera, dal momento che non è stato ancora sottoposta ad una precisa normativa giuridica come in altri paesi.

 

Ci ha resi moralmente migliori?

“Internet ha dato diritto di parola a legioni di imbecilli, che una volta parlavano al bar e venivano messi a tacere dopo un bicchiere di vino, oggi hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel”. Questa illuminante e arcinota considerazione di Umberto Eco dovrebbe campeggiare a caratteri cubitali nelle piazze, nelle scuole, nelle biblioteche e nei pub di qualsiasi centro abitato del nostro amato Bel Paese. Tra i milioni di esempi che si potrebbero fare per avvalorare questa tesi, me ne viene in mente uno, relativamente recente: un’elegante frase confezionata da un gentiluomo anonimo all’indirizzo di Liliana Segre, donna di pace, senatrice di novant’anni sopravvissuta all’inferno della Shoah, il giorno stesso in cui si è sottoposta alla vaccinazione anti-covid. “E ora speriamo che il vaccino faccia il suo dovere (e ce la levi dalle palle)”. Vorrei tanto credere a chi pensa che la tecnologia di questi ultimi anni forse non ci ha resi migliori di prima, ma in fondo neanche peggiori, poi penso all’immensa marea di meschinità veicolata ogni giorno, attraverso i social, da individui socialmente disturbati, psicopatici, razzisti, omofobi della peggior specie, sessualmente repressi e mi vengono brividi lungo la schiena e qualche fondato dubbio. I Social stanno trasformandosi in campi di battaglia di leoni da tastiera, pronti, il più delle volte, a trasformarsi in conigli quando vengono smascherati e capiscono non di aver sbagliato, ma di rischiare il carcere per un bel po’. Nullità senza speranza, che tuttavia crescono di numero ogni giorno, si danno manforte e fanno gruppo (oltre che danni) grazie alla rete, in una spirale vorticosa che si autoalimenta, nutrendosi del suo stesso odio. Nascosti dietro uno schermo, se non fosse per il megafono del web, probabilmente continuerebbero a vivere le loro tristi e rancorose esistenze senza disturbare nessuno, a parte forse qualche vicino di pianerottolo. Insomma, viene da riflettere sul fatto che parole come revenge porn, phishing, grooming, cyberstalking, hate speech, fake news, clickbaiting, sono entrati nel vocabolario quotidiano come reati e cattive pratiche di nuova generazione, nati e prosperati nell’era di Internet. Reati che, occorre sottolinearlo, spesso non prendono il posto dei crimini tradizionali ma purtroppo si aggiungono ad essi.

Ci ha resi più intelligenti?

I miei coetanei confermeranno quanto sto per dire. Almeno fino agli anni ottanta, i vecchi professori di matematica sconsigliavano e spesso impedivano brutalmente l’utilizzo delle calcolatrici nello svolgimento di compiti e problemi relativamente poco complessi. Il motivo era semplice e chiaro: dovevamo allenare il cervello al calcolo mentale, stimolarlo continuamente per mantenerlo in perfetta efficienza ed evitare di farlo rattrappire come una pera, proprio come si fa con l’addestramento fisico per mantenere il corpo in forma. Noi studenti ce ne fregavamo al massimo di quelle raccomandazioni e forse non avevamo tutti i torti. Per quanto quello fosse un ottimo consiglio, in realtà il pericolo che l’utilizzo di un minielaboratore finisse per annebbiarci le meningi era piuttosto remoto. A quel tempo infatti, la calcolatrice rappresentava praticamente tra i pochissimi sostegni tecnologici di una certa complessità utili ad agevolarci la vita facendoci risparmiare fatica mentale. Il resto dell’esistenza era un continuo combattimento corpo a corpo con la realtà per risolvere problemi, escogitare soluzioni, sopportare fatiche e disagi, fisici e psichici, senza l’ausilio di alcun supporto meccanico o elettronico che non rappresentasse la riduzione all’osso della tecnologia. Un’auto era l’essenza di un’auto: altro che orpelli e optional di serie: i più, solo motore, carrozzeria e quattro ruote potevano permettersi; un telefono – unico per tutta la famiglia o addirittura in duplex col vicino – serviva solo per telefonare, e non c’era certo un simpatico robottino per casa pronto a farti le pulizie di primavera. E ancora, niente sensori di parcheggio (e ovviamente niente navigatore satellitare parlante), niente cicalino per ricordarti di spegnere i fari dell’auto; niente google o wikipedia per reperire rapidamente informazioni per una ricerca, niente telecomandi per la TV, e niente climatizzatore in salotto nelle afose giornate d’estate. Con tutto ciò, la domanda esistenziale resta comunque sempre la stessa: si stava meglio prima rispetto a oggi? In un certo senso sì. Non si tratta di anelare i tempi andati come quelli di un’arcadia ormai superata, ma di riflettere se, insieme all’espansione irresistibile della tecnica, la nostra mente si sia effettivamente evoluta nel corso degli ultimi decenni oppure no. Proviamo dunque a riflettere sulle possibilità attuali del nostro cervello e se si sia effettivamente sviluppato in quest’ultimo mezzo secolo. Ebbene, secondo la maggioranza di neuroscienziati e psicologi, grazie a una straordinaria possibilità di condivisione di contenuti e informazioni, la tecnologia ha senza dubbio consentito l’incremento deciso di un’intelligenza collettiva, ma al tempo stesso ha favorito una certa involuzione dell’intelligenza individuale. Quarant’anni fa la calcolatrice rappresentava quasi un’eccezione, non eravamo invasi come oggi dalle protesi tecnologiche più improbabili e disparate. La nostra mente, nel rapporto con le cose, continuava a esercitarsi in ogni momento della giornata mantenendosi necessariamente stimolata e attiva. Il nostro modo di ragionare, reperire informazioni e memorizzare concetti, luoghi e situazioni, non veniva condizionato o stravolto dall’uso di quell’unico sostegno tecnologico. Oggi viviamo piuttosto il problema opposto: le soluzioni, gli aiuti e gli aiutini che il mondo digitale ci offre alleggerendoci ogni sforzo mentale sono così tanti e invitanti, che ormai il nostro cervello e la nostra memoria, sempre meno abituati al ragionamento e alla benefica fatica, hanno inevitabilmente diminuito il loro grado di efficienza e di elasticità. Si può dire che il supporto di un congegno elettronico che serva a ricordarmi un appuntamento dal dottore è un po’ come usare la calcolatrice per sapere quanto fa sette per otto. Semplicemente, non solo non dovrebbe essere necessario, ma a lungo andare mi porta a servirmi di un sostegno esterno anche per svolgere le funzioni più banali. Con quale risultato? Quello di agevolare progressivamente una forma particolare di patologia neurodegenerativa, che Manfred Spitzer, psichiatra già docente ad Harvard, in un libro ormai famoso definisce “demenza digitale”.

Uno degli esempi che Spitzer fa per dimostrare che il supporto della tecnologia in realtà non aiuta affatto alcune funzioni cerebrali, in particolare quella, importantissima, connessa all’ orientamento spazio-motorio, che favorisce la plasticità cerebrale, è quello dei tassisti londinesi. Proprio su questi, è stato scientificamente verificato un certo grado di diminuzione di questo tipo di capacità da quando è stato introdotto l’uso del GPS. L’uso del navigatore satellitare, proprio come la vecchia calcolatrice di quarant’anni fa, ha sostituito nei tassisti inglesi l’uso del cervello, ricoprendone in toto la funzione di orientamento, col risultato di una riduzione lieve ma significativa dei livelli di neuroplasticità. Tecnicamente, dunque, proprio l’uso del supporto tecnologico ha portato ad un aumento della demenza digitale.

“Per esempio – scrive a questo proposito Mario Tozzi – nelle comunità Inuit le giovani generazioni tendono a preferire il GPS per la caccia (unica fonte di sostentamento) e non ascoltano più la tradizione orale dei propri genitori, abituati a orientarsi osservando la neve, sentendo il vento e calibrando l’altezza del sole sull’orizzonte. Né lasciano più sul terreno quei segnali che tipicamente si adoperavano per ritrovare la strada. Ma il freddo polare non è amico degli apparecchi alimentati a batteria che, dunque, possono esaurirsi di colpo, lasciando incapaci di muoversi in una distesa di ghiacci indistinguibili. Senza più l’insegnamento dei padri che avrebbe loro salvato la vita” (Mario Tozzi, Tecnobarocco, Einaudi, 2015).

I dispositivi tecnologici che abbiamo a disposizione rappresentano certamente una comodità, ma proprio per questo hanno anche l’inevitabile potere di renderci progressivamente insofferenti allo sforzo mentale e, di conseguenza, sempre più inadatti al ragionamento autonomo. Pensiamo alle frettolose ricerche che spesso si effettuano su Internet e al classico “copia e incolla”. Viaggiamo in superfice, evitando la fatica dello studio in profondità, ma le conseguenze di questo approccio sono tutt’altro che positive.

“Più mi occupo superficialmente di un contenuto, – scrive Spitzer – meno sinapsi si attivano, meno apprendimento viene costruito, meno informazione sedimentata. I media digitali favoriscono questa ‘superficialità’, se usati senza esperienza di lavoro con i contenuti, come spesso avviene in età evolutiva: si ‘naviga’ in rete, ovvero si ‘scivola’ sui contenuti. Se trascino con un dito una parola da A a B su un touchscreen , compio l’azione più superficiale che si possa fare con una parola. Non c’è neppure bisogno di leggere o di riflettere: la profondità di elaborazione è minima. Leggere la parola, o trascriverla per catturarla mentalmente (e senza cliccare col mouse) rappresenta un percorso di approfondimento maggiore, che i media elettronici ostacolano o impediscono del tutto: (…) Il computer evita agli studenti buona parte del lavoro mentale”.(M. Spitzer, Demenza digitale,   )

Gli esperti del fenomeno hanno definito gli effetti negativi derivati dalla esposizione incontrollata da Internet o da giochi interattivi ad alta tecnologia. Eccone alcuni (da AA.VV. Demenza digitale, effetti dell’uso intenso dei media nell’apprendimento dei nativi digitali, PDF, consultabile in Rete):

Insorgenza del fenomeno del ‘directed forgetting’: in pratica, si dimentica quanto si sa di poter avere facilmente disponibile sulla rete; tendenza a ricordare il ‘dove’ si trova una informazione ma non il suo contenuto cognitivo (fenomeno connesso con il ‘directed forgetting’); difficoltà nella rimemorazione, causata da isolamento: il contatto diretto tra persone produce invece più materiale da rielaborare e stimola una rielaborazione più profonda ed emotiva rispetto al contatto ridotto e impoverito da uno schermo e una tastiera; limitazione degli stimoli immediati al cervello e della disponibilità stessa a memorizzare contenuti e mappe mentali.

Per quanto riguarda invece gli ‘actiongames’, gli effetti dannosi possono essere:

Diminuzione della capacità di immedesimazione negli altri (danni da elevato uso di gioco digitale interattivo (GTA, Crysis2 e simili giochi ‘sparatutto, tipo ‘battle royal’); si tratta di un fenomeno connesso all’empatia, attribuita alle funzioni dei «neuroni specchio», di recente scoperta (gruppo di ricerca di Giacomo Rizzolatti, Università di Parma, 1995); ‘desensibilizzazione’ in seguito ad elevata esposizione a giochi interattivi; si manifesta come un innalzamento rilevante della soglia di reazione alla violenza (in pratica si tende ad accettare livelli sempre più alti di violenza simulata e a trasferire nella realtà gli stessi modelli appresi di comportamento). E’ il fenomeno ‘comfortably numb’ (comodamente intontito, dalla canzone dell’album ‘The Wall’ dei Pink Floyd); diminuzione (e non aumento) della capacità di autocontrollo e di mantenimento dell’attenzione visiva, con effetti a lungo termine nella vita professionale successiva, nel tempo libero e nelle relazioni; distrazione costante, collegata a perdita del controllo della propria motricità: tic nervosi, gesti stereotipati, arti in continuo movimento, piccoli gesti di autolesionismo.

Dunque, è evidente che coloro che sembrano più esposti a questo tipo di pericoli sono i giovani e giovanissimi, cosiddetti “nativi digitali”, i quali rispetto ai “nativi analogici” hanno per così dire anticorpi più deboli, sono naturalmente meno strutturati nei propri meccanismi di difesa mentale proprio perché cresciuti ed educati fin da piccoli in un universo tecnologico pressoché totalizzante, di cui molti si servono per qualsiasi attività, di svago e di studio. E’ stato anche dimostrato infatti che “chi elabora informazione con la consapevolezza che i contenuti vengono ‘salvati’ esternamente ottiene punteggi peggiori nei test sperimentali di memorizzazione rispetto a chi sa di dover contare sul suo cervello (il ‘directed forgetting’). La ricerca di informazione dei nativi digitali è ‘task oriented’: si ricorre al magazzino esterno, se ne usa ‘just in time’ il contenuto, lo si manipola (‘copy and paste’) e poi lo si dimentica”. (AA.VV. Demenza digitale, ivi). Di questo passo – non oggi certo, ma un domani forse sì – l’indebolimento progressivo dello sforzo e dell’attività del nostro cervello potrebbe polverizzare qualsiasi parvenza di ragion critica e perfino di libero arbitrio. Incapaci di apprendere, valutare e scegliere senza un supporto esterno, saranno in molti coloro che finiranno per dare in affitto i propri pensieri, consegnandosi al paternalismo sapiente di un grande Nume Tutelare. Sarà l’inevitabile, progressiva “demenza” dei singoli soggetti ad aprire le porte al sovrapotere di un’intelligenza collettiva che tutto preordina e decide. Per questo, comincio a temere che non farà fatica ad avverarsi la grottesca profezia di Stanisław Jerzy Lec, secondo il quale, forse prima di quel che pensiamo, “la tecnica arriverà a un tale grado di perfezione che l’uomo potrà fare a meno di se stesso”.