Il collo di Anna_Giuseppe Arena, Frattamaggiore(NA)
_Racconto vincitore tredicesima edizione Premio Energheia 2007.
22/09/2001. Un giorno come un altro, ma non certo per qualcuno.
Un palazzo come un altro, ma non certo per qualcuno.
Un’ora come un’altra, ma non certo per me.
“Alle 9:00 devi venirmi a prendere altrimenti ti ammazzo!!!”
E forse lei mi avrebbe ammazzato veramente, ma non con un coltello o altre cose del genere: non si sarebbe più fatta sentire per un mese o forse più e io mi sarei ucciso, l’amavo troppo, e lei lo sapeva, quindi era consapevole del fatto che sarei arrivato puntuale.
L’avrei fatto, lo giuro, se tutto fosse andato, come lei avrebbe voluto, perché lei, Anna, voleva essere padrona del suo destino.
Alle 7:00, il vapore dominava nel bagno e io sotto la doccia imitavo John in Californication. Mezz’ora dopo, avvolto nell’accappatoio, me la prendevo con comodo e mi rivestivo.
Alle 8:30 ero pronto; ancora non sapevo cosa mi aspettava.
Si illumina il display e compare “Anna…”, cosi la tenevo memorizzata: “Pronto” dico io, in lietissima disposizione di spirito “ Peppe, mi raccomando, vieni in orario sennò t’ammazzo”
“ Tu mi ami troppo”, le dico e chiudo la chiamata. Un po’ impaurito, lo ammetto.
I miei amici me lo dicevano sempre che dovevo lasciarla, che ne avrei trovata una migliore, meno presuntuosa e soprattutto che facesse meno minacce di morte e io? Io annuivo.
Ore 8:45 ed ero ancora lì a tentare di mettere in moto l’auto che non ne voleva sapere, sembrava stare per partire quando smise di fare anche il rumorino che tanto mi faceva sperare.
Lo spinterogeno? Ma no! Troppo banale. La benzina?
Impossibile, trenta euro il pomeriggio prima.
E allora? Allora faccio tutto quello che fanno i comuni mortali che non capiscono un cazzo di motori: apro il cofano.
Mescolati a carter, radiatore, batteria e spinterogeno, vidi lei, Anna, con un coltello piantato tra capo e collo, accasciata in una macchia di sangue.
Un colpo di clacson di un passante mi riportò alla realtà e l’imbarazzo causato da tutti quegli occhi che mi si erano puntati contro, dopo il grido di paura, mi fecero dimenticare della visione.
Frenetico tirai fuori il libretto di “Uso e Manutenzione” dal portaoggetti e sfogliai le ultime pagine in cerca di un numero verde. Lo trovai e lo chiamai. “Tra mezz’ora arriverà un meccanico a risolverle il problema. Buonasera”, questo mi disse la voce del call center Peugeot ma ormai erano già le 10:00 e capii che era meglio avvisare Anna che non sarei più passato a prenderla, mai come allora speravo mi credesse perché, che si fosse rotta l’auto, era una scusa usatissima.
Non rispondeva. Né al cellulare, né a casa. “E’ arrabbiata”, pensai. Intanto il meccanico caricò l’auto sul carro attrezzi e se la portò via dicendomi che sarebbe stata pronta per il mattino dopo, il mattino di due o tre giorni dopo!!!
Cosi me ne tornai su, a casa, e vidi che Anna era in chat, era on-line, la contattai ma non rispose.
On line ci rimase tutta la notte e tutto il giorno dopo e tutta la notte dopo ancora! Per lo stesso lasso di tempo, continuavo a telefonare, senza alcun risultato.
Intanto passarono tre giorni e li passai senza uscire di casa, sia perché non avevo l’auto, sia perché quindici giorni dopo avevo un esame e così mi dedicai allo studio senza curarmi di Anna. Lei, mi passò di mente, annegava tra i miei pensieri e ne usciva solo di tanto in tanto quando buttavo un occhio allo schermo del pc e vedevo che era in linea.
Feci l’esame, presi ventotto ed ero contento, riebbi la macchina con immenso ritardo rispetto al previsto e pensai di festeggiare con Anna, ma mi ricordai di non avere notizie di lei da venti giorni.
Cosi chiamai giù, al paese suo, ai suoi genitori che subito vennero a Roma e con loro venni da voi per comunicare la sua scomparsa.
Sporsi regolare denuncia e iniziaste le vostre indagini.
Due giorni dopo mi convocaste presso la casa di Anna, subito dopo di me arrivarono i suoi genitori e insieme salimmo le scale, la sua auto non c’era ma c’erano i pompieri che buttavano giù la porta.
Tutto in ordine ad una prima occhiata, dichiarai che tutto era al suo posto, anche il mobile a cassettoni che avevamo comprato insieme.
Anna era scomparsa.
I suoi genitori tornarono al paese con la promessa che li avrei chiamati, immediatamente, appena ci fosse stata qualche novità e me ne tornai alla mia vita.
Feci la vita del single per diverse settimane e Anna, all’inizio, era l’unica delle mie preoccupazioni, mi chiusi in casa nella più profonda solitudine, mi dedicai alla lettura e agli studi per l’università. Feci un altro esame, presi ventinove ed ero contento. Questa volta volli festeggiare, così chiamai i miei amici più intimi per stare in compagnia, e magari, per sfogare un po’ quelle paura che covavo dentro di me sulla sorte di Anna.
Quanto l’amavo!
Ne invitai quattro, arrivarono in trentacinque. I quattro avevano sparso la voce scambiando un incontro tra amici intimi per un festino e mi ritrovai il bilocale, affittato a 250 euro al mese, strapieno di gente e di alcool.
Decisi che per una sera avrei potuto scacciare dalla mente tutti i pensieri tristi e avrei potuto fare onore al recente ventinove che tanto piacque a mio padre e lo rese fiero.
Il mattino dopo mi ritrovai la testa che scoppiava, una donna accanto a me nel letto e la casa a soqquadro, mandai via tutti quelli che si erano addormentati e mi misi a riordinare.
Intanto pensavo a quanto potesse essere bella la vita anche senza Anna.
Si fece spazio in me l’ipotesi di un amore svanito.
Quella mattina stessa uscii, andai all’Università, salutai un po’ di gente e andai a fare la spesa, quei “vichinghi”, la sera prima, avevano svuotato tutto.
Il pomeriggio ricevetti un messaggio sul cellulare, era quella ragazza con cui avevo passato la notte, che mi voleva rivedere e che sarei dovuto andare al bowling alle 21:00 esatte.
Io non ricordavo, affatto, a chi appartenesse il corpo della notte prima e decisi di scoprirlo; quindi alle 21:00 fui al bowling, una macchina mi lampeggiò con gli abbaglianti, parcheggiai la mia e mi avvicinai a piedi, era la macchina di Simona: la migliore amica di Anna. Mi sedetti al lato del passeggero e, quando accese la luce interna, mi resi conto che era proprio lei, Simona, la migliore amica della mia ragazza, della ragazza che amavo, di quella ragazza scomparsa. “Fenomenale, sei stato fenomenale, ieri sera, io non so che fine abbia fatto Anna, né che ruolo abbia ora nella tua vita, ma so che voglio un’altra notte con te”. La considerai folle e feci per uscire dall’auto senza nemmeno darle tanta considerazione, ma lei, mi prese per un braccio e mi baciò con tanta passione da costringermi a partecipare al gioco, in fondo Simona aveva un corpo perfetto e le sue mani e la sua bocca mi convinsero ad andare a casa sua quella sera stessa.
Mi sbatté sul letto e iniziò una lunga e interminabile notte di sesso.
Quando il mattino dopo mi rivestii il sospetto di non amare più Anna divenne certezza, ero andato a letto con la sua migliore amica per due volte e, le assicuro, senza rimpianti, anzi lo avrei rifatto.
La mia vita proseguiva bene, anzi non andava tanto bene da tempi molto lontani, riuscivo a studiare e a dare esami con risultati eccellenti, mi vedevo regolarmente con Simona e con lei stavo benissimo e ancora mi rimaneva il tempo di una pinta di birra con gli amici al Dragon’s Lair, il mio pub preferito.
Insomma ero contento.
Ma una notte ebbi un incubo: sognai un cadavere avvolto in un tappeto trascinato a fatica nel portabagagli di una berlina scura. Peccato che il cadavere fosse il mio.
Circa una settimana dopo l’inizio di questa mia nuova vita, suonò il telefono: non era Simona né tantomeno i miei amici, erano i genitori di Anna che chiamavano per avere notizie.
I primi dieci minuti furono di scuse, le mie, per non aver telefonato, poi passai al sodo e dissi che non avevo notizie né da Anna, né dalle amiche, né da voi. Ci salutammo molto cordialmente e, con la promessa rinnovata di dare notizie alla famiglia, riagganciai.
Solo dopo aver chiuso la conversazione, mi resi conto di quanto triste era la voce della signora Adele, la mamma di Anna; in fondo non mi rendevo conto che io avevo perso la fidanzata, che tra l’altro non amavo più, e che loro avevano perso una figlia, la loro unica figlia che stava lontana dal paese per studiare e per la quale facevano ogni giorno tanti sacrifici per mandarle i soldi per le tasse universitarie.
Davvero non me ne rendevo conto.
Decisi di chiudere ogni contatto con Simona perché mi sembrava poco rispettoso.
Se lo ricorda lei, Sig. Commissario, il nostro secondo incontro in questura? Non so lei, ma io di sicuro non dimenticherò mai il giorno in cui diedi un pugno a un poliziotto.
Mi creda, oggi non provo più alcun rancore verso di lei ma lei quel pugno se lo meritava eccome; mi aveva portato all’esasperazione: le sue domande che si ripetevano, ciclicamente, poste sempre con lo stesso tono di merda di voi poliziotti, quell’incessante fischio che rombava fuori o dentro non lo so, dalla mia testa e tutti i ricordi che dalla gonna della sua collega mi riportavano ad Anna e le figure che m’immaginavo nell’angolo buio e l’astinenza e la voce di mio padre.
Il ventidue ottobre duemiladue sedevo al banco degli imputati, tutti quelli in aula vedevano in me, nella mia mano, il coltello che Anna aveva conficcato tra capo e collo quando la ritrovaste, io non la volli vedere ma la signora Adele, l’unica che ancora credeva che non fossi io l’assassino, mi abbracciò, e tra le lacrime e i singhiozzi disse solo: “ Sì, è proprio lei, la mia bambina in un lago di sangue, rosso come i suoi capelli”.
Un certo Avv. Raffaele Arena, mio padre, riuscì a far rinviare il processo, cosi da poter dare a se stesso e ai suoi soci più tempo per procurarmi un alibi e, in un certo senso, ne diede anche a me che mi ero prefissato l’obiettivo di trovare il colpevole; le mie ricerche iniziarono da Via Biancardi, 19: casa di Anna.
Per puro caso o per negligenza i pompieri non avevano fatto cambiare la serratura così potei entrare indisturbato in casa. Chiusa alle mie spalle la porta, percorsi il corridoio che passava giusto al centro della casa e la sola luce del crepuscolo dava un colore più familiare a tutta l’abitazione. Mi precipitai subito in salotto, quasi in automatico mi stravaccai sul divano sollevando una nuvola di polvere, mi guardai intorno come a cercare un simbolo, un segno, un oggetto che potesse aiutarmi nelle ricerche; la mia attenzione cadde sul mobile a cassettoni che comprammo insieme io e Anna: giaceva li, accanto al camino, a lato del divano su cui mi ero sdraiato.
Ogni cassetto era di un colore diverso. Decisi di aprirli dal basso iniziando da quello viola, non ci trovai nulla di interessante, solo candele profumate e non, di quelle che usava per le nostre cene, era un’ottima cuoca. Poi passai al terzo cassetto, di colore arancio, a mio parere il più bello e mentre lo aprivo mi rendevo conto che era la seconda volta in vita mia che toccavo quel mobile (la prima fu quando lo toccai nel negozio), al suo interno come nel cassetto precedente non c’era nulla di rilevante o che perlomeno potesse darmi dei sospetti sull’assassino.
Prima di aprire il secondo cassetto, di colore bianco, andai in cucina alla ricerca dei biscotti al cioccolato che Anna tanto amava e che non mancavano mai a casa sua, ma solo quando fui investito dall’insopportabile odore dei mobili che restano chiusi per molto tempo, mi resi conto che la casa era disabitata da più di un anno.
Con il groppo in gola e annaspando tra i ricordi tornai nel salotto e aprii il cassetto bianco. Bianco era fuori e bianco, era pure dentro: era pieno di lettere.
Erano lettere d’amore le cui esplicite frasi adulatorie e intenzionalmente persuasive non potevano che essere state scritte dal polso dell’amante di Anna.
Prima fui attanagliato dalla tristezza e dalla delusione che nel giro di quindici minuti, passati a girare nervosamente per la casa ripetendo il percorso salone-camera da letto-ingresso, si trasformarono in un’ira tanto devastante da spingermi a dare fuoco all’appartamento e a tutto quello che c’era dentro, le nostre foto in primis.
Ebbene sì Commissario, fui io a dare fuoco all’appartamento e il giudice mi scagionò dall’unico reato che realmente avevo commesso: incendio doloso.
Mancava un mese all’udienza e mio padre e i suoi soci continuavano a organizzare la mia difesa, mentre io rispolveravo i libri di medicina che avevo ormai abbandonato da più di otto mesi.
Studiai giorno e notte, divenne quasi patologico, ero venti ore al giorno sui libri e le restanti quattro ore le passavo a sonnecchiare perché non dormivo più, avevo paura di dormire, di sognare Anna, il suo cadavere ed il mio, come in quello incubo di cui le ho già parlato.
Diedi un altro esame, ma fui bocciato perché, a qualsiasi domanda che mi veniva posta dal professore, io rispondevo elencando tutte le varie parti del collo e i danni che avrebbe provocato un coltello conficcato in esso.
Decisi di abbandonare definitivamente l’Università per dedicarmi a quelle lettere trovate a casa di Anna che avevo salvato dal rogo. Provenivano tutte da Roma, ma all’indirizzo segnato come mittente corrispondeva un supermercato, proprio di fianco alla questura, alla sua Questura, Sig. Commissario.
Lei Sig. Commissario è una persona romantica? No! Non mi risponda! Lasci che glielo dica io e non mi guardi con gli occhi strabuzzati, crede davvero che non abbia capito che le iniziali con le quali tutte le lettere, o almeno buona parte di esse, fossero firmate siano le sue iniziali?
Crede che non abbia notato che lo stesso profumo che porta è lo stesso che ho trovato sulle lettere?
Mi considera tanto stupido da ignorare il fatto, che lei avesse abitato l’interno nove al terzo piano della palazzina, proprio di fianco alla questura e sopra il supermercato?
Non si spaventi Sig. Commissario, sono solo un grande appassionato di libri gialli, e proprio da quei mitici personaggi ho imparato a cercare nelle giuste direzioni, giuste come giusta e geniale era la sua idea di accusare me per l’omicidio di Anna.
Lei era opprimente, fastidiosa, a tratti odiosa e di certo non era impossibile che in un attacco d’ira ci fosse scappato il morto, il giudice avrebbe bevuto la sua accusa e mio padre e i suoi soci non avrebbero avuto la possibilità di dilettare il pubblico con le loro arringhe, lei mi ha sparato il giorno prima dell’udienza e, dopo un viaggio nel portabagagli di una berlina scura, mi ha abbandonato in aperta campagna, lontano da tutto e tutti di modo che nessuno avesse potuto sentire il proiettile che le è passato da una parte all’altra della testa.
Ma non sia perplesso adesso, io non le volterò la faccia quando incontrerò la sua anima, né tantomeno voglio che lei lo faccia con la mia.
I dispetti li fanno solo i vivi. Noi apparteniamo alla morte.
E ora mi permetta una domanda.
Lei che cosa amava di Anna?