Il comune senso della giustizia_Joseph Ng’Ang’a Gichumbi
_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Mariella Silvestri
PARTE 1
Erano le 12 di mattina, ora dell’Africa orientale. Kip Edwards, un giovane
sui venti anni, atletico e allegro, guidava una BMW bianca metallizzata
oltre i cancelli della sua lussuosa dimora. Il residence Muthaiga, una
tenuta verdeggiante per l’élite dominante keniana. Derivante dalla parola
popolare Agikuyu che vuole dire “fascino magico”, la tenuta Muthaiga
ha continuato inesorabilmente a incantare i keniani di tutte le età.
Tranne le cameriere indiane, i cuochi e i giardinieri, che si potevano vedere
camminare con noncuranza, i residenti di questa tenuta, come se osservassero
una regola non detta fra di loro, raramente si avventurano fuori
delle loro macchine lucenti, scegliendo invece di rimanere nell’ombra
dei loro veicoli dai vetri oscurati.
Non ci sono dubbi per molti keniani che Muthaiga rappresenti il vero, inattaccabile
potere.
Questo è il potere che Kip Edwards sentiva dietro le ruote mentre costringeva
la macchina possente a fermarsi. Gli uomini di potere hanno i loro modi
fissi di fare le cose e così col tempo, Sir Kip, come lo chiamava con condiscendenza
il suo domestico, cominciò a rappresentare ogni cosa connessa
con il potere e con le persone potenti.
La cosa più condivisibile, pensò Sir Kip fra sé, era di non associarsi mai
con i poveri. “La povertà puzza” sbottò, appena fu uscito dalla macchina
con la chiave in mano e si fu diretto verso l’imponente porta di mogano
del suo palazzo regale.
PARTE 2
Lei giaceva immobile su un enorme letto metallico. L’unico indizio che
il rigor mortis aveva preso piede era la mortale sporgenza degli occhi che
nascondevano il segreto della sua morte.
PARTE 3
“Il professore” Dan Miriti, un calzolaio locale di Kawangware, un sobborgo
povero alla periferia di Nairobi, si era guadagnato questo titolo grazie
alla sua perizia nel mestiere. Conosciuto per il suo zelo, il cameratismo
e il gusto per la vita, l’indole buona di Miriti lo aveva reso naturalmente
famoso. Nato lungo i pendii del Monte Kenya nella tribù Ameru,
Dan Miriti era cresciuto in una famiglia molto povera. Suo padre, il grande
Ntibi’ri, un erborista di fama, era morto povero nonostante la ricca eredità
che aveva lasciato alla sua gente. Quando gli veniva chiesto perché
non trasformasse questa grande ricchezza di conoscenze in un tentativo
di profitto nell’interesse della sua famiglia che era povera, Ntibi’ri rispondeva
sempre: “La salute della mia gente è la mia ricchezza”.
Questa filosofia preoccupava il giovane Miriti. Aveva il recondito sentimento
che suo padre non li avesse amati. Dopo tutto non aveva mai insegnato
la sua arte a nessuno dei suoi undici bambini!
Dopo la sua circoncisione alla tenera età di diciotto anni, Miriti decise di
avventurarsi nel mondo da solo. Dopo la circoncisione, un giovane Ameru
può sposarsi, e può cominciare a metter su famiglia. Ma Miriti la pensava
diversamente. Dotato solamente di conoscenze tribali e informali,
lasciò per sempre la casa una domenica mattina. Questo era il momento
perfetto per scappare, in quanto il vecchio Ntibi’ri lasciava che il sonno
lo accompagnasse fino a tarda mattina.
PARTE 4
All’inizio pensò che il puzzo provenisse dalla buca dell’immondizia. Ma
dopo un esame accurato, il signor Gavex Otieno, un impresario di pompe
funebri in pensione, si convinse che l’odore acre provenisse da carne
in decomposizione. Ma di chi? Dove? Certamente non era quella di un
animale. Di questo era sicurissimo. Avendo maneggiato cadaveri per un
quarto di secolo, il signor Gavex era in grado di riconoscere tipi diversi
di odori. Valutò che il proprietario dell’odore doveva essere morto da almeno
tre settimane. Conoscendo l’eccentrico sistema di polizia keniano,
doveva prendere l’iniziativa prima che loro cominciassero a bussare alla
sua porta per Dio-sa-che-risposte!
“Buon pomeriggio, signor detective”, disse Gavex dopo aver aggiustato
la manica della sua camicia per leggere l’ora sul suo onnipresente Rolex,
acquistato durante i suoi giorni da studente nella Germania occidentale.
“Cosa c’è di buono nel suo pomeriggio, straniero?”, rispose con un rimbombo
una voce autoritaria.
“Non molto, il mio nome è Gavex Otieno, chiamo dalla tenuta Jamhuri,
casa numero Z774X. I suoi uomini dovrebbero venire qui velocemente.
C’è un puzzo forte di carne umana morta che proviene dalla casa del mio
vicino”.
“Arriviamo subito!”.
Dopo queste poche battute, la linea si interruppe.
PARTE 5
I detective della squadra volante sono l’unità più temuta del Kenya. Hanno
guadagnato il loro nome grazie alla fulminea velocità con la quale rispondono
alle chiamate di soccorso.
Erano passati appena dieci minuti dal suo breve colloquio col capo della
polizia quando sentì forti colpi sulla porta di casa.
“Fungua hapa haraka sisi ni polisi”, disse una voce resa roca dal whisky.
Aveva appena aperto la serratura principale che irruppe un contingente di
uomini armati fino ai denti e dall’aspetto feroce, che rovesciarono tutto
come avrebbero fatto sciami di locuste in un giorno sereno.
Dopo avere divorato tutto il commestibile nell’enorme frigo “made in China”,
il capo del contingente dalla pesante costituzione e dalla pancia a forma
di pentola, sulla quarantina, emise dei suoni in uno strano accento inglese.
“Sei lei il signore Ngovi O. Dovunque?”
“No, il mio nome è signor Gavex Otieno, non Ngovi-dovunque!”
“Lei vuoi insaltare ambrois mcapo?”
“No, amico, è lei quello che mi ha insultato dissacrando la mia casa col
suo comportamento goffo. Nondimeno, non è questo il luogo della mor-
te, di cui si deve occupare. La casa è là, numero 2775X. Buona fortuna.”
Il capo fu preso tanto alla sprovvista dalla compostezza dell’uomo anziano
che per un momento perse il suo equilibrio mentale.
“Ba, una in più domanda”. Il capo sparò verso Gavex uno sguardo penetrante
mentre si massaggiava istintivamente la pancia a forma di pentola.
“Vecchio, che era lei provessionalmente parlando?”
“Un impresario di pompe funebri”, fu la dolce replica.
Bastava. Il contingente andò via tanto affrettatamente quanto era venuto.
Il signor Gavex proruppe in una risata sguaiata. Aveva già incontrato
prima tipi del genere. Orgogliosi di fronte agli uomini, umiliati dalla
morte!
PARTE 6
“Le notizie che abbiamo appena ricevuto dicono che la polizia ha scoperto
un corpo di donna in decomposizione in una tenuta di Jamhuri. La
polizia sta facendo appello a chiunque abbia informazioni sulla sua morte,
affinché le rilasci volontariamente a qualunque stazione di polizia. Queste
informazioni saranno trattate con riservatezza”.
Con ciò si concluse il notiziario televisivo delle 13 sul canale nazionale.
Era un martedì dell’agosto 2000. Macho Man aveva appena finito il pranzo
quando sentì le notizie. Allevato nello slum2 di Mukuru kwa Njenga
sviluppatosi disordinatamente alla periferia della città, Macho Man era
cresciuto in grande povertà. Senza istruzione formale, aveva cominciato
a lavorare alla tenera età di quindici anni come manovale occasionale in
una delle innumerevoli industrie gestite da asiatici adiacenti alle strutture
precarie che lui chiamava casa. Col tempo arrivò a detestare gli insulti
lanciati a volontà dai capi asiatici verso i lavoratori africani. Un giorno
un ragazzo asiatico, il figlio del suo capo, lo chiamò Ghasia takataka (immondizia,
spazzatura) per essere arrivato con venti minuti di ritardo al lavoro.
L’orgoglio ferito che lo aveva divorato per anni si scatenò improvvisamente
e con proporzioni vulcaniche. Con una gragnola di pugni aveva
steso il ragazzo, rompendogli i denti anteriori. I suoi compagni africani
lo avevano incitato a gran voce e Macho Man era riuscito a fuggire inosservato
dalla scena del crimine. Grazie alla sua bassa statura poteva in-
fatti apparire e scomparire inosservato. Da questo episodio, imparò la prima
regola nel gioco della sopravvivenza: il comune sentire prevale dopo
la guerra. Ma ciò era successo molto tempo prima.
E così quando gli chiesero di rapire la ragazza scura per loro, pensò che
fosse uno scherzo sciocco. Si prestava a lavoretti piccanti, non ai rapimenti.
Ma se loro potevano dargli 200.000 scellini per il lavoro, perché no? Dopo
tutto il limite è chapaa, i soldi. Era sicuro che fossero la fonte di ogni
rispettabilità.
PARTE 7
Sedette pensieroso sul prato ben curato della sua casa mabati a due stanze.
Da quando era giovane, aveva preso la decisione di non emulare mai
suo padre. Voleva dare ai suoi bambini il meglio dell’istruzione che a lui
era mancato nella vita. E attraverso il duro lavoro il “professor” Miriti fece
in modo che tutti i suoi tre bambini andassero a scuola. Il figlio preferito
era la primogenita Irene Kathure, studentessa al terzo anno di Medicina
all’Università di Nairobi. L’aveva chiamata come sua madre, seguendo
la tradizione.
Ed ora lei mancava da casa da tre settimane e nessuno aveva alcuna idea
di dove potesse essere…
Sua moglie, Maria Kanini, una donna di mezza età tarchiata e imperturbabile
interruppe il filo dei suoi pensieri.
“Baba Irene, ero al mercato quando Maria Atieno mi ha riferito la notizia
di un corpo di donna scoperto in una delle tenute. Devo partire immediatamente
per trovare dettagli presso la stazione di polizia di Muthangari.
Te la senti di venire con me?”.
“Chi ha detto che le donne sono deboli?”, pensò il professor Miriti. “Se
mai si può dire che un sesso forte esiste, è senza dubbio quello femminile!”.
Non aveva bisogno della laurea in Psicologia per saperlo. Diritta di
fronte a lui, c’era l’incarnazione di questa sorprendente conoscenza umana.
“Andiamo mama watoto”, fu la replica sottomessa.
PARTE 8
La signora Maria Kanini, un’insegnante di scuola in pensione, credeva
nell’utilità di una disciplina severa e inflessibile dietro alla sua maschera
pubblica di mitezza. Inoltre, era calcolatrice e vendicativa, e non permetteva
mai che qualcuno attraversasse la sua strada. Ma la sua vendetta veniva
effettuata con tale precisione e riservatezza da fare contorcere George Bush
per l’invidia.
La parola perdono non era mai parte del suo vocabolario operativo nonostante
il suo ruolo di segretario generale della chiesa locale. Il suo più grande
idolo era suo padre, il temuto colonnello N’thamburi che aveva lottato contro
i colonialisti britannici nelle vaste foreste del Monte Kenya con gli insorti
Mau Mau. Entrambi avevano sottoscritto pienamente il Principio del
Vecchio Testamento: “Occhio per occhio, dente per dente”.
Non ebbero bisogno che un matatu3 li portasse alla stazione di polizia. Il
biglietto di 40 scellini per entrambi era molto al di sopra del loro bilancio
giornaliero. In tutta la loro vita, erano stati abituati a camminare per
distanze anche più lunghe dei cinque km che dovevano coprire.
I loro corpi resistenti erano stati abituati ad anni di fatica, fame, dolori e
fallimenti. Piuttosto che separarli, questa realtà dolorosa li aveva uniti ogni
giorno di più. I loro yang e yin li univano in una fusione sorprendente tale
da fare meravigliare gli angeli di tale rarità fra uomini.
L’ addetta alla reception della stazione di polizia di Muthangari li fece
entrare immediatamente dopo un breve scambio di convenevoli.
Dietro l’enorme scrivania di mogano c’era l’Ispettore Capo Juma Baridi,
un uomo occhialuto e magro sulla trentina. La sua repentina ascesa nella
polizia era dovuta in parte alle sue credenziali accademiche e professionali
eccellenti e in parte a un suo zio materno, ministro di Gabinetto.
Era al ministro in persona che doveva la massima fedeltà. Aveva imparato
molto tempo prima che in Kenya nessuno sale più velocemente i gradini
della società senza un padrino.
“Cosa posso fare per voi Mzee e Mama?” disse gentilmente nella sua dolce
voce di contralto.
“La mia cara moglie ha sentito l’annuncio da uno dei canali televisivi, riguardante
la scoperta di un corpo di donna. Nostra figlia Irene Kathure,
una studentessa in Medicina, manca da casa dalle ultime tre settimane.
Voleva essere sicura che non fosse lei”.
Con un rapido sguardo l’Ispettore Capo Juma si convinse che i due di fronte
a lui, nonostante i vestiti mitumba (di seconda mano) stirati, avesse-
ro visto pochi giorni migliori in vita loro. E così chiedere loro se avevano
un veicolo sarebbe stato un insulto inimmaginabile alla loro dignità.
“Mzee e Mama, se non vi dispiace, vi porterò con la mia auto all’obitorio
cittadino dopo che avrete compilato il registro apposito”.
“Molto obbligati signore”, risposero all’unisono.
PARTE 9
Il rapporto dell’autopsia era già pronto. Siccome Miriti e sua moglie non
erano pratichi della legge, non sapevano che c’era una violazione della
legge nel condurre un’autopsia senza che fosse presente un parente
prossimo. Mentre spostava il suo sguardo dal gentile Patologo Capo al
corpo gelato che giaceva di fronte a lui, fu afferrato da un desiderio animale
di lacerare e consumare in un lampo, ma chi? cosa? dove?
“È sua figlia?”
Era miglia lontano nel regno dell’utopia. Ci volle la leggera spinta di
sua moglie per farlo ritornare alla realtà.
“Ti sta chiedendo”, proseguì la signora Miriti, “se questa è la nostra Irene
Kathure”.
“Sì, signore, è senza dubbio nostra figlia. Voglio essere sicuro di una
cosa. Lei ha detto che è stata stuprata, e poi colpita con un’arma da fuoco
alla tempia sinistra?”
“Sì, signore”, concluse il Patologo Capo. “Ed ora se lei me lo consente,
gradirei rimettere il corpo nel frigo”.
Subito dopo lasciarono l’obitorio della città ognuno immerso nei propri
pensieri.
PARTE 10
“Lei è morta. È un fatto. Rimuginare non ti aiuterà. Sii uomo. Salva il
tuo orgoglio”. Questi commenti fatti da sua moglie lo punsero come api.
Sì, doveva salvare il suo orgoglio. L’unico modo era arrivare all’assassino,
ma come? Di una cosa era sicuro. Avrebbe vendicato l’uccisione
brutale di sua figlia, anche se ci avesse messo tutta la vita. Lui non aveva
niente da spartire con un sistema legale debole. L’assassino o gli assassini
si erano già scavati la fossa. Loro avevano attivato il veleno
del figlio di Ntibiti’ri. Gli antenati non gli avrebbero dato il benvenuto
nel mondo dell’aldilà se lui non fosse riuscito a difendere l’indifeso,
sua figlia.
Essendo un tradizionalista fedele, la sua prima fermata doveva essere
sulla soglia di Kiraithe. Kiraithe l’acclamato erborista-indovino Meru
che si riteneva avesse risposte anche al più complesso degli enigmi
umani. Avrebbe avuto bisogno di una settimana intera per questa missione,
ma era pronto.
PARTE 11
Ora era ufficiale. I genitori della ragazza deceduta erano persone umili
degli slum di Kawangware. La notizia era divenuta di pubblico dominio
in città. Mentre ascoltava le notizie nel conforto del suo divano,
Macho Man sentì un dolore acuto e forte farsi largo attraverso il torace.
Gli avevano mentito!
Le sue attività criminali non erano mai dirette contro i poveri. I poveri
erano il suo sangue, la sua gente. Non aveva mai pensato che assassinassero
la bella ragazza. Pensava che volessero solo divertirsi come gli
avevano assicurato. Come avevano potuto eliminarla così brutalmente?
Perché? Perché si uccide una ragazza povera? Dov’è il guadagno? Quando
vide i genitori sconvolti sullo schermo televisivo, la sua rabbia divenne
furia. La sua missione era sempre stata diretta contro i puzzolenti
ricchi che avevano ottenuto la loro ricchezza aggirando il sistema giudiziario
e alimentandosi del sangue degli holloi-polloi, i disgraziati della
terra. Come avevano osato?
Non aveva toccato i 200.000 scellini. Come era sua abitudine avrebbe
usato i soldi che gli erano stati pagati solo dopo aver capito pienamente
i motivi di quelli che lo avevano pagato. Questi soldi erano maledetti.
Doveva fare qualcosa molto in fretta. Il comune sentire prevale solamente
dopo la guerra. La guerra era cominciata.
PARTE 12
Localizzare l’alto uomo scuro era facile per Macho Man. Conosceva le
abitudini dei ricchi. Si incontravano in posti precisi ed esclusivi dentro
e intorno Nairobi. E diversamente dai poveri, si muovevano a orari fis-
- Per il ricco, il tempo è denaro, mentre i poveri avevano tutto il tempo
che volevano.
Dopo aver inutilmente girato per tutta la città e la periferia per due settimane,
prese infine una decisione. Avrebbe dato retta al suo istinto. Più di
una volta, il suo istinto aveva salvato i suoi progetti. Questa volta era sicuro,
non lo avrebbe tradito.
E così decise di guidare in direzione del Night Club Chizika nella tenuta
di Kileleshwa, un luogo di incontro molto frequentato da ricchi ragazzi
viziati. Era in anticipo. Tranne due Toyota nuove di zecca, il parcheggio
era deserto. Come era sua abitudine in tali missioni, Macho Man osservò
accuratamente il luogo prima di sistemarsi in un angolo appartato che
serviva allo scopo di celarlo ma che aveva il vantaggio di affacciarsi su
tutti i punti di accesso al Club.
Erano le 18,00 ora dell’Africa orientale. Nel giro di un’ora questo luogo
freddo sarebbe stato pieno di vita. La sua missione era precisa. Come un
ghepardo africano che aspetta la sua preda, doveva essere sobrio, invisibile,
vigile e soprattutto rapido, molto rapido. La sua altezza ora era un vantaggio.
Il cameriere alto che gli mostrava la schiena stava in piedi, appoggiato
al palo di cipresso inconsapevole della presenza umana dietro di lui.
Verso le 22,00 egli arrivò in compagnia di una snella signora dalla carnagione
chiara. Era decisamente su di morale. Ora Macho Man era concentrato
sull’obiettivo, e neanche lo stato d’animo sempre più “da carnivoro”
lo avrebbe potuto distrarre.
Verso le 23.05, salutò i suoi compagni di tavola, prese il braccio della
signora e lasciò con grazia il pub. Macho Man si era già avviato verso
la sua macchina nel momento in cui lui si era alzato. Macho aveva sempre
addestrato la sua mente ad anticipare le mosse del suo obiettivo. In
modo inusuale per la maggior parte degli uomini africani, l’obiettivo aprì
lo sportello per la sua compagna, lo richiuse, poi si sedette al volante
della sua BMW bianca e mise in moto. Macho Man mantenne la distanza
di sicurezza guidando la sua Mazda decrepita e scura. Il sospetto era l’ultima
cosa che avrebbe voluto suscitare.
A Moi Avenue, vicino alla Barclays Bank, la signora dalle lunghe gambe
uscì dall’auto. Il cambio di direzione verso Koinange Street indicò
a Macho Man che l’occupante si stava dirigendo verso casa. “I ricchi
sono schiavi delle abitudini e per questo sono obiettivi facili”, rifletté
Macho Man.
PARTE 13
Da una certa distanza, Macho Man vide la macchina rallentare puntando
i fari su un imponente cancello nero.
“Quindi questa è la casa”, pensò Macho allibito.
Conosceva la casa come il palmo della sua mano. Il proprietario originario
era stato Kimji Asan, il barone asiatico della droga che era stato
assassinato due anni prima. Questo era il luogo in cui Kimji incontrava
i suoi amici criminali per riunioni notturne e cocktail di mezzanotte
senza fine. Macho aveva le piante di molte ricche case della città
nella tasca interna della giacca. Parcheggiò la sua auto in un boschetto
folto d’alberi e frugò attentamente tra le varie mappe. Dopo cinque
minuti localizzò la piantina della casa di Kimji Asan. Era ora di agire.
Armato solamente della sua spada somala, Macho aprì un varco nella
parte orientale del recinto. Dopo averlo attraversato, trovò il punto che
voleva: un punto di entrata sotterraneo e segreto celato da una pianta
fiorita. Dopo averla rimossa, scese lungo il lurido tunnel che conduceva
alla casa. Sorprendentemente la maniglia cedette facilmente permettendogli
di entrare.
Si sedette su uno dei sofà con tutti i sensi all’erta. Poi sentì la porta principale
di mogano aprirsi e vide le luci accendersi. Lo sguardo di sorpresa
sulla faccia di Kip Edwards fece quasi ridere Macho Man. Aveva
già visto quello sguardo.
“Cosa diavolo…?”, chiese Kip Edwards.
“La prenda allegramente, kjiana. Voglio che segua le mie istruzioni e
andrà tutto bene. Mi dia un CD vuoto, ora”.
“OK”.
Kip Edwards recuperò il CD da un pacco di libri su una delle mensole.
“Grazie. Ora voglio che mi dica tutto quello che è accaduto dopo che
le ho portato la maledetta ragazza. Non le farò nessun’altra domanda.
Lei parlerà e il registratore registrerà tutto. Ho bisogno di una copia
per me. Io amo le raccolte storiche, lo sa…”.
Kip Edwards conosceva le persone di quel genere. Nessuno scherzava
con loro. Erano mastini da guerra. E così cominciò la sua narrazione
degli eventi.
“La ragazza era docile ma muta. Dopo che la prendemmo, insieme ai
miei amici Maina Kimani ed Amstrong Kunte, la stuprammo a turno.
Ma quando ero sul punto di fare un secondo giro, mi insultò. Mi chiamò
vigliacco. Dalla mia prospettiva tribale questa è l’offesa più grave
che una donna può rivolgere a un uomo. Ho fatto ciò che dovevo, ho
premuto il grilletto della mia colt e ho finito la signora”.
Dopo questa confessione, Macho Man, spense il registratore.
“Dov’è la pistola?”, gli chiese con noncuranza.
“E’ qui”.
Prima di prenderla, Macho indossò un paio di guanti che aveva preso
dalla tasca dei pantaloni.
Poi si rivolse all’uomo: “Signor Kip Edwards, ha mai sentito il detto,
il comune sentire si raggiunge solamente dopo la guerra? Lei è stato piuttosto
sciocco. Lei ha ucciso una povera ragazza innocente. Non è il modo
in cui io agisco. Non danneggio i deboli. Sono il mio sangue, la mia
gente. Lei ha ucciso i miei legami di sangue e subirà una sorte simile.
Ecco i suoi 200.000 scellini, non ho bisogno di un penny in più o in meno
di questi soldi. Il comune sentire deve prevalere. Mi capisce?”.
“Per favore Macho Man, cosa vorresti fare?”.
“Non posso rispondere, Kip. Voglio che lei scriva quello che le detterò
in quel block-notes là”.
Nero su bianco, Kip cominciò a scrivere sotto dettatura:
“Io, Kip Edwards, desidero pagare il pieno prezzo per essere stato insensibile
al povero e specialmente a Irene Kathure che ho ucciso con
una pallottola dopo averla stuprata ripetutamente insieme ai miei amici.
Io accetto questa giustizia di senso comune”.
Nel momento in cui sollevò la penna, una pallottola gli forò la tempia sinistra
lasciando la sua bocca aperta per la sorpresa, mentre cadeva sul pavimento
ricoperto di tappeti e cominciava il viaggio verso l’eternità.
PARTE 14
Fu il vicino che chiamò la polizia dopo avere sentito quello che era sembrato
un colpo di pistola. E in pochi minuti la polizia era arrivata. C’era-
no molti motivi per uno scoop. Al sorgere del sole, tutti i canali trasmettevano
la notizia che l’assassino di Kathure era stato giustiziato dalla pallottola
di un killer. Ora era ovvio che la polizia non aveva indizi sull’assassino
o sul luogo dell’omicidio.
A casa del professor Miriti, i preparativi per la sepoltura fervevano quando
filtrarono le prime notizie. La signora Miriti era, in un certo senso, contenta.
Ma doveva telefonare a suo marito per renderlo partecipe della notizia.
Mentre trotterellava verso la cabina del telefono locale, si permise
un sorriso dopo un mese di intenso tormento.