I racconti del Premio Energheia Europa

Il dovere mi chiama, Sandrine Ortega, Madrid

Menzione associazione Energheia Premio Energheia Spagna 2023

Traduzione a cura della 4A/L, IIS Europa Unita di Chivasso (TO), con il supporto della Prof.ssa Gemma Escayola Rifa e del Prof. Giuseppe D’Adorante

 

I miei gatti mi guardano dalla porta della cucina. Mi giudicano, lo so. Muovono la coda da una parte all’altra all’unisono mentre osservano come mi verso un calice di rosato portoghese che era da due giorni nel frigo, dalla mia ultima sbronza e la conseguente sbornia. Da quel momento mi giurai di smettere, ma a chi importa della mia sobrietà promessa, promessa a chi? Comunque. Do un sorso. E’ freddo e ha le bollicine, mi rinfresca. Ne ho bisogno, soprattutto dopo l’eterna riunione di quattro ore dei lunedì della quale non mi importa niente. Tutti provano a resistere, sponsorizzando gli ideali sociali che si tengono in piedi per i più bisognosi, per quelli che vivono la giornata. Sono quelli che lo difendono. Sono la base della piramide. Per noi che siamo nel mezzo vediamo i pensieri per quello che sono: ingranaggi che ci fanno girare all’interno di strutture angoscianti. Che ci tolgono l’istinto rivoluzionario. Che ci fanno sprofondare in un astio che condanna l’umanità. Per me è uguale. Con questo calice di vino ho deciso che domani non torno più a lavorare.

Le pale del ventilatore fanno rivoltare una condensazione insolita. La mia nuca è bagnata. Ho sudato stanotte. Mi pesa la testa come una palla di cemento. Mi metto la mano sulla fronte e dopo sul comodino. Sul cellulare ho tre chiamate perse dal mio capo. Mi spavento. Non sono solita trasgredire con più di uno scherzo o una malvagità passeggera che non portino conseguenze reali a lungo termine. Però mi rallegra irrimediabilmente sapere che non lo rivedrò, che non si metterà più affianco a me a vigilare tutto ciò che faccio che non correggerà tutto ciò che scrivo. Questo si che mi innervosisce. Adesso vuole controllare la mia vita dall’altro lato dell’apparecchio. Immagino che sia nervoso per questa situazione che ho creato, questa scomparsa, però la sua continua micro gestione si è aggrovigliata nella spirale che è la mia mente e non smette di girare al suo interno.Il danno è già stato fatto.

Il senso di colpa mi assale a metà mattina dopo il mio secondo risveglio della giornata ma guardo i miei gatti e mi passa. È quello che ho sempre voluto: rinchiudermi con loro. In quei momenti in cui sognavo ad occhi aperti prima di oggi, cercavo al telefono senza sosta “reddito passivo”, “lavori freelance meglio pagati”, “risultati della lotteria nazionale”. Cambiare la faccia di culo del mio capo per la morbidezza del viso dei miei gatti è quello che definirei il giorno migliore della mia vita. Oggi è il giorno zero. Il giorno D. Queste quattro mura sono la mia trincea ed i miei gatti i miei compagni. Tutto mi contiene. Sento vibrare il cellulare e di lato posso leggere sullo schermo “Ciao Julia. Tutto bene?”. Lo ignoro. Suona di nuovo. ” La riunione inizia tra 10 minuti. Volevo sapere se arriverai in tempo”. L’unica cosa a cui sono arrivata in tempo è odiarti.

L’ostacolo che mi separa ora dalla felicità è questo orribile apparato che ho in mano. Sì, è allo stesso tempo il mio gioco e la mia salvezza. È una possibile vittoria nella lotta contro questo sistema. Lo stesso che mi rende autonoma mi lega alle grinfie di questo signore che chiamo capo, un signore pieno di insicurezze che crede che avere un lavoro in questa vita lo liberi dal senso critico. Non ha mai mostrato alcuna leggera sfiducia nel sistema. Tutto gli sembra “pertinente” e la burocrazia alimenta il suo ego lavorativo come lui stesso alimenta la sua enorme pancia con la pasta da asporto dell’italiano all’angolo. Pasta to go, pasta to go-rdo. Ma non devo pensare a questo. Che non sia questo odio a farmi cadere in basso contro il suo fisico. Tutto sommato, non tornerò più in quell’ufficio. Mi alzo e sorteggio come posso i gatti affamati che zigzagano più di me. Mi siedo sulla tazza e mentre faccio pipì il telefono squilla di nuovo. ” Quando leggi questi messaggi, rispondimi per favore”. Avvicino la mano fino alla mia schiena e lascio cadere il telefono per il vuoto che rimane tra le mie natiche e il bordo della tazza. L’acqua mi spruzza. Ciao, rompiscatole.

Apro il frigorifero e prendo una mela. Grazie alla sbornia di ieri, sa di cedro. Cammino fino alla terrazza con i miei pantaloncini del pigiama e la mia canotta. Mi stiro, mi metto in punta di piedi. Ho voglia di ballare. Riproduco la mia playlist del sabato nel computer. Guardo i videoclip e intanto provo a fare i passi di ballo. Che leggerezza. Però di colpo spunta una notifica dall’angolo in alto a destra dello schermo. È lui. Come mi ha trovata? Maledetta e-mail. “Ciao Julia, spero che tu ti senta meglio. Ti condivido il Powerpoint della riuni…” Con una mano mi tappo la bocca, come se farlo potesse tappare la sua, e con l’altra spengo di colpo il computer. Mi sento osservata nella mia intimità, nella mia nuova vita serena. Prendo il computer, lo faccio scivolare sotto il sofà e mi ci siedo sopra.

Era da molto tempo che volevo leggere l’Ulisse. Ho comprato l’edizione dell’anniversario qualche settimana fa e stava lì a prendere polvere. Aspettando il giorno in cui mi liberassi di lui. Quasi come se mi aspettassi di essere di nuovo una studentessa e di non dovermi preoccupare di nient’altro che fare quello che volevo. In realtà, non mi preoccupavo di andare alle lezioni, molte neanche le seguivo. Leggere sarà la mia unica occupazione, per di più, non uscirò di casa finché non finisco Ulisse. Vieni, Viruta. Sali sulle mie gambe, bestiolina. All’università, leggere era un atto rivoluzionario. Mi sentivo bohémien solo tenendo il libro tra le mani guardandolo sull’erba che circondava il college, con gli occhiali da sole e le gambe eternamente bianche, prive di cicatrici. Una Lolita qualsiasi. Adesso questa Lolita è soffocata dal sistema. Dove sarà il mio Humbert Humbert?

Da una spirale della mente all’altra, i miei occhi si stancano. Faccio un pisolino di 45 minuti circa, giusto il tempo di svegliarmi riposata, senza traccia del vino rosato di ieri. Mi allungo, prendo il telecomando e accendo la TV. Finalmente oggi ho la mente libera per guardare film d’autore. Ma prima, preparo i popcorn. Esplodono uno dopo l’altro, nel microonde, e nell’ultimo minuto conto i tre secondi necessari tra un’esplosione e l’altra. Il suo odore è festoso. È gioviale. Uno, due… boom. Uno, due… boom. Uno, due… boom. Uno, due..ring! ring! Il telefono fisso squilla. Non so perché diavolo l’ho messo. Mi sono lasciata trasportare dall’offerta internet più telefono che mi hanno fatto al centro commerciale e che ora serve esclusivamente come linea diretta con mia madre. Prendo il telefono e dico “Mamma?”, ma una voce profonda dice “Julia, sei tu?” Rimango immobile. “Stai bene? Volevo solo sapere perché non sei venuta al lavoro oggi.” Trattengo il respiro come se fossi intrappolata in un ascensore cercando di non esaurire l’aria o nascondendomi sotto il letto per sfuggire alle grinfie di uno stupratore. Riaggancio con cattiveria e scollego il cavo.

Quanto è meraviglioso Bergman. Che dialoghi. E che mente fresca ho stasera. Non mi sfugge un dettaglio, non mi sfugge un riferimento. “Se c’è tanta bellezza in ogni vena della vita e della natura, quanto bella deve essere la fonte stessa, eterna e limpida.” Quante cose mi mancano nella vita di tutti i giorni. Nella foschia dei giorni quotidiani. Nella mediocrità del lavoro, delle strutture sociali e delle loro burocrazie. Mi piace questa rivoluzione silenziosa che sto facendo dal mio divano. La bellezza del cinema di Bergman è ciò che mi darà la forza di cambiare il mondo, l’ispirazione. O almeno, credere in lui. Non voglio più affogare nelle vicissitudini di costruzioni che non cambiano mai, che lasciano le persone abbattute e senza speranza. Tutti, assolutamente tutti quelli che vedo in metropolitana durante la settimana sono a pezzi. Affondati nel proprio bisogno e nella propria rassegnazione. Scriverò tutto questo. Sul serio, che bella giornata. Che chiarezza. Che produttività. Vado alla scrivania e cerco tra i libri polverosi un taccuino e una penna. Torno al divano ma prima che possa sedermi sento bussare alla porta. Mi avvicino in punta di piedi, trattengo il respiro e avvicino l’occhio allo spioncino. Sento una voce nervosa dire “Julia, so che sei a casa. Apri, per favore.”