Il Governo Monti e l’artificiosa qualificazione tecnica
E’ il vuoto politico che ha generato la formazione del governo Monti. Come nella fisica così nella politica il vuoto non esiste, c’è sempre una soluzione politica che riempie il “vuoto”. Il caso del governo Monti è emblematico e il gran parlare circa la sua qualificazione rischia, artificiosamente, di confondere il rapporto diretto tra governo e cittadini, che, pare, invece questo esecutivo abbia. Definire tecnico il governo Monti è quindi un ossimoro. Non esiste un governo tecnico in un paese democratico: per natura i regimi democratici esprimono solo governi politici.
Il capo del Governo, infatti, non ha mai detto che il suo sia un “Governo tecnico”, nel suo discorso di insediamento ha parlato di “Governo di impegno nazionale”, di voler “contribuire a riconciliare maggiormente i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica”, ergo il governo è politico! Tuttavia, tra i suoi compiti (fini) ha, tra gli altri, precisi obiettivi diversi dai governi che l’hanno preceduto nella storia italiana: affrontare l’emergenza, assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, trasformare in riforme le prescrizioni imposte all’Italia dagli organismi economici e finanziari sovranazionali e accolte nella famosa “lettera di intenti” inviata alle autorità europee.
In Europa, quindi, l’unica lingua riconosciuta è quella espressa dalla Bce/Commissione europea/FMl. La stessa sinistra europea, peraltro negli ultimi anni all’opposizione in quasi tutti i Paesi europei, non è stata in grado di proporre un modello alternativo all’ideologia liberista. Il liberismo, quindi, come fede, principio universale che non ha, come ci ricordava Luigi Einaudi, un legame necessario con la visione liberale del mondo.
Un lungo ciclo di governi europei di centrodestra, nonostante i “vecchi” vincoli del trattato di Maastricht, non ha assicurato il rispetto reale del patto tra gli Stati (a partire dalla stessa Germania, in epoca post riunificazione). Il fattore Tatcher (e Reagan) nell’ultimo ventennio del secolo scorso ha prodotto il modello neoliberista che nel vecchio continente ha significato la sospensione del processo di costruzione europea che dura da 150 anni, tanti quanti ne ha la nostra Italia. E’ stato facile allora tollerare le politiche di deficit di bilancio degli Stati con il conseguente aumento dei debiti sovrani, salvo poi decidere, sotto la tempesta speculativa, che la politica di deficit non andava più bene.
Il tasso di riformismo, quindi, del governo Monti, finora si è principalmente misurato in coerenza con il mantra della lettera europea, di qui le politiche di austerità che hanno iniziato ad interessare significativamente i redditi fissi (operai, impiegati e pensionati), le classi medie che soffrono di un abbassamento dei redditi, i livelli delle prestazioni sociali (compreso l’aumento dell’età pensionistica). Sono stati messi in campo strumenti che “quadrano” il bilancio dello Stato, non coincidono con un’austerità virtuosa e, sopratutto, non quadrano il bilancio sociale.
L’equipaggiamento che Monti usa, l’inscindibile Dr. Jekyll (l’economista) e Mr. Hyde (il politico), è costituito dagli strumenti della pratica del libero mercato. Per raggiungere il fine, quindi, il governo Monti usa gli strumenti che conosce che, inevitabilmente, in un periodo di recessione economica, hanno effetti depressivi. Tuttavia, questa pratica ha il pregio di costituire la “via breve” per raggiungere il fine. L’economista, in questo caso, non si sporca le mani avanzando ipotesi di politica economica a vantaggio della regolamentazione dell’imperfezione del mercato, il governo propone la sua formula (sembra che conosca solo quella) per raggiungere il fine.
Sappiamo, tuttavia, che gli economisti non sono tutti uguali, per quanto anche chi manifestamente dichiara di appartenere ad una scuola di pensiero economico, di fronte al fine, che non è posto dagli economisti ma dalla politica, non può essere mai né liberista, né socialista ad ogni costo. La domanda, allora, ritorna di forza: chi determina il fine, chi, in altri termini, decide cosa (il fine politico).
Un esempio concreto lo abbiamo sperimentato nel disegno di legge di iniziativa di riforma del mercato del lavoro. La proposta del governo Monti è stata corretta per iniziativa del Partito Democratico che, facendo il proprio mestiere, ha manifestamente contribuito ad introdurre elementi perequativi su un impianto fondamentalmente liberista. Questo non è ancora sufficiente, ma rappresenta un esempio di come il futuro dell’equilibrio politico nel nostro Paese (e in Europa) non può passare attraverso l’antidoto liberista. Sta alle forze riformiste e autenticamente liberali italiane ed europee rendere nota la propria azione politica, senza scorciatoie o vie brevi, partendo dalla consapevolezza che é entrato definitivamente in crisi un modello di crescita e di sviluppo. Questa condizione si potrà ottenere solo con più Europa e con la costruzione di un nuovo patto tra i soggetti economici e sociali del vecchio continente.