Il linguaggio_Cartoline G. Mbuthia
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione di Caterina Muccio
Ci guardavamo l’un l’altro in silenzio, quando la sua marcata bellezza
ed il suo profumo interruppero l’incosciente, sognante atmosfera che ci
circondava. La camicia macchiata di stufato di Kimende era l’unica cosa
che audacemente competeva con i segni della coccinella. Ma l’arte
casuale della camicia appariva scialba in confronto alla simmetria a pois
della coccinella.
L’intervallo fu gradito, poiché avevo bisogno di lasciar cadere la mia affermazione.
Volevo anche restare a guardare Kimende per un pò, poiché
raramente lo vedevo immerso nei suoi pensieri. In effetti sembrava come
se avesse preso in prestito la faccia di un giovane filosofo, che potesse
indossarla per un giorno e ciò su di lui sembrava molto sgradevole.
“Cosa intendi per lasciare il tuo passato? Kale! Lo so che il tuo nome significa
il passato, ma devi andare così lontano in nome di una barzelletta?
Perché non cambi solo il nome e lasci le barzellette ai comici?”.
Se non fosse stato per “l’espressione in prestito” di cui ero stato testimone
qualche minuto prima, mi sarei sentito offeso dal tentativo di Kimende
di far chiarezza sull’argomento, ma capii che la sua era paura
sotto forma di scherzo.
“E’ solo qualcosa che so di dover fare. Non chiedermi come, è radica-
to nel profondo del mio cuore. Non posso continuare così. Ho bisogno
di qualcosa di nuovo. Qualcosa di diverso”.
Kimende tacque per un po’, poi osservò: “Sembri strano, forse hai bisogno
di andare nella terra del Fa-re. E’ l’unico posto che conosca con
gente particolare”.
Ciò stimolò il mio interesse e drizzai le orecchie.
“L’unico problema è che si dice sia una terra mitica. Alcuni dicono che
esista, altri affermano che non esiste. Dicono che ci si può arrivare solo
a piedi e che solo coloro che ci credono possono arrivarci”.
Ero un uomo che aveva raggiunto il limite ed ero pronto a credere a
tutto, qualcosa a cui potermi aggrappare. Qualsiasi cosa… qualcosa…
una cosa.
Ero conosciuto per essere a volte impulsivo e questo fu uno di quei momenti
in cui rispecchiai pienamente il mio carattere. Preparai uno zaino
e partii nel tardo pomeriggio con le poche informazioni che avevo.
Ero un ospite di passaggio e gli ospiti di passaggio erano pionieri coraggiosi.
Kimende non aveva forse detto che questo posto poteva essere
visto solo da coloro che credevano? Bene, io avevo deciso di seguire
il mio cuore.
Viaggiai per due giorni attraverso i boschi chiedendo informazioni su
Fa-re a più persone. Pochi ne avevano sentito parlare e coloro che ne
avevano sentito parlare mi rispondevano ridendo che era tutta un’utopia.
Che non esisteva. Alcuni dicevano che non avevano mai sentito di
nessuno che fosse andato lì e che fosse tornato per poterne parlare.
Il terzo giorno cominciai a sentirmi stanco, ma avevo ancora abbastanza
denaro e perciò non ero preoccupato. Ero determinato. Verso l’imbrunire
vidi venire verso di me un uomo di mezza età con un lungo mantello
marrone ed un’aria risoluta. Il suo sguardo sembrava fisso davanti
a sé, come se ci fosse qualcosa che doveva raggiungere presto, tuttavia
i suoi occhi guardavano verso di me. Io vi leggevo qualcos’altro, non
potevo esserne certo, ma mi sembrava gentilezza.
Istintivamente lo fermai e gli chiesi se conosceva la terra o la gente di
Fa-re. Non disse nulla, mi sorrise, si voltò e mi condusse verso la direzione
che stava indicando; verso la linea del cielo dove l’orizzonte sembrava
così sereno. Mi accompagnò per un miglio. Poi, notando che avevo
freddo, mi diede il suo mantello. Nonostante indossassi un maglione,
tremavo dal freddo. Il vento vi penetrava attraverso.
Prima che potessi dire qualcosa, era già andato via ed io rimasi commosso
dal gesto del silenzioso straniero. Camminai per tre giorni finché arrivai
in una parte tranquilla del bosco dove i cespugli erano tagliati e l’erba era
bassa. La foresta era sparita per far posto a ciò che mi resi conto essere
una distesa molto simile ad un campo dove erano state piantate delle tende,
le legnaie abbondavano e le amache pendevano dagli alberi.
Il mio cuore batteva dalla trepidazione e dall’eccitazione. Possibile che
l’avessi trovato? Mentre mi avvicinavo, vidi tanti bambini che notandomi
cominciarono a correre verso di me. Molta gente si fermò nel campo.
Cercai di trovare un posto in cui ripararmi, quando una decina di
bambini mi saltarono addosso correndo, facendomi cadere e cadendo a
loro volta nel corso di questa gioiosa azione. Erano davvero felici di vedermi
o somigliavo a qualcuno che conoscevano?
Mentre mi aiutavano a rialzarmi ridendo, mi portarono dagli anziani che
mi abbracciarono cordialmente, mentre le donne mi strinsero la mano.
Preso dall’eccitazione, ci misi un pò a rendermi conto che anche qui tutti
erano silenziosi. Proprio come lo straniero premuroso che avevo incontrato
prima. Mi fecero sedere sull’erba e prima diedero da mangiare
a me, poi mangiarono loro. Dopodiché mi condussero in un recinto
fatto di paglia per fare un bagno.
Ero sopraffatto dall’ospitalità e non rifiutai nulla. Inoltre, sembrava che
questa gente sapesse leggere il pensiero, sapeva tutto ciò che desideravo
ancora prima che io lo desiderassi. Parlare non serviva!
Mentre facevo il bagno, ricordai gli ultimi eventi e le ultime cose che
avevo notato. Questo posto non sembrava avere una tribù o una razza
particolare. Sembravano essere una mescolanza di razze da tutti gli angoli
della terra. Vestivano in modi diversi: alcuni come le tribù montane
nomadi con vestiti fatti di pellame, altri indossavano vesti di lana come
me, ma la maggior parte indossava vesti lunghe fino alle caviglie.
Eppure erano un tutt’uno nella loro lingua non parlata. Non pensavo che
questo fosse quello che stavo cercando, ma, poiché ero lì, decisi di considerarla
un’avventura e vedere quanto sarebbe durata.
Ogni sera, la gente si radunava intorno al fuoco quando sorgeva la luna
per guardare le stelle e le meraviglie del cielo. Mormoravano tra sé
e sé o verso il cielo ma non riuscivo a comprendere nulla. Era tutto un
mormorìo.
Una cosa buffa che facevano era suonare i tamburi e dei pezzi di metallo
mentre battevano le mani ed esultavano. Era una cacofonia, ma per
loro era una melodia. Perciò anch’io danzavo ed esultavo.
C’erano anche diversi accordi che riguardavano la vita sociale ed il dormire.
Alcuni dormivano fuori, altri sulle loro amache sotto le stelle ed
alcuni nelle abitazioni in legno che io non riuscivo proprio a chiamare
case. Erano così spoglie.
Ogni volta che chiedevo informazioni su qualsiasi cosa mi sentivo frustrato.
Il Fa-re non sembrava apprezzare la parola. Qualunque cosa volessi
fare o imparare dovevo solo osservare e poi agire. Mentre passavano
le settimane, scoprii che la maggior parte delle cose che avevo portato
nel mio zaino servivano poco o niente. Nessuna di esse sembrava
fosse importante qui, neanche il mio orologio. La gente segnava il tempo
in base ai lavori da fare, agli eventi e alle stagioni.
Diedi via la maggior parte dei vestiti e dei maglioni, ma tenni ancora il
mantello. Mi ci ero affezionato. Rappresentava una specie di transizione.
Un’introduzione.
Quando qualcuno si adirava, a volte schioccava la lingua e questo ren-
deva nota la sua rabbia. Appena se ne rendeva conto, metteva il palmo
della mano sulle labbra e le colpiva ripetutamente, emettendo un suono
tipo wa-wa. (Un pò come facciamo noi a volte con i bambini).
Ciò indicava che era dispiaciuto e che stava chiedendo perdono. La parte
offesa allora copriva le labbra “schioccanti” con la sua mano per fermare
il wa-wa. Ciò significava che il perdono era stato concesso.
Mentre le settimane diventavano mesi, mi resi conto che la ‘cacofonia’
musicale non era più tale. Stava cominciando ad avere un ritmo. Stavo
imparando ad ascoltare con il cuore e non con le orecchie. Anch’io capii
che mi piaceva parlare sempre meno e preferivo questo tipo di linguaggio
fatto di dimostrazioni. Voi potreste chiamarla finzione, ma era
realtà. Non c’era alcun mito. Questa utopia era reale. Io la stavo vivendo.
Ci ero dentro!
Con il passare del tempo, cominciai a sentirmi sempre più a mio agio.
Questa era ora la mia casa, avevo lasciato il mio passato, avevo realizzato
il mio sogno, ero felice.
Ma non appena cominciai a pensare in questo modo, gli anziani se ne resero
conto. Come ho detto, i Fa-re erano in grado di leggere il pensiero.
Mi fecero dei cenni e mi spiegarono che quella era una terra di transizione.
Dovevo partire. Avevo fatto la mia esperienza, avevo imparato abbastanza
per andare via ed insegnare agli altri che avevano bisogno di sapere.
Adesso avevo io il compito di insegnare il linguaggio del Fa-re.
In qualche modo capii. Lo sapevo dal profondo del mio essere e la sensazione
non mi portò alcuna tristezza. Solo un chiaro senso di pace e
fermezza. Apprendere ciò mi rese così felice, da darmi un senso di déjà-
- vu. E’ stato solo un anno fa?
Non sapevo dove andare, né lo sapevano gli anziani. Ma le stelle mi avrebbero
indicato la strada, come per gli altri. Non avevo forse imparato a
leggere il tempo? Non era tutto chiaro nei cieli? Il tempo era giunto, poi
sarebbe arrivato il luogo.
Era tutto nelle stagioni. Una stagione che era stata ed una che sarebbe
arrivata. Ero nel mezzo. Tra l’uscire e l’entrare nella scoperta. Io avevo
trovato, e adesso avevo bisogno di camminare. La transizione riguardava
il cammino. Dovevo camminare il cammino. Ma poi mi venne
in mente una domanda, potevo parlare il parlato?
E la risposta era così chiara sulle mie labbra da non avere con sé alcuna
contraddizione. Non sapevo più parlare. Avevo perso la parola. Per
quanto ci provassi, non riuscivo a pronunciare le parole. Anche io, come
gli altri, ne ero uscito incapace di parlare.
Il Fa-re mi aveva trasformato. Non ero più lo stesso. Avevo lasciato il
mio passato, avevo una nuova identità!
Mentre entravo in città, nel freddo pungente, la vidi davanti a me. Interrompendo
quanto di vivido e chiaro mi circondava con il suo vestito
grigio inamidato, contro un cielo azzurro.
“Come ti chiami?”. Chiese.
Riuscii solo a fare segno dietro di me.
“Da dove vieni?”.
Riuscii solo a guardare le stelle. Il mio passato non aveva importanza.
‘Ya kale ni ya kale’. Solo dove stavo andando. Solo cosa dovevo fare.
Quando cominciai a camminare, le diedi il mantello. Io ero andato avanti
e speravo che anche lei avrebbe seguito.
Anche lei… (avrebbe seguito) il Fa-re.