I racconti del Premio letterario Energheia

Il male che contamina, Federica Di Stefano/Adriana Pastore_Andria(BT)

Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione giovani


Correva l’anno 1932 ed io, Aleksey Ivanov, vivevo in un piccolo appartamento in Russia con mio fratello Viktor: l’unica persona che mi era rimasta. Mi trovavo precisamente a Stalingrado, una città situata nella Russia europea, ed il mio era un appartamento che non dava l’idea di esserlo in quanto era un luogo spoglio, triste e mancante di tutte quelle che un essere umano può considerare necessità primarie, come servizi igienici e fonti di luce. La luce, infatti, entrava a malapena e la polvere che ricopriva pezzi di legno incastrati tra gli spifferi ci toglieva quel briciolo di speranza che i raggi di sole ci trasmettevano al nostro risveglio. La mia abitazione cadeva a pezzi, giorno per giorno, ma non era l’unica a trovarsi in tali condizioni :anni prima la stessa città di Stalingrado fu lo scenario di una dura guerra tra l’armata rossa e l’armata bianca. Le conseguenze di questa guerra furono durissime tra l’ingente perdita di vite umane e la devastazione delle vie della città, le stesse che adesso percorro ogni giorno. A quel tempo ci svegliavamo ogni mattina con la consapevolezza di vedere il sole sorgere soltanto attraverso i nostri occhi perché nel cuore, invece, la sensazione di buio era costante. Fino a qualche tempo prima la luce che ogni mattina illuminava il mio cuore era riflessa negli occhi di mia moglie, la stessa che avevo lasciato, incinta e dolorante, dopo un litigio che aveva portato dubbi ad entrambi su quella che non era più una relazione sana. Ero consapevole di star lasciando non solo mia moglie ma anche il mio futuro figlio, ed è per questo che mi sentivo oppresso dall’indecisione : pensare a me stesso o occuparmi delle mie responsabilità?. Ho scelto la prima opzione e non sono sicuro delle motivazioni che mi hanno portato a farlo: mi mancava tutti i giorni e il rimorso di averla lasciata sola mi invadeva la mente per ore. Ci eravamo conosciuti per caso, io e Anastasia ,una sera d’un gelido inverno, la vidi mentre stavo tornando a casa dopo una dura giornata lavorativa, stavo passeggiando per un viale cosparso di alberi innevati quando la scorsi leggere “Le notti bianche” di Dostoevskij: non potevo immaginare che mesi dopo io e lei avremmo visto le pagine di quel libro come una fedele descrizione della nostra storia d’amore. 

Io e Anastasia sembravamo fatti l’uno per l’altro, vivemmo una storia che durò per 7 anni durante la quale si alternavano momenti di estrema felicità e momenti di forti incertezze .Nonostante tutti i litigi tornavamo sempre l’uno dall’altra perché eravamo convinti di essere l’uno l’anima gemella dell’altro: eravamo giovani ragazzi che si amavano nel modo più genuino che ci potesse essere e che presero, dopo tempo, la decisione di creare una propria famiglia .Quei ragazzini, però, sono cresciuti in un breve arco di tempo e ancor prima della nascita del loro primo figlio si sono trovati costretti ad apprendere la fragilità di una relazione e dei sentimenti. Erano mesi che mio fratello Viktor mi inviava lettere nelle quali lui esplicava la sua forte voglia di incontrarmi per parlare di un progetto a cui stava lavorando e a cui voleva che io mi unissi, così colsi l’occasione della situazione critica che vi era tra me e Anastasia e decisi di partire alla ricerca di una nuova realtà.

Per la Russia quegli anni furono molto bui in quanto al potere vi era Stalin, un dittatore che impose un regime totalitario con un’unica ideologia, in cui i cittadini erano privati di ogni diritto e libertà ed erano costretti a lavorare come operai per lo stato in condizioni schiaviste. Questa oppressione dei diritti portò il popolo, che non era più tutelato da un governo democratico, ad ideare organizzazioni di oppositori che erano viste come l’unico modo per tentare di combattere il regime. A capo di una di queste organizzazioni vi era proprio mio fratello Viktor che, con il suo essere persuasivo, riuscì ad integrare sempre più oppositori a quello che si rivelò essere lo straordinario progetto di cui mi aveva parlato.

Un giorno, durante un incontro con l’organizzazione di Viktor, ero di guardia all’entrata del rifugio segreto quando vidi arrivare la polizia speciale. Ricordo quel momento come fosse ieri:  mi tremavano le mani, avevo la bocca asciutta e il freddo di quella sera mi aveva invaso gli occhi. Ricordo di aver immaginato tutta la mia vita e tutti i ricordi si erano susseguiti nella mia mente come in una pellicola cinematografica, in quell’istante in cui ho pensato di morire. 

Lo ammetto: mi comportai da vero vigliacco ed egoista. Sino a quel momento non avevo mai immaginato quanto fossi debole e incapace di gestire una situazione del genere, al contrario di Viktor, sempre così coraggioso, audace, intraprendente.Non avevo mai accettato il fatto di essere inferiore a lui e a tutti quelli che come mio fratello affrontavano con dedizione diverse sfide per salvare la nostra patria, il nostro Paese. 

Avevo visto la mia partecipazione a questa organizzazione come una sfida, ma mi sbagliavo di grosso. Non sarei mai stato come Viktor, non sarei mai stato forte. Iniziai a correre alla vista di quegli uomini armati tanto minacciosi, non curandomi di tutti gli altri nel rifugio che sarebbero stati scoperti, compreso lui: mio fratello. Corsi per chilometri, nonostante le mie orecchie udissero spari provenienti proprio da quel rifugio e venissero bombardate da urla di bambini e donne indifese. Correvo più veloce del vento, avevo paura di tutto, le nuvole di fumo mi impedivano di vedere dove stavo andando, mi ricordo che per la mia mente passò per qualche secondo il pensiero di ritornare lì e farmi valere, per la prima volta nella mia vita, ma era più forte di me. Mi sentivo così indifeso e debole, circondato da una sanguinosa realtà con cui non ero pronto ad interfacciarmi. Mi rifugiai sotto un albero, le lacrime mi rigavano le guance e il rumore degli spari ancora rimbombava nella mia mente. Era un tormento.

Qualche ora dopo ritornai al rifugio, afflitto dai sensi di colpa : eccolo il male che contamina. Quando arrivai al rifugio vidi svariati cadaveri ammassati l’uno sull’altro e iniziai a controllarli uno ad uno sperando fino all’ultimo secondo di non trovare Viktor.Così fu; infatti da quel momento non ebbi più notizie di mio fratello e di tutti gli altri i cui corpi non furono rinvenuti. Col senno di poi, forse avrei voluto trovarlo lì, quel giorno, il corpo di Viktor.

Dopo la scoperta della nostra organizzazione che fu la prima delle tante ad esser stata sorpresa durante un incontro, il tiranno Stalin introdusse una propaganda sempre più martellante di un regime contro gli oppositori, in cui si promettevano ricompense per chiunque rivelasse alla polizia informazioni su coloro che andavano contro il regime.

La situazione da quel momento divenne insostenibile: si diffuse il terrore, non ci si poteva più fidare di nessuno, ogni cittadino viveva solo di infamia per salvaguardare la propria sopravvivenza, diventando un oggetto dello stato che ormai tolse loro la dignità di uomo.

Trascorsi letteralmente tutto l’ anno a piangermi addosso, il tempo passava e io non riuscivo a perdonare il mio atto egoista nei confronti degli altri, soprattutto del mio amato fratello. Avevo paura anche di ritornare nella villetta in campagna, dove mia moglie trascorreva le sue monotone giornate, lavorando ogni giorno per ore per procurarsi da mangiare e aspettando il mio arrivo con ansia . Continuava a sopravvivere da sola, viveva per la curiosità di vedere se gli occhi di nostro figlio fossero uguali ai miei o ai suoi. 

Finalmente un giorno mi svegliai senza rimorsi, senza rancore, senza paura e con l’irrefrenabile voglia di rivendicare la scomparsa di Viktor e la morte degli altri, combattendo contro la dittatura che mi aveva spinto a comportarmi come un vigliacco. Radunai, così, i pochi amici che mi erano rimasti e spiegai loro il mio piano: formare un’altra associazione contro questo regime, promettendoci l’un l’altro lealtà e fiducia così da vincere contro il regime e ricevere notizie dei nostri cari il prima possibile.Ero convinto di potercela fare, ero sicuro delle mie capacità e della scelta che avevo fatto sulle persone da integrare alla mia organizzazione. La promesse, però, non vennero mantenute e, di conseguenza, questo patto non durò a lungo a causa dell’infamia di alcuni di noi. Venni scoperto e in quanto fondatore dell’organizzazione fui il primo ad essere scaraventato via dal capanno. Mi presero con forza e mi fecero camminare fino ad un buio vagone tra un ammasso di persone, le quali avevano in comune una grande malinconia in volto. Tra gli sguardi persi degli innocenti e le preghiere sussurrate dagli anziani derubati dei loro ultimi anni di vita, gli occhi altezzosi di tutte le persone presenti sul vagone si posavano su chiunque cercasse di interagire con loro. 

Tra urla e pianti mi ricavai un angolino in fondo al vagone dove mi accovacciai, posai vicino a me la sacca che avevo afferrato bruscamente prima che venissi strattonato e poggiai la testa sulla parete. Mi domandai durante il viaggio che mi sembrava interminabile quale fosse la mia meta. Per un momento mi sembrò di non avere più la cognizione del tempo. Dopo un lasso di tempo al quale non saprei attribuire una durata mi risvegliai sotto una serie di facce impaurite e scarpe sporche precedentemente accumulate nell’angolo in cui stavo dormendo. Mi alzai stordito e avvicinai un occhio ad un finestrino vicino al quale tutti si affollavano per vedere fuori: un vuoto. Vidi dinanzi a me un campo di concentramento, quello che anni dopo fu rinominato “Gulag”. Poi ci fecero scendere, ma ciò che vidi era peggio di quello che avevo immaginato. Vedendo quel posto rabbrividii: cadaveri ammassati ovunque, urla strazianti e polizia armata che squadrava ogni persona scesa dal vagone. Capii subito che quel posto era l’inferno per gli oppositori: oppositori come me e…come Viktor. Durante la mia terribile esperienza all’interno di quel posto vedevo mio fratello in qualsiasi cosa facessi, non persi mai la speranza di ritrovarlo lì, ma inutile specificare che non ebbi mai notizie riguardo la sua sorte, nonostante sia tutt’ora alla ricerca di chiarimenti. Un giorno George, un ragazzo che si era ritrovato nel campo come me, propose un’assemblea di rivolta e dal giorno dopo non ebbi più sue notizie. Mi ricordo quando un giorno mi diedero un incarico praticamente infattibile.La neve era tanta e mi copriva metà delle gambe che ,sprofondando, diventavano sempre più ghiacciate. Faceva freddo. Le mie mani erano congelate.Le sentivo chiedere aiuto, percepivano il gelo e io volevo dar loro ciò che desideravano. Volevano essere scaldate. Non vedevo una stufa da più di tre mesi, lavoravamo come matti e non potevamo richiedere una sosta. Mi avevano mandato a portare un secchio di stucco nella grande sala delle riparazioni, ma era il 30 novembre e fuori si gelava. Le pellicine sulle mie nocche si iniziavano ad accumulare e non appena poggiavo il secchio di stucco a terra, mi arrivava una frusta sulle spalle.Le parti interne delle mie dita erano rosse e stanche. Lavoravo giorno, sera e notte. Lavoravo perché ero sicuro che sarei uscito da lì, che sarei riuscito a conoscere mio figlio, che sicuramente doveva esser già venuto al mondo. Avrei potuto riabbracciare mia moglie. Il ricordo del suo sorriso e il rimorso insensato di averla lasciata sola, a procurarsi cure e cibo, a sfamare una bocca in più, mi pervadeva in continuazione la mente. Senza di me. L’avevo lasciata con il suo pancione da gravidanza, dormiente su una sdraio, mentre la guardavo. Mentre le voci nella mia tesa mi incitavano a muovermi.

 Era il primo dei tanti giorni nei quali si sarebbero svolti i nostri incontri segreti e clandestini. Mentre avanzavo verso la sala e pensavo a quei brutti ricordi, incontravo gli sguardi impassibili delle guardie. Non conoscevo il sergente Gusev, ma ero certo di poter affermare che non era quello che voleva trasmettere di essere: il suo volto voleva la pace, desiderava calma e pregava per la tranquillità. Aveva un viso docile e quando incrociavo i suoi occhi espressivi mi perdevo a fantasticare sulla sua vita.Secondo me aveva una moglie, e anche dei figli. Secondo me era stato costretto. Non era così, lui non voleva essere così. 

Faceva così freddo che caddi a terra, stremato. Le guardie mi frustarono, mi ordinarono di muovermi e mi urlarono di proseguire. Io pensavo allo schifo che stavo affrontando e allo schifo che stavo diventando. Il rimorso è una cosa inspiegabile, ti rende una persona triste e insoddisfatta in pochi secondi. Mi mancava sentire l’odore del pane appena sfornato; mi mancava la voce della mia donna, mi mancava andare a riparare la macchina del signor Makarov. Mi mancava la voce di Viktor, del signor Volkvov che ogni giorno mi lanciava il giornale sulla porta. Vivevo di voci e acqua, ora vivo di acqua e ricordi. Ogni giorno avevo sempre più paura di dimenticare, di dimenticare le voci. Quelle voci delle persone che facevano parte della mia quotidianità.

Passarono anni strazianti e dopo tempo noi oppositori fummo liberati per una ragione che non mi è ancora chiara. 

Furono anni che io ricorderò sempre come un periodo in cui non mi riconoscevo. Non riconoscevo Aleksey in nessuna cosa facesse. Era diventato un’altra persona e avrei davvero voluto che se all’epoca esistessero videocamere per riprendere tutto ciò che accadeva nei campi.In quel modo avere potuto mostrare al mondo quanto fossi stremato, stanco, brutto, malato, perché se avessi provato a descriverlo con le parole le lacrime si sarebbero sostituite alla mia voce. L’Aleksey di ora è diverso, è maturato. E non perché ora è sano, vivo, in carne ed ossa, ma perché è sopravvissuto ad uno dei momenti più bui della storia dell’umanità. Un uomo che ha vinto contro il contagioso male di quegli anni neri, cupi e mai immaginabili da persone che hanno avuto la fortuna di non averli vissuti. Quando ritornai alla villetta in campagna non trovai mia moglie, né mio figlio. C’era un bigliettino ormai rovinato infilato in uno spazio vuoto sul davanzale della finestra. Nostro figlio era un maschio e lei era andata via. Non scrisse né dove né quando era partita ma sapevo una cosa: mio figlio aveva il mio stesso nome.

Sono qui, adesso, a raccontare da sopravvissuto la mia storia per essere un testimone di una terribile epoca contaminata dal male, in cui la follia umana raggiungeva il limite e la vita era un premio per chi aveva la forza di continuare.

Quello era il male che contamina…chissà se continuerà ad essere per sempre solo un ricordo.