Il nemico di Stato_Mbugua Njoroge
_Racconto finalista quarta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Catia Basile
Nessuna delle sue due visite in città fu piacevole. Sentì il bisogno di recarsi
prima da suo figlio, che era detenuto presso l’Istituto Penitenziario
di Stato, gli fu detto, per il mantenimento dell’ordine pubblico. Non
comprendeva a fondo una tale affermazione, ma sapeva che suo figlio
era stato arrestato per le sue convinzioni personali.
Il vecchio si sedette su una panca di legno in fondo ad un camioncino
che stava riportando il corpo di suo figlio al villaggio per la sepoltura.
Il suo sguardo andava dalla bara a Nyarari, la moglie di suo figlio. Si
era sposata cinque anni fa. Percepì con commozione il suo dolore per
il sogno di una vita infranto. Aveva appena festeggiato il suo ventottesimo
compleanno ed ora era una giovane vedova.
Fissò poi il suo sguardo sulla bara e pensò con timore che il suo unico
investimento era stato colto dall’albero della vita prima che fosse in fiore.
Osservò, sconvolto, la struttura in legno che conteneva le spoglie di
suo figlio. Aveva investito tutti i suoi averi sulla sua istruzione nella speranza
di un futuro migliore.
Quando suo figlio si laureò in lettere, come molti abitanti del villaggio,
pensò che il suo sacrificio fosse finito. Ricordò la laurea di suo figlio
come un matrimonio fiabesco. Persino la gente che abitava in montagna
giunse a casa per partecipare al grande evento.
Suo figlio e molti intellettuali, scrittori, avvocati e giornalisti della Repubblica
delle Banane erano considerati elementi sovversivi e furono
collettivamente denominati “Nemici di stato”.
Per questa ragione, Mzee Wanduru era convinto che lo stato fosse responsabile
della morte di suo figlio. Si ricordò il modo in cui le forze
dell’ordine gli saccheggiarono la casa alla ricerca di ciò che definirono
pubblicazioni sediziose.
Credevano che suo figlio, che allora insegnava scienze politiche all’Università
statale, stesse corrompendo i suoi studenti esponendoli a
contenuti proibiti. Fu accusato di leggere Il Capitale e altri testi banditi
e di appartenere ad un movimento clandestino, il Mwabanana, il cui
intento era sabotare il governo costituzionalmente eletto della Repubblica
delle Banane.
La sua mente cominciò a rivivere il peso delle sofferenze di suo figlio
che culminarono con la sua morte. Erano trascorse tre settimane e suo
figlio non si era fatto vedere. Era piuttosto insolito per lui che li andava
a trovare regolarmente al villaggio. Un pomeriggio, un contingente
dei servizi di sicurezza della BSI, la Banana Security Intelligence,
si presentò per informarlo che suo figlio era detenuto presso l’Istituto
Penitenziario di Stato secondo il Cap. 107, Legge della Repubblica
delle Banane.
Gli dissero che se voleva, poteva vedere suo figlio in carcere, ma sotto
la sorveglianza della BSI. Accettò. Fu incappucciato durante il tragitto
e quando gli tolsero il cappuccio vide suo figlio aggrappato alle grate
di una cella fortificata. “Tempo scaduto!” urlò la guardia penitenziaria.
“Papà! Prendilo e conservalo”. Suo figlio gli lanciò un taccuino prima
che lo trascinassero via verso gli interminabili corridoi del carcere. Lo
mise nel cappotto. Poi fu bendato e riaccompagnato a casa nello stesso
modo con cui era stato condotto.
Quando arrivò a casa non si ricordò di prendere il taccuino dalla tasca;
era troppo preoccupato per suo figlio nelle mani dei temibili agenti
della BSI.
Una mattina, mentre raccoglieva gli effetti personali di suo figlio su ordine
del governo, si accorse che nella tasca interna del cappotto c’era il
taccuino. Attese il momento più opportuno per leggerlo, di ritorno al villaggio
mentre scortavano le spoglie di suo figlio morto.
Prese il taccuino dalla tasca interna del cappotto. Lo aprì e riconobbe la
calligrafia di suo figlio.
Porta i miei saluti a mia moglie e a mio figlio. Dille che spero di uscire
dal carcere per realizzare i nostri sogni. Immagino che sia ancora
sconvolta da quello che ha visto quando i terribili agenti della BSI hanno
fatto irruzione nella nostra casa. Ho il sospetto che debbano aver
mandato alcuni dei loro agenti nell’aula il giorno in cui mi hanno arrestato.
Sfortunatamente quella mattina parlai infatti di Socrate che aveva insegnato
ai giovani ad essere liberi e curiosi e aveva così offeso le autorità.
Fu condannato a morte e gli fu chiesto di scegliere se essere impiccato
o bere la cicuta. Scelse quest’ultima. Ho persino chiesto ai miei
studenti se fossero disposti a bere la cicuta per il bene della Repubblica
delle Banane.
Inoltre, ricordai loro che Gesù Cristo morì perché dubitò della vecchia
scuola di pensiero. Fornii altri esempi tra cui Martin Luther
King Jr. colpito dalla pallottola di un assassino per aver creduto nella
fratellanza dell’umanità. “Credete nella verità se siete patriottici.
Le nostre prigioni non possono contenerci tutti”. Conclusi lasciando
i miei studenti perplessi.
Così, quella sera, quando udii qualcuno bussare incessantemente alla
porta, capii che chi la fa l’aspetti.
Fecero irruzione in casa e ci costrinsero a svegliarci. Cominciarono a
frugare tra le nostre cianfrusaglie.
Mio figlio di tre anni li guardava con aria sospettosa e perplessa. Pensò
fossero rapinatori o ladri. Non riuscivo a fermare la loro selvaggia
irruzione. Rimasi immobile, come se facessi parte dell’ambiente, fino
a che avessero finito. Non si vergognano. Perché dovrebbero farci questo
davanti allo sguardo minaccioso di nostro figlio? Il Presidente Wandahuhu
ha dichiarato pubblicamente che vuole preservare la cultura africana,
ha persino rifiutato il suo nome cristiano! E’questa la cultura africana
che vuole preservare e salvaguardare?
Mi ammanettarono e mi scortarono nel sistema di sicurezza della BSI, nel
loro camioncino che ci stava aspettando e sfrecciarono via per non so dove.
Sentii gli urli di dolore di mia moglie e di mio figlio. Urlava ma nessuno
osò risponderle. Era considerato un crimine vagabondare parlan-
do ad alta voce lungo la strada, figuriamoci rispondere ad un gesto di
disperazione.
La gente veniva arrestata quotidianamente in questa città ed era difficile
poter distinguere un membro della BSI tra la folla. Non sapevo cosa
volesse dire essere un detenuto nella Repubblica delle Banane.
E’ un tabù parlarne in questa zona. Soltanto il “The Daily Truth” tenne
fede ai suoi osservatori. Sfidò il governo, pubblicando editoriali critici
e una serie di dossier che lo implicavano.
Il resto non ha importanza. Gli ufficiali della BSI tesero un’imboscata
alla pressa tipografica, smontarono le macchine e sequestrarono documenti
ritenuti pericolosi. Gli editori furono arrestati, il quotidiano fu
proscritto secondo il Cap. 177 della Legge per il mantenimento dell’ordine
pubblico. In seguito venimmo a sapere che il capo redattore era stato
ucciso e sepolto in una fossa comune.
Per ritornare alla mia storia, mi bendarono nonostante fosse già buio
e mi portarono via in macchina ad alta velocità.
Le porte della cella erano spalancate, mi chiesero di togliermi le scarpe
e le calze. Mi spinsero nella cella. Udii dei passi avvicinarsi al punto
in cui ero seduto.
Dopo un po’ mi tolsero la benda dagli occhi e scorsi tre uomini che indossavano
una divisa militare mimetizzata. Uno di loro, che sembrava
essere il loro leader, mi ordinò di alzarmi. Mi chiese di spogliarmi nudo,
esitai e mi ricordò che erano ordini esecutivi e che dovevo obbedire.
Gli altri due fecero un passo in avanti e cominciarono a spogliarmi. Chiesi
se potevo tenere i pantaloni ma mi dissero che non avevo alcun potere
per dar loro ordini. Mi lasciarono nudo per circa mezz’ora, prima
che una guardia mi lanciasse un Kunguru, ridotto a brandelli, per coprirmi.
Avevo molto freddo. Il pavimento era molto freddo ed un riflettore mi
impediva di dormire. Chiesi alla guardia l’ora, fece finta di non sentire,
poi disse “La vita ti ha ingannato? Perché combatti con gli dei? Perché
non ti preoccupi di tua moglie e dei tuoi bambini e smetti di lottare
contro il governo?”
La mattina successiva, di buon’ora, mi portarono in un’altra stanza di-
pinta di rosso. Ero circondato da una parete dal perimetro di 40 piedi.
C’era un silenzio tombale. Mi diedero un secchio come gabinetto perché,
come mi ricordò la guardia, ero un nemico dello Stato.
Il peggio doveva ancora arrivare.
Allo scadere delle quarantotto ore fui bendato e spinto in un camioncino.
Fui prelevato da due ufficiali di polizia che, tenendomi per
le braccia, uno a sinistra e l’altro a destra, mi spinsero verso il piano
di sopra. Fu un’impresa salire le scale e ogni tanto inciampavo
per il divertimento degli ufficiali. Dopo quella, che mi sembrò la scalata
del Kilimangiaro, una porta si spalancò e giungemmo ad un piano
rialzato. Mi tolsero il cappuccio e mi ritrovai in una stanza ben
illuminata davanti ad alcuni uomini che indossavano tutti gli occhiali
da sole.
Mi chiamo ESB o se preferisci Enemy of State Breaker, il sovvertitore
dei nemici di stato. Io ho a che fare con coloro che vogliono portare la
nostra repubblica in malora. Sono pagato per questo. Devo farlo perché
amo il mio paese. Tu sei il nemico numero ventuno. Non posso permetterti
di sovvertire il governo solo perché hai le tue inutili lauree.
Che cosa hai da dirmi?
“Mi sento male, posso vedere un dottore?” risposi.
“Come può un dottore, pagato proprio dal governo che tu stai sovvertendo,
venire a visitarti? Perché non chiedi ai tuoi padroni stranieri di
venire in tuo soccorso?
Gli altri hanno testimoniato contro di te; ora dimmi perché appartieni
a quel gruppo ingenuo di teppisti che si chiama Bwabanana, o meglio
Mwabanana?”
“No” dissi.
“Portatelo a B”, tornò a brontolare. Due o tre guardie mi presero e mi
spinsero in una stanza buia. Dopo dieci minuti accesero la luce per farmi
conoscere i miei compagni di cella. Stavo per urlare quando vidi tre
cadaveri sul pavimento. Poi spensero le luci per circa un’ora e ripeterono
la stessa azione per tutta la notte.
Il giorno successivo comparvi davanti a ESB, “hai imparato la lezione professore?
– chiese –. Conosci o no Banana, voglio dire Mwabanana?”, implorò.
Rimasi in silenzio perché non avevo nulla da dire.
“Portatelo a C”, ordinò. Era una stanza ben illuminata, c’erano diverse
poltrone. Mi ordinarono di sedermi su una sedia. Dopo essermi
seduto si avvicinarono e mi incatenarono contro la sedia e azionarono
la corrente. Mi stavano fulminando, ne ero certo. L’azionavano
spesso, mi guardavano e mi ridevano in faccia. ESB entrò nella
stanza e chiese ad una delle guardie di strapparmi l’unghia del pollice.
Si avvicinò mentre mi tenevano il dito sul naso e mi disse: “Prof… è
pronto a dirci quello che vogliamo?”
Il mio cuore cominciò a dirmi di confessare. Confessa. Temevo che non
avrei resistito a quella tortura. Quasi credevo a quello che mi stava dicendo,
che ero un nemico dello stato. Pensai persino di implorare pietà.
Ma l’altra parte di me mantenne ferma la propria posizione. “Come
si può confessare qualcosa che non si conosce?”
ESB mi disse che avrei avuto tutta la notte per pensarci. “Chi credi di
essere, prof.? La Repubblica delle Banane è più grande di tutti noi. Ricorda
che confessando la verità dimostrerai di amare il tuo paese, rifiutando
ci dirai: “al diavolo con la vostra repubblica. La scelta è tua”.
Non c’era più nulla da leggere sul taccuino. Sentì poi qualcuno dire “Rimuovete
il corpo. Siamo arrivati”.
Fu allora che comprese che il viaggio dalla città al villaggio era terminato.
La bara fu posta su due sgabelli ed ebbe inizio il rituale della sepoltura.
Nessuno dei presenti osò discutere sulla morte di suo figlio. L’aria era
tesa. Quando il Reverendo Padre si alzò per celebrare la messa disse: “Dio
lo ha chiamato per stare con Lui. Sta meglio che qui da noi. Non avrà più
preoccupazioni e sofferenze. Ha compiuto la sua missione”.
Sua moglie e suo figlio, fermi accanto alla bara, piangevano. Anche i
suoi parenti si recarono a trovare il loro figlio ed un fratello. Era un atto
di Dio, le sue azioni sono indiscutibili. Dio lo ha chiamato.
Fu sepolto e sua moglie, suo figlio e i suoi genitori piantarono dei fiori
in silenzio. I fiori crescono ancora in silenzio e la moglie, il figlio e i
genitori stanno ancora aspettando in silenzio quel giorno.