Il nuovo giornalismo come approfondimento
_ di Giorgio Fontana_
Durante il festival GLocal dedicato al giornalismo digitale, Mario Tedeschini Lalli ha partecipato a una tavola rotonda su “ciò che resta dei giornalisti” nell’universo disintermediato – ovvero in un ecosistema dove l’informazione circola molto più liberamente ed è reperibile in una quantità di luoghi molto diversa da quella del classico quotidiano comprato la mattina (o del telegiornale seguito la sera).
Il ragionamento di Tedeschini Lalli è riportato e ampliato in un post davvero ottimo, che merita di essere letto per intero. In particolare, vorrei soffermarmi su un punto:
occorre farsi un discorso molto realistico ogni volta che si invoca la “qualità” del lavoro professionale messo a rischio da questo universo “a gambe all’aria”, ogni volta che giustamente invochiamo la assoluta necessità di un prodotto giornalistico professionale che aiuti i cittadini a fare scelte informate: quanta parte del giornalismo, anche buono, contenuto nei nostri pacchetti-giornale non è in qualche modo fungibile? Quanta parte è veramente essenziale per il funzionamento di una democrazia partecipata e non può essere fornita se non da professionisti indipendenti che ricercano,verificano, valutano e ordinano le informazioni in base a criteri di rilevanza basati sulla fiducia con il lettore?
Mi piacerebbe che qualche dottorando in materie storiche o comunicologiche tentasse un’analisi quantitativa di questo genere, nel frattempo la mia opinione spannometrica è che forse solo il cinque per cento del nostro giornalismo è veramente fondamentale per la democrazia e non è fungibile. Diciamo che mi sbaglio, raddoppiamo: il dieci per cento. Vuol dire che il 90% di quel che produciamo non è così essenziale o, comunque, non è essenziale che sia prodotto da NOI.
Il vero problema politico, professionale e industriale è quel cinque-dieci per cento: chi lo produrrà e con quali soldi? In realtà, nonostante le favole che ci siamo raccontati, il giornalismo “di qualità” non ha quasi mai pagato se stesso. I grandi reportages, le grandi inchieste, erano nel “bundle”. Compravi il pacchetto (a un prezzo enormemente inferiore a quello di produzione, sussidiato dalla pubblicità) perché ti interessavano, per esempio, la cronaca nera o le mini-critiche dei film e portavi a casa anche il resto.
C’è da aggiungere che, sebbene il giornalismo “di qualità” sia sempre stato economicamente poco sostenibile, lo è particolarmente ora. E lo è anche tutto il resto: il “pacchetto” del giornale soffre moltissimo proprio in termini culturali (come si diceva sopra, l’informazione scorre ovunque) e anche in termini banalmente monetari: il sussidio della pubblicità è sempre più basso ed è chiaro che ci sarà ben poco da fare per salvare tale modello.
Magari i tempi saranno più lunghi del previsto: anzi, probabilmente sarà così, visto che molto spesso ragioniamo un po’ troppo da insider e pensiamo che tutto il mondo sia connesso a Twitter e si informi su quella piattaforma o altre. In realtà la penetrazione del mezzo e della stessa rivoluzione informazionale è ancora agli inizi: ciò detto, è chiaro che è un processo in corso non si può fermare puntando i piedi. (Quindi sì, che ne pensa di tutto questo un giornalista ventiseienne, visto che ora nemmeno la cronaca nera o le mini-critiche dei film sono realmente sostenibili?).
Non solo. Il rischio è di ripetere un pensiero un po’ impreciso legato alla grande editoria: i bestseller (anche quelli più beceri) consentono alle case editrici di pubblicare anche libri di grande qualità ma con scarso successo di pubblico. (O di ripubblicare classici poco conosciuti, o di puntare su nuovi nomi eccetera).
Dico che è un discorso impreciso non solo perché rischia di essere un alibi per dividere, in maniera un po’ élitaria, il pubblico dei lettori in due fasce: quelli che comprano porcherie e quelli che invece comprano cose buone: e i primi servono – dal punto di vista dell’approccio “colto” – a pagare i prodotti dei secondi.
No, è impreciso anche perché le cose non stanno così, se mai lo sono state. Il bestseller di massa è un fine in quanto tale per due motivi: perché i soldi sono sempre meno e dunque bisogna vendere; e perché l’idea stessa dell’editoria come progetto culturale è in crisi da tempo.
Nell’ambito del giornalismo vediamo ripetersi questo schema mentale quando pensiamo ai “boxini morbosi” – come li ha battezzati Luca Sofri – che dovrebbero servire per pagare roba di qualità, e invece servono per lo più a tenere in piedi il sito stesso. L’obiettivo sono i click perché l’obiettivo è vendere pubblicità: e dopotutto, se le gallery di tette e micini piacciono così tanto, perché non darli ai lettori? Forse allora il giornalismo di qualità è sempre stato insostenibile anche perché poco richiesto, cibo per una minuscola fetta della popolazione. Perché insistervi?
La mia risposta suonerà molto vecchio stile, ma è sempre la stessa: perché l’informazione ha una sua ragione etica e soprattutto educativa. Perché raccontare cosa succede nel mondo, e cercare di farlo in maniera equilibrata e intelligente e senza bufale è un valore indispensabile per la buona salute del corpo civico in quanto tale, e merita di essere in qualche modo salvato.
(Ovviamente, sul “modo” non so pronunciarmi: continuo a leggere articoli – pagati – che mi mettono ansia sul futuro del giornalismo e della sua economia, e che generalmente si concludono con una nota speranzosa, ma non ho mai letto soluzioni davvero alternative messe in gioco. Molto spesso ci si ripete che le cose stanno cambiando e basta).
Ed è probabilmente vero che il 90 o 95% di quanto prodotto non è indispensabile per la democrazia in quanto tale: ma se dovessi pensare a una soluzione coraggiosa cercherei di aumentarlo, invece di diminuirlo (attenzione, non che Tedeschini suggerisca niente di simile, ovvio). Non solo: mi impegnerei anche a fare in modo che lo stile con cui si racconta il resto abbia una propria identità e sobrietà e non si limiti a scopiazzare la prima cosa che salta fuori o assemblare foto per attrarre click. Rendersi un po’ più indispensabili, insomma. (Naturalmente per fare questo occorrono soldi, e torniamo al punto di partenza: cari manager, aiuto).
Il punto è che perso per perso, meglio perdere alla grande. Meglio provare ad alzare il livello di una massa di lettori sempre più ampia (molto, molto più ampia di quella dei tempi del “giornalismo classico”, e qui bisogna dire grazie a internet) invece di rassegnarmi e pensare che la gente è scema e vuole mangiare la merda, quindi produco un sacco di merda.
In chiusura di pezzo, nel cercare un nuovo posto a un vecchio mestiere, Tedeschini invoca la necessità di figure giornalistiche “mediatrici”, in grado di riassemblare le informazioni e “aggregarle secondo proprie strutture di senso”,
senza dimenticare che l’universo è cambiato, è cambiata l’atmosfera che respiriamo, che le persone in favore delle quali scegliamo, aggreghiamo e “curiamo” sono solo a un click di distanza dalle informazioni originali che abbiamo appena riproposto. E – specialmente – sono loro stessi fonte di informazione, giocano la stessa partita, nello stesso campo, nello stesso momento in cui la giochiamo noi, il New York Times, il sito della Ferrari, l’account Twitter dell’esercito israeliano e l’associazione strade sicure della più sperduta cittadina dell’Ohio.
E anche qui ha ragione. Ma a mio avviso c’è di più.
La figura del giornalista può reincarnarsi in un modo che non è solo quello del cronista doc – magari soppiantato da Twitter – né quello del dj di notizie appassionato. Può farlo puntando anche sulla carta dell’approfondimento serio. Del commento intelligente e puntuale (non retorico – non da classica terza pagina italiana): dell’intervista seria dettagliata e non scontata, messa insieme in fretta e per dovere: dello “spiegone” (come dicono ogni tanto quelli del Post): eccetera.
Ne accennavo tempo fa, sostenendo l’idea provocatoria che dovrebbero esserci più inserti e meno quotidiani, e continuo a pensare che non sia una cattiva idea. Che ci sia qualche problema a Gaza lo posso sapere nel medesimo istante in cui lo sa un giornalista. Che io sappia cosa sia la striscia di Gaza e quali siano i termini in gioco del problema, è già più difficile: Tedeschini rileva giustamente che per un sacco di persone l’informazione minimale – la pillolina su Gaza – è più che sufficiente: non so se c’è un modo per evitarlo, ma se c’è è a questo dovrebbe servire ora il giornalismo.
A evitare cioè di darci altri frammenti e pillole in un’infosfera sempre più frammentaria, e aiutarci a ricostruire il quadro, un po’ come farebbe un buon insegnante di fronte a un’enorme quantità di libri di testo disponibili: spiegare come distinguere la verità dalla retorica vuota e un fatto da un’idiozia, stringere rapporti più chiari di causa ed effetto, e in generale renderci più consapevoli e meno ingannabili dal potere (da qualunque potere) e in grado di costruirci una visione del mondo il meno partigiana e il più obiettiva possibile.
Insomma: tutto quello che l’intelligenza umana può dare, e un algoritmo di news invece no.