Il padre di Serengeti_Dean James Martins
_Racconto finalista prima edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Angela Lorusso
L’Africa, all’alba del ventesimo secolo.
Un continente incontaminato e vergine; stupendo ed arrogante nel suo disprezzo per la civiltà.
L’Africa dalle giungle imponenti e dalle vaste pianure. Dai deserti infiniti e dalle invalicabili montagne. L’Africa delle piramidi e delle savane.
Delle scogliere torreggianti e dei precipitosi fiumi tempestosi.
L’Africa delle foreste impenetrabili e delle caverne misteriose.
Del Congo e del Kalahari.
L’Africa dei forti popoli orgogliosi. Gli Arabi e gli Africani. L’Africa di tribù simili e tuttavia tanto diverse tra loro. L’Africa dei regni splendidi e delle potenti comunità tribali. L’Africa dalle molteplici etnie e dalle mille lingue. Dei fieri guerrieri e delle loro donne alte e forti che erano ricchezza e orgoglio delle comunità.
L’Africa dove regnava la superstizione, dove dettavano legge gli stregoni che conoscevano la sapienza e la magia degli antenati.
L’Africa terra degli animali selvaggi.
Del battelliere e del barracuda. L’Africa del cacciatore e della preda. Del leone e della gazzella. L’Africa dove fioriva ogni forma concepibile della natura, dove gli animali in libertà si contavano a milioni quando, mentre fuggivano in preda al panico, facevano tremare la terra sotto i loro zoccoli.
L’Africa dell’elefante che barriva e del pitone che strisciava. Del ghepardo che correva e del rinoceronte col suo corno regale. L’Africa del coccodrillo che giaceva sommerso sotto le acque di torbidi acquitrini. Dell’avvoltoio che cavalcava il vento alla ricerca di carogne. L’Africa d’infinite varietà d’uccelli che riempivano l’aria di strida e canti.
L’Africa dal clima implacabile, dai cieli ardenti e dalle piogge improvvise.
L’Africa dal sole cocente che arrossava gli orizzonti con onde tremolanti di calore e poi inzuppava gli stessi luoghi impunemente, con tempeste di tuoni e lampi che laceravano alberi alti trenta metri.
L’Africa dalle mille divinità. L’Africa degli antenati; sicura di sé, implacabile, indomita. L’Africa senza catene.
Un continente per i forti.
***
In quest’Africa giunse fra’ Angelo di Fransisco.
Su un veliero, con la Bibbia e la corona del rosario, in tonaca e collare.
Aveva sfidato l’ignoto e navigato intorno al mondo per molte miglia, dalla Sicilia a Zanzibar; aveva percorso distanze ancor maggiori a piedi con una carovana di mercanti arabi da Zanzibar ed aveva coperto le ultime cento miglia su un carro di buoi fino alle pianure del Serengeti, patria dei Masai, tribù di pastori nomadi.
Nella tradizione Masai si raccontava che un giorno sarebbero giunti stranieri dalla pelle chiara. Ora la profezia si era avverata.
La sua pelle bianca, segnata, contrastava fortemente con il nero profondo della pelle dei Masai.
I suoi lisci capelli castani, arruffati dal vento che scorreva attraverso le pianure, spinto dalla forza del potente Kilimangiaro, erano diversi dalle trecce rossastre degli uomini Masai e dalle teste rasate delle loro donne. I suoi occhi d’un azzurro intenso si meravigliavano per lo splendore delle forze maestose della natura in atto intorno a lui. Si stupivano per gli insetti che ronzavano con un accanimento che sorprendeva gli incauti.
Nell’Enjeera fu ben accolto e trattato amichevolmente.
Per i Masai egli era Nkuba Msungui, il capo bianco che viene da oltremare.
Per lui essi erano i bambini del Dio della sua fede.
Fu tra questa gente che si stabilì.
La tribù gli fece dono di una capanna di fango.
La capanna aveva il tetto di paglia basso e circolare. Le sue rotonde pareti di fango erano intonacate con lo sterco dei molti animali di proprietà della tribù, il che riempiva la capanna di un odore pungente.
Il giaciglio era costituito solamente dalla pelle di un unico toro, le cui corna erano ornamenti posti sull’ingresso della sua dimora.
Un vaso di terracotta era posto su tre grandi pietre al centro della capanna.
Recipienti ricavati da zucche erano in un angolo scuro e fresco e contenevano lo juloti, un miscuglio di latte e sangue di mucca che i Masai bevevano quotidianamente.
Negli anni seguenti fra’Angelo imparò molto dai componenti della tribù e questi da lui. Egli abbracciò la loro cultura e apprese le loro credenze ed abitudini. Cominciò a parlare la loro lingua agevolmente. Seppe di Enkaai, il Dio celeste dei Masai e del bestiame che era la linfa vitale della loro esistenza.
Apprese del rispetto timoroso verso gli antenati e verso gli spiriti del cielo, della terra, dei fiumi, degli alberi e degli animali.
Prese parte alle loro cerimonie. Osservò i loro riti di circoncisione e di iniziazione all’età adulta. Spesso trascorse interi giorni con loro mentre radunavano il bestiame, con i ragazzi della boscaglia che stavano fermi su una gamba sola per ore di fila, stagliati contro l’orizzonte come statue scolpite nella pietra. Si cibò della carne che mangiavano e bevve ogni giorno lo juloti con la tribù.
Apprese del rispetto per gli anziani, capi delle comunità tribali. Spesso sedette a parlare con loro e si stupì della loro forza di carattere e della loro saggezza. Bevve il loro naisho, la birra tradizionale del vaso centrale da cui ognuno beveva con una lunga canna.
Alla fine del primo anno passato con loro, i Masai gli regalarono dieci capi di bestiame; un toro e nove mucche.
Questo dono gli conferiva il massimo onore perché tra i Masai nulla ha lo stesso valore del bestiame che Enkaai dette loro all’inizio del tempo.
Accudì bene gli animali e col tempo la sua piccola mandria crebbe e prosperò.
Asua volta parlò loro del suo Paese, della terra da cui veniva. Egli divise con loro la ricchezza della sua cultura e spiegò un mondo diverso.
Descrisse l’eccezionale architettura dell’impero romano, le chiese e le strade acciottolate. Disse loro dei vigneti e del vino, il naisho per cui la sua terra andava famosa.
Spiegò l’uso di fucili e cannoni e la superiorità di questi rispetto alle lance Masai. Parlò delle abitudini della sua gente, della sua arte e della sua musica. Spiegò che i legami con la famiglia fra la sua gente erano forti come quelli dei Masai.
Ad alcuni cominciò ad insegnare persino la sua lingua. Essi ridevano mentre articolavano quelle parole dai suoni strani. Tra loro una ragazza in particolare era incantata da fra’ Angelo. Ella si chiamava Nkolana ed era figlia di un anziano rispettato. Era di una bellezza straordinaria.
La sua pelle era bellissima, scura e levigata come bronzo brunito.
Il suo capo era rasato secondo le consuetudini, era alta e ben fatta, forte e con un elegante portamento. Era molto aggraziata; quando ritornava dal fiume con un vaso d’acqua tenuto attentamente in equilibrio sul capo spiccava tra le altre “nditos”, era una grande lavoratrice e suscitava molto orgoglio nella comunità.
Molte ragazze erano portate da lei perché passassero del tempo insieme nella speranza che sarebbero state influenzate dalla sua natura gentile e dal carattere tranquillo.
Anche fra’Angelo l’aveva notata. Tra gli allievi era la più avida di notizie quando egli parlava loro della sua patria. Era una delle poche donne Masai che non aveva avuto timore di partecipare alla Messa cristiana.
Spesso lo aiutava fuori dalla chiesa nelle faccende quotidiane, dopo aver sbrigato quelle della famiglia e della comunità.
Nel 1914, quando fra’ Angelo viveva tra i Masai ormai da sette anni, un’altra straniera arrivò nella tribù.
Irene Shaughnessy era una rigorosa suora irlandese di quarantacinque anni. Nella sua vita aveva sperimentato molte difficoltà e poca gioia. Il suo volto era segnato dalle rughe e severo nell’espressione. La sua vita era dedicata a Dio e aveva scelto di viverla in Africa.
Anch’ella fu accettata dalla comunità come era avvenuto per fra’ Angelo.
Non era ancora giunto il tempo in cui gli uomini bianchi sarebbero stati considerati nemici.
Si pensò dapprima che fosse la moglie di fra’ Angelo perché tra i Masai, i quali ritengono parte della ricchezza il numero delle mogli e dei figli, niente é più strano di un uomo che non si sposa; in questo caso si trattava addirittura di una donna!
Gli anziani meditarono sul fatto quella notte e conclusero che i “msungui” erano davvero strani nelle loro abitudini.
Irene aiutò fra’ Angelo nel suo lavoro e questi le fu grato.
Molti giorni passarono in pace. Fra’Angelo e Nkolana diventavano più intimi. Il loro reciproco attaccamento si approfondiva sebbene gli uomini della tribù non vedessero nessun motivo di sospetto poiché ritenevano fra’ Angelo un uomo di Dio.
Un giorno accadde che fra’Angelo e Nkolana fossero soli nella capanna che serviva da cappella. Era sera e i riflessi dorati del sole che tramontava illuminavano le pianure e le bagnavano di una luce che sembrava infiammare la terra intera.
Il bestiame era raccolto nei Kraals e si arrostiva carne per la cena.
Nkolana aveva spazzato il pavimento di terra battuta ed ora era in piedi di fronte a fra’ Angelo.
Questi alzò gli occhi dal diario su cui stava scrivendo e incontrò lo sguardo di lei. Alla luce del tramonto, ora di un profondo rosso ruggine, ella sembrava brillare, accesa nel volto opalescente.
Il cuore di lui ebbe un sobbalzo, perché i sentimenti che ora si agitavano in lui gli erano ignoti, avendo sino ad allora vissuto strettamente il suo celibato. Inconsapevole di ciò che lo attraeva verso di lei si alzò dall’enorme tronco che usava come tavolo e si sporse verso la fanciulla.
Il tumulto che era nel suo cuore era anche nel cuore di lei; si abbracciarono.
Ciascuno si aggrappò all’altro in un abbraccio che nessuno dei due voleva che finisse.
Il tempo e la differenza culturale cessarono di esistere.
In quel momento suor Irene entrò nella capanna dall’orticello che aveva piantato e che curava.
Paralizzata fissò la scena che si svolgeva davanti a lei. Non aveva mai visto nulla di simile prima.
Stringendosi nel suo abito si volse e si precipitò fuori dalla capanna.
Fra’Angelo e Nkolana si girarono anch’essi, ancora stretti nell’abbraccio.
Quietamente fra’ Angelo si volse a guardare la sua amata (tale essa era in verità).
Ella, con il cuore pieno di un timore che le traspariva dagli occhi, gli chiese: “Che cosa abbiamo fatto? Che sentimenti sono questi che proviamo?”
Il cuore di lui si doleva nel vedere la confusione in cui era precipitata la giovane donna.
Fece scorrere le sue dita sulla guancia di lei gentilmente e l’accarezzò col palmo della mano.
“E sia!”, disse, “Non abbiamo fatto nulla di male”.
Egli scrutò profondamente nei dolci occhi bruni di lei; poi sussurrò
“Nkolana”, pronunciando con quieta tenerezza quel nome e rendendosi conto, per la prima volta, di quanto esso suonasse dolcemente e significasse per lui.
Poi proseguì: Va nella tua capanna; io starò seduto qui e penserò a cosa fare”.
Ella fiduciosa obbedì.
Dopo che fu andata via egli si lasciò andare pesantemente sul pavimento di terra battuta. La sua mente lavorava freneticamente tra mille pensieri.
Che cosa doveva fare?
Era sicuro di amarla perché il suo cuore non era mai stato tanto colmo di emozioni così pure.
Dopo un’ora, quando la notte era già calata, si alzò e andò alla capanna di Irene. La trovò tranquillamente seduta su un piccolo tronco con la Bibbia in grembo e la corona del rosario tra le dita. Le sue labbra si muovevano silenziosamente nella preghiera che la addolciva calmando la sua mente turbata.
Appena egli, dopo aver leggermente bussato alla porta, entrò ella si volse e lo fronteggiò con decisione.
Prima che egli potesse pronunciare una sola parola gli disse: “Ho scritto a monsignor Emanuele a Roma; aspetteremo la sua risposta”.
Con un calmo contegno egli la fissò negli occhi: “Irene, né io né la fanciulla abbiamo fatto alcunché di male”.
Irene sedeva impassibile. Poi parlò: “Tocca ai nostri superiori decidere”.
Le settimane passarono senza che accadesse nulla. Irene rifiutava di partecipare alla Messa e di avere contatti con fra’ Angelo e Nkolana.
Disperato fra’Angelo si rivolse al consiglio degli anziani dei Masai perché lo guidassero.
Gli anziani lo ascoltarono pazientemente e sedettero ogni notte intorno al fuoco con il “naisho”, in difficoltà poiché mai prima si erano trovati di fronte ad un dilemma di tali proporzioni. L’idea di un eventuale matrimonio tra Nkolana e fra’ Angelo era inammissibile per alcuni.
Essi sapevano che la loro decisione sarebbe diventata un precedente per la tribù ed il loro sangue da quel momento in poi non sarebbe più stato puro.
“Quest’uomo non vuol fare alcun male”- disse bayan Kimiya, il più anziano degli uomini, la cui saggezza era molto rispettata – “Egli ha vissuto tra noi per così lungo tempo e tuttavia ha rispettato le nostre tradizioni e ci ha aiutato contro le nostre malattie con polveri medicinali che venivano da oltremare”.
“Sì, è vero” – disse bayan Loriso, il padre di Nkolana, con una vena amara nella voce – “ora non godrò più di alcuna stima fra la mia gente”. “Sai come vanno le faccende del cuore” – disse un altro – “niente di ciò che lo governa è razionale, ma dare una nostra figlia in sposa a fra’Angelo sarebbe disonorare la sua famiglia ed indebolire il sangue dei nostri discendenti”.
Bayan Loriso fu l’ultimo a parlare. “Il suo sangue non è più debole del nostro. Non mangia forse con noi, cura il nostro bestiame e si unisce alla nostra caccia, sebbene in gioventù non sapesse nulla di queste cose?”
Fu a questo punto che fra’ Angelo decise di andare in Italia.
Sapeva di essere pronto e certamente la Chiesa lo avrebbe spinto presto ad una decisione a riguardo. Sapeva che Monsignor Emanuele si sarebbe aspettato questo da lui.
Il viaggio non fu piacevole perché era consapevole di quale discussione lo attendesse al suo arrivo.
Quando giunse in Italia, l’Europa si preparava alla prima guerra mondiale.
Rombi di cannoni e sirene laceravano l’aria frequentemente. I bombardieri ronzavano in cielo. La distruzione e lo sterminio ponevano le nazioni in ginocchio.
Egli desiderava ancora di più la pace dell’Africa, la quiete della notte africana, lo stridìo degli insetti, il fischiare del vento tra l’erba delle pianure, la savana e la gentile tribù Masai a cui si era tanto affezionato.
La carrozza che lo portò alla cattedrale gli costò otto volte la somma che aveva quando aveva lasciato l’Africa.
“Sono tempi di guerra!” aveva detto il vetturino con un largo sorriso che mostrava la bocca piena di denti rotti.
Gli anni erano stati inclementi con il Monsignore. Era invecchiato e i segni dell’età erano evidenti in tutta la sua persona. Il volto era pesantemente segnato, le rughe profonde e il passo notevolmente più incerto.
Quando aveva ricevuto la lettera di suor Irene era rimasto profondamente scosso perché Angelo era come un figlio per lui. Il Monsignore lo conosceva da quando era giovane e gli era stato amico e consigliere.
Fra’Angelo si diresse agli appartamenti del Monsignore. I due religiosi si guardarono attraverso la stanza. Si salutarono con calore sincero perché facevano parte della Chiesa da un’epoca che trascendeva qualsiasi differenza che ora esisteva tra di loro.
“La pace del Signore sia con Lei”.
“E con te”.
Era un saluto possente nella sua semplicità.
“Sei venuto.” – disse il Monsignore – “Sono contento perché abbiamo molte cose su cui discutere”.
Egli andò verso la sua scrivania e prese una lettera dal primo cassetto.
Porgendola a fra’ Angelo disse: “Due mesi fa ho ricevuto questa lettera dalla nostra cara sorella Irene che serve nella tua stessa comunità. Non ti chiederò di leggerla perché sono sicuro che ne conosci bene i contenuti”.
Fra’ Angelo rimase tranquillo, in piedi. Monsignor Emanuele si mosse verso la sedia che era davanti alla sua scrivania. “Siediti” – disse – “Siediti e raccontami del tempo che hai trascorso in Africa”.
Fra’Angelo sedette dinanzi al Monsignore e cominciò a parlare. La sua voce era piena della passione che sgorgava dalla forza delle emozioni che provava.
Parlò del suo arrivo in Africa e della sua vita tra i Masai. Raccontò al suo superiore del Serengeti e dei Masai alla stessa maniera in cui molto tempo prima aveva parlato dell’Italia agli anziani della tribù.
Parlò della gente che aveva imparato ad amare come se fosse sua.
Infine parlò di Nkolana e del posto speciale che ella aveva nel suo cuore e in tutto il suo essere. Monsignor Emanuele ascoltò pazientemente. Era vecchio, aveva attraversato molti luoghi e aveva imparato molto nella vita.
Sapeva che sarebbe venuto il tempo in cui la Chiesa avrebbe dovuto affrontare situazioni come quella di fra’Angelo che ora era davanti a lui.
Quando fra’ Angelo arrivò alla fine del suo racconto Monsignor Emanuele sospirò. Infine sapeva che la decisione non spettava a lui ma a fra’ Angelo. Dalle sue parole sapeva anche che la verità era nel cuore e nell’anima dell’uomo che gli sedeva dinanzi.
Monsignor Emanuele agitò la mano macchiata e grinzosa. “Figlio mio” – disse – “La decisione è nel tuo cuore. Quando sei entrato nella Chiesa anni fa ti è stato chiesto di prendere solo tre voti, povertà, castità ed obbedienza. Forse in Africa, con Nkolana e tra i tuoi amici Masai, abbracciando le loro abitudini di vita, hai vissuto veramente questi voti molto più di quelli di noi che vivono qui, nemici del loro prossimo, intenti ad ammucchiare ricchezze e fare guerre. Se tu dovessi scegliere di lasciarci per Nkolana avrai la mia benedizione. Provvederò ad organizzare il tuo allontanamento dalla Chiesa. Va’ in pace, torna in Africa, vivi come creatura di Dio”.
Fra’Angelo prese la vecchia mano tra le sue, baciò l’anello sul terzo dito e poi le guance del suo consigliere.
“Grazie, Monsignore” fu tutto ciò che riuscì a dire.
Fra’ Angelo lasciò le stanze del Monsignore ed andò nella cappella. Lì si inginocchiò davanti al Crocifisso del suo Signore e Salvatore e pregò dal profondo del suo spirito.
Le ore passavano ma nella comunione col suo creatore egli non se ne rese conto. Pregò affinché la sua decisione fosse perdonata, affinché fosse fedele a Nkolana e benedetto nel suo futuro tra la gente di lei. Pregò per ottenere la comprensione dei superiori ecclesiastici e degli anziani dei Masai. Pregò finché il sudore gli bagnò la fronte. Anotte fonda, esausto, si alzò.
Quella notte dormì col cuore leggero.
Trascorse in Italia solo poche settimane. Gli sembrava strano chiamarla Patria dal momento che la patria del suo spirito era ormai così diversa e completamente differente, a mille miglia di distanza in Africa.
Organizzò il suo ritorno in fretta. Visitò la famiglia e gli amici dicendo addio come aveva fatto un tempo decenni prima.
Nel suo ultimo giorno a casa visitò le tombe dei suoi genitori ponendo corone sulle lapidi per dare a loro l’ultimo addio.
Prima di imbarcarsi baciò le sponde della sua terra natìa. Dentro di sé disse “Addio, bel paese”.
Per tutto il viaggio fu in ansietà; le settimane trascorsero in fretta perché tornava all’amore e alla vita, alla speranza e ai sogni.
Il mare, la carovana, i carretti con i buoi, poi, infine, fu nelle braccia della sua amata, nelle pianure della savana ondeggianti di notte e di giorno.
Gli anziani avevano acconsentito al matrimonio tra lui e Nkolana.
Per rispettare il costume secondo il quale era necessario comprare la sposa
Angelo dette l’intera mandria che possedeva a bayan Loriso.
La tribù fece preparativi per il loro matrimonio secondo l’usanza, con risa ed allegria, festeggiamenti e grande gioia.
Quando i preparativi furono finiti Nkolana lasciò la capanna di sua madre per quella del suo sposo. Era stata preparata una capanna più grande per loro nel centro della “manyatt” dove avrebbero vissuto vicino a tutti i membri della tribù.
La notte in cui la giovane si trasferì ci fu una festa. L’aroma della carne arrosto riempiva l’aria mentre la gente si scaldava al calore dei fuochi.
Spirali di pungente fumo di legna si innalzavano fino al cielo scuro pieno di stelle grandi e luminose come diamanti.
Angelo e Nkolana sedevano insieme uniti nel cuore, nella mente e nello spirito. La felicità permeava tutto il loro essere e traboccava dai loro occhi e dai loro sorrisi. Nkolana sapeva che quella felicità le sarebbe appartenuta per sempre con Angelo al suo fianco. Avevano trionfato su tutte le avversità.
Quella notte quando i festeggiamenti furono finiti giacquero insieme nella loro capanna come marito e moglie.
Quando la passione si placò parlarono bisbigliando del futuro che avrebbero vissuto in totale comunione. Parlarono del posto che avrebbero occupato nella comunità che ambedue rispettavano. Parlarono dei figli che avrebbero allevato insieme – forti maschi e graziose femmine -. Parlarono del bestiame e delle mandrie a cui avrebbero accudito.
I mesi passarono e Nkolana restò incinta. Sua madre ed Angelo la guardavano teneramente. Quando si avvicinò il momento del parto Nkolana tornò alla capanna di sua madre. Angelo la visitava ogni giorno rallegrandola con storie divertenti e dicendole quanto significasse quel bambino per lui.
In una mattina fredda e chiara, quando la prima debole luce rosea toccava l’orizzonte orientale della savana, Nkolana cominciò il travaglio.
I dolori attraversavano il suo grembo gonfio mentre la bimba dentro di lei sentiva la spinta insistente che l’avrebbe portata alla luce.
La madre di Nkolana e le altre donne della tribù vennero e l’assistettero con cura aspettando la neonata. Ore dopo Nkolana chiamò sua madre.
Sentiva che era arrivata l’ora, la bimba dentro di lei non avrebbe atteso più a lungo.
Gemette ed inspirò profondamente. Sua madre e sua zia si curvarono su di lei mentre ella usava la forza della sua robusta struttura per spingere la sua bambina nelle mani che attendevano. Nkolana si sollevò ed il pianto della neonata riempì la piccola capanna.
Le grida delle donne lacerarono l’aria. La notizia passò di capanna in capanna.
“E’ nata una bambina a Nkolana”. La tribù ringraziò gli antenati.
Suor Irene era venuta da loro con uno scialle in regalo per la piccola.
Vedendo la scena dinanzi a lei il suo cuore si addolcì, la sua durezza scomparve e fu di nuovo un’amica.
Quella notte, più tardi, Angelo guardava la loro piccola succhiare. Nkolana lo guardò negli occhi stanca ma orgogliosa. Egli sollevò sua figlia addormentata sino alla guancia e toccò la soffice seta della sua pelle.
La tenne con delicatezza canticchiando come si può fare solo per un bambino appena nato. Poi si sdraiò al fianco di sua moglie e la famiglia si addormentò.
La mattina seguente dettero il nome alla figlia e la chiamarono “Serengeti”, dalla terra in cui avevano amato e vissuto.
La terra che aveva insegnato loro la forza.