Il Paese_Dina Carlucci, Matera
_Racconto finalista seconda edizione Premio Energheia 1995.
Il tempo allevia ogni dolore, lentamente sbiadisce i colori, lenisce le ferite sino a trasformarle in un vano e lontano ricordo. La memoria riaccende, ogni tanto, quando viene liberata dalle catene del vivere quotidiano, quel dolore messo da parte come un vecchio mobile depositato nella cantina di casa. Tutti quei sani principi, ideali, con i quali costruirsi il proprio giorno dopo giorno, perdono improvvisamente significato e il dolore regna incontrastato nella tua mente.
Così, ogni mattina, nel percorrere il tragitto per recarsi al lavoro, avvertiva uno strano leggero malessere che lentamente s’insinuava dentro: il disagio che le provocava, con il passare dei giorni, diventava sempre piùinvasivo. Non aveva ancora definito l’origine di ciò; nelliimbarazzo che provava con sé, cercava nella memoria immagini forti per allontanarlo.
Il più delle volte, per riprendere padronanza dei suoi pensieri, prima di iniziare una lunga e faticosa giornata, sostava brevemente nella piazzola lungo la tangenziale e là, premendo le gambe lungo il guard rail, sporgendosi il più possibile, guardava in lontananza il suo paese.
Era sempre là, circondato dai monti, irto sulla cima della collina sovrastante il piccolo lago. Le sembrava ogni giorno più solitario, con quelle torri invecchiate dal tempo, malandate, eppure così calde, protettive, tanto da darle la sensazione che, da lontano, la guardassero con occhi tristi e carezzevoli. L’aspetto, austero e dolce insieme, del paese la costringeva a fissare con intensità quelle mura, quella fiancata della collina che, con linee irregolari, si arrampicava fin su in alto, sino a lambire con l’erba e la terra le prime costruzioni.
Il paese sembrava allora come una persona, come se respirasse, avesse un’anima e, quando una folata di vento le giungeva, portandole qualche odore rassomigliante, anche se vagamente, a quelli sentiti durante l’infanzia, un fremito la coglieva. Si sentiva trascinata là nel suo paese, come se non fosse mai andata via e il tempo trascorso nella città non fosse mai stato. Pensandoci, del resto, non aveva nulla da perdere, se non qualche amore piccolo e infelice, se non addirittura un frenetico quanto inutile consumo della vita.
Il richiamo verso il paese aumentava ogni giorno che passava, e quella piccola strana sofferenza si accavallava a un profondo e ben più antico malessere. Dopo quella sosta, riprendeva il suo vivere quotidiano. Poco tempo le restava durante la giornata per liberare la sua mente in fantasie colorate e dolci, ma quando lo faceva, immancabilmente, come un click automatico che risponde a un comando ben programmato, ritornava in paese. Sprazzi di memoria disordinati e incompleti, privi di datazione, la riportavano tra le case e le strade del suo primo vivere. E così, lasciandosi andare, senza cercare di completare quei pezzi di memoria, sognava il paese: luminoso, invaso dalla luce accecante della trasparenza del sole, ne avvertiva gli odori di fiori e spezie, sentiva sulla pelle, con un brivido, il vento correre lungo i lastricati delle strade, vedeva le torri abitate dai falchi, e sentiva lo sguardo aprirsi lungo gli orizzonti che si scorgevano alla fine di ogni strada.
Di notte si avvolgeva piacevolmente in queste immagini affidandosi al sonno, ma il mattino, al risveglio, tutto era più difficile. Tornava alle cose di sempre, prive di senso, assoggettate ad una incivile frenesia che uccide ogni pensiero e annulla il desiderio di memorizzare e gustare un frammento di piacere. Cosa doveva aspettarsi del resto: una città ricca di rumori, carica di sgradevoli odori, frenetica e incolore, quasi sempre avvolta nella nebbia e, poi, quel grigiore, quelle insignificanti giornate perse nei percorsi per fare la spesa, per andare a lavorare, per uscire di casa, imbottigliata in un traffico stolto e logorante. Che senso poteva avere tutto questo? Era comunque il vivere civile, moderno, il vivere della città.
Il tempo velocemente, come una macchina lungo l’autostrada, aveva corroso e sbriciolato la sua anima; si rendeva conto di essersi smarrita là, nelle necessità quotidiane. Il tempo degli altri, del vivere comune, le aveva automatizzato le sensazioni: le controllava, le gestiva. Il tempo le aveva devastato la luce del corpo, aveva opacizzato la pelle e invecchiato gli occhi. Il tempo l’aveva resa adulta senza averle permesso di trascinarsi dietro, nella sua essenza, un poi di giovinezza. Voleva tornare nel suo paese: là la gente porta, nei passi lenti, la pesantezza del piede nelle zolle, gli uomini vestono il cappello e le donne il fazzoletto. Voleva ritornare nelle case con le pietre marroni, camminare fra vie strette e odorose di vento, desiderava gli spazi aperti e l’aria leggera, riascoltare il suono dell’acqua delle fontane e l’abbaiare dei cani.
Ritrovare il proprio tempo, fatto di memorie, di sguardi lunghi e penetranti, di paesaggi dove l’occhio si distende lungo le linee degli orizzonti lontani, senza fretta, senza disturbo. Ritrovarsi come vecchi amici, dopo anni vissuti separati e lontani. Così si preannunciava il ritorno al paese, programmato come una gita in un pomeriggio soleggiato nel mese di febbraio. E venne il pomeriggio fissato. Non c’era il sole. Era già stato tutto organizzato, si accompagnò ad una amica, una donna intensa, di quelle che sanno ascoltare, con questo tipo di persone si può comunicare. Il viaggio durò poco, la distanza non era eccessiva. Durante il tragitto parlarono brevemente di alcuni momenti della loro infanzia, evitarono accuratamente di scivolare nel presente, non certo privo di eventi interessanti, ma preferirono restare sul vago. Nessuna delle due sembrava interessata a spiegare il perché di quella passeggiata: era un breve ritorno.
Appena giunte, parcheggiarono la macchina nella prima piazza che incontrarono. Improvvisamente una gran fretta fece sì che velocemente, tanto da sembrare delle clandestine, si avviassero lungo le mura che cingevano il paese. L’amica l’osservò con tenerezza, sentendo la profonda emozione che lei provò quando le fece notare il ricco numero di torri poste a rinforzo della fortificazione dell’abitato e, come sorpresa, il buono stato di conservazione delle mura di cinta. Sotto l’arco cinquecentesco, dove si fermarono, ebbe modo di poterla scrutare con calma. Come per incanto le vide il volto disteso, un luccichio negli occhi che manifestava una gioia delicata e profonda. Il vento era fresco e avvolgente come un telo di morbido lino.
La pianura, sotto di loro, si distendeva seguendo il percorso del fiume; il tempo sembrava scorrere lungo le creste delle colline per poi riversarsi nel lago e nella “piana”. Ricordando le vecchie costruzioni che un tempo c’erano nella campagna circostante, ne elencò le adibizioni, e descrisse con tanta precisione una piccola chiesa campestre da renderla quasi reale nel loro immaginario. Parlò degli ex voto che vi erano custoditi e del timore che questi infondevano nei bambini. Narrando delle paure della sua infanzia, le manifestò il desiderio di trasferirsi un giorno, possibilmente non molto lontano. La decisione era determinata dalla sua malattia della fretta, voleva porvi rimedio e combatterla con decisione e fermezza. Il forte senso di vacuità che le produceva, l’ossessione del ricordare e del riflettere la stancavano, ormai riempivano solo spazi vuoti del fare.
Tornando a casa, parlarono del vano desiderio di cambiare il percorso della loro vita. Lei era consapevole di poterlo fare: sarebbe bastato attuare il programma già enunciato, tornare al suo tempo, alla terra delle sue radici; vivere come le era stato insegnato, godendo di poco, senza troppe pretese, con semplicità.
Passarono molti mesi da quel pomeriggio, furono mesi frenetici e faticosi, il tempo questa volta era utilizzato per realizzare questo piccolo e strano progetto. Si allontanò lentamente da quasi tutte le persone che frequentava, come per creare un distacco poco doloroso. Nella ricerca di solitudine nascondeva la voglia di non rendere partecipi gli altri della sua iniziativa: temeva critiche e tentativi di dissuasione. Comprò una vecchia casa adiacente alle mura di cinta, con una notevole vista sulliorizzonte, l’arredò con poche cose e, in autunno, quando la terra si colora di rosso, si trasferì. L’amica andò a cercarla, le persone alle quali chiese di lei non seppero risponderle. Finalmente riuscì a rintracciarla. Era diventata molto silenziosa. Parlarono della scelta e dei motivi che l’avevano indotta all’impresa. Mascherando il disagio di raccontarsi, affermò che per la prima volta faceva qualcosa per sé, anche a dispetto del comune senso, rinunciando al proprio costruito per ricomporre il percorso della sua vita in modo completamente antitetico al precedente. Era come vivere due volte, tre volte; non si cambia se non si cambiano radicalmente il tempo e il proprio quotidiano.
Quelli che la conobbero in città parlavano di lei malvolentieri, sembrava avesse posto con il tempo un muro che la divideva dagli altri, solo pochi riuscivano ad apprezzare la sua discrezione e il suo distacco dalla materialità; quante volte era scontrosa e solitaria!
Erano sedute dinanzi al camino acceso, nel quale ardevano grossi pezzi di ulivo, e lei raccontava del periodo del governo feudale, faceva riferimenti alla città e alla luce tenue della stanza stagliava le loro ombre sulla parete, ombre tremule e diafane. Un forte odore di erba calpestata impregnava liaria, erano sedute a godersi il calore e la loro amicizia In una pausa riempita da un lungo silenzio, si piegò verso il fuoco, prese un legnato acceso e dalla sua giacca di fustagno estrasse una mezza sigaretta spenta; a causa del gesto, dalla tasca le caddero dei fiori secchi. L’amica capì allora che lei si era ritrovata, aveva ritrovato la misura del suo tempo: raccoglieva i fiori per riporli nelle tasche, come il “vecchio” di cui parlava nel suo ultimo racconto.