Il Premio Energheia moltiplica le occasioni di incontro e discussione culturale
_di Pietro Veronese
Giuria XVIII edizione Premio Energheia 2012
Sono molti i modi in cui Matera, con i suoi Sassi, rimanda all’Africa. I Sassi sono un monumento all’ingegno (e anche alla bellezza) della povertà, all’uso sostenibile di risorse scarse anzi scarsissime, allo stringersi su se stessa dell’umanità nel bisogno. Un memoriale del patimento, della fame, del freddo e del non avere altro che la nuda terra per proteggersi, e della fatica immane del sopravvivere. Sono uno slum di pietra. Sono una preghiera collettiva all’acqua, un impasto dello stare al mondo col rispetto per quel bene vitale: insegnano a raccoglierlo, incanalarlo, conservarlo e condividerlo con sapienza e rispetto.
Il Premio Energheia, e il costante fervore di iniziative culturali in questa città, possono essere visti come un ulteriore, profondo rimando alla civiltà dell’Africa. A me fanno venire in mente i Dogon.
I Dogon sono un’etnia piccola e famosa che abita più o meno al centro dell’odierno Mali. Poche centinaia di migliaia di persone, i cui villaggi si susseguono ai piedi della magnifica falesia di Bandiagara, e già questo habitat evoca quello che circonda Matera, con la profonda fenditura della Gravina. I Dogon sono diventati famosi in Europa grazie al libro dell’etnologo francese Marcel Griaule, Dio d’acqua, che è del 1948. Griaule fece molti viaggi presso i Dogon e passò molto tempo con loro, affascinato dalla loro complessa metafisica, centrata su una cosmogonia molto elaborata, una organica, completa visione del mondo, del tutto unica, che però i dotti conservavano gelosamente segreta e rivelavano soltanto agli iniziati, certamente non a un forestiero. Finalmente, dopo molti anni e molte visite, Griaule fu messo a parte del sapere esoterico dei Dogon; ne fece un libro e lo rese immediatamente celeberrimo.
L’Africa, come è noto, ospita una ricchezza etnologica e antropologica senza pari. Alcune delle etnie che la abitano sono diventate nei secoli particolarmente famose e questa notorietà può essere associata al successo (finora) delle loro strategie di sopravvivenza, più efficaci di altre. I Pigmei dell’Equatore si sono nascosti nel profondo della foresta pluviale; i Tuareg del Sahara hanno imparato ad abitare spazi sconfinati e apparentemente nemici della vita; gli Zulu del Sudafrica divennero straordinari guerrieri imponendo, nel XIX secolo, il loro dominio su un territorio vastissimo. In Sudan, i Nuba si sono arroccati sulle loro isolate montagne; i Dinka viceversa hanno accumulato grandi ricchezze, incarnate nelle loro migliaia di bovini, che ancor oggi sono la loro assicurazione contro le avversità. E così via. E i Dogon, che non sono né guerrieri, né allevatori particolarmente abili, né viaggiatori, né vivono particolarmente isolati? Credo che l’arma della loro sopravvivenza sia stata la cultura: ne ha preservato l’identità, ne ha rafforzato la coesione, ne ha esaltato l’appartenenza collettiva e la capacità di resistere alle minacce esterne.
Così Matera. Relativamente isolata e povera, privata nell’Ottocento del suo primato amministrativo, periferica rispetto a vicini capoluoghi di maggiore successo economico, Matera vive e si sforza di prosperare grazie al suo amore per la cultura. Ha capito che i Sassi non erano una vergogna, ma un tempio della storia umana e ne ha esaltato il valore unico. E moltiplica le occasioni di incontro e discussione culturale, le librerie, le gallerie d’arte, i musei, la produzione letteraria e filmica. Così facendo sopravviverà e prospererà.