Il questionario_Stefania De Toma
_Conobbi Luca in un gruppo di lettura: viso interessante, modo di argomentare stringato e profondo. La prima impressione fu di un giovane pacato: perciò mi stupii quando una volta, parlando di brigantaggio e questione meridionale, lo vidi infervorarsi nella gestualità e nella velocità dell’eloquio. Sentivo le buone letture, intuivo delle passioni trattenute, ma la sua partecipazione al gruppo non era così costante da farmi pensare di conoscerlo bene.
Un giorno mi arrivò una sua e-mail che nulla aveva a che fare col gruppo di lettura: scriveva proprio a me, Luca, per di più intestando la sua lettera con un oggetto, “Quaestio”, che non poteva non solleticarmi date le mie frequentazioni filosofiche. Si trattava di un sondaggio: dodici domande cui rispondere in tempi brevi, da non girare ad altri perché non era certo una catena di Sant’Antonio – quelle e-mail cretine che cestino subito, però con quel piccolissimo scrupolo, “e se portasse davvero sfortuna?” -, che resta come una applicazione ridotta a icona. L’idea di Luca era realizzare un’indagine sociologica sulla percezione di un disagio presente e sui timori per il futuro coltivati dalla nostra generazione, i trentenni del decennio 2010.
Entusiasta di essere stata coinvolta nell’iniziativa, ne parlai con un altro ragazzo del gruppo di lettura, Vito, che di Luca è stato compagno di studi all’università. Vito però, ridacchiando forzatamente, rispose che Luca non era l’Istat e lui non avrebbe fatto parte di nessun campione: queste sono cose che si discutono davanti a una birra. Rimasi delusa: ma come, persino il tuo cantante preferito, quel Vasco Brondi che io ascolto ma non amo, si è fatto aedo della nostra generazione con un urlo sgraziato più che disperato: “Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni Zero?”! Tormentandosi la barba incolta da musicista indie, Vito scrollò le spalle: discorso chiuso.
Io invece dopo circa tre settimane risposi al questionario, anche se di fronte a domande come “Sei mai stato testimone di un’ingiustizia?” fu arduo resistere alla tentazione di recitare. Nel questionario si poteva agilmente rintracciare una direzione dal passato(immaginavi saresti stato come sei oggi?) al presente (chi sei e come ti vedi? Chi sei è come ti vedi?)
verso il futuro (cosa pensi che succederà?). Luca non ci chiese di immaginare il futuro generico delle candidate ai concorsi di bellezza: non ci chiese se volessimo la pace nel mondo, ma piuttosto se avessimo dei buoni propositi da realizzare, se avessimo speranza nell’avvenire.
Mesi dopo, Luca inviò un primo resoconto delle sole domande riferite al futuro perché quelle gli erano sembrate più urgenti e vive, promettendo di stilare gradualmente una statistica per ciascuna delle risposte consegnate. Emerse che gli uomini avevano dato risposte ottimiste e determinate; la maggioranza delle trentenni coinvolte, invece, aveva dato le mie stesse risposte. Desideriamo un figlio, anche se temiamo di dover aspettare indefinitamente un compagno che abbia una maturità affettiva compatibile con la sua età anagrafica; vogliamo realizzarci nel lavoro, pur sapendo che mai avremo una stabilità lavorativa simile a quella dei nostri genitori; non abbiamo speranza. Luca definì contraddittorie queste risposte: com’è possibile ipotizzare una riuscita sociale e proiettarsi nel futuro progettando una gravidanza, ma non nutrire speranza? Se non avete speranza, perché intendete mettere al mondo degli infelici, che senso date a quella parola? Mi sentii in dovere di replicare anche per le altre: per speranza intendo una prospettiva di miglioramento a livello sovra-individuale, direi persino sovra-nazionale, e non vedo miglioramenti all’orizzonte. Ma ciò può non essere in conflitto con l’intenzione di avere figli: testimonia, piuttosto, della percezione di una scissione tra (per usare termini degli anni ‘70) personale e politico. Siamo ripiegati sulla vita privata – gli scrissi – per l’asfissia che ci viene da quella pubblica.
Per motivi e in momenti diversi, né io né lui abbiamo più partecipato al gruppo di lettura; e Luca non ha proseguito con la redazione delle statistiche. Forse ha prevalso il pessimismo della ragione.