Il racconto svela
_ Associazione Energheia 2004.
Questi racconti distraggono e forse traggono anche in inganno. “Qualcuno si distrae
al bivio”, scriveva il poeta lucano Rocco Scotellaro, ed intendeva forse il distrarsi,
il togliersi dall’aporia, dal piano delle scelte bidirezionali, dalle semplificazioni.
Distrarsi da codici interpretativi, da modelli di lettura impliciti nelle nostre autobiografie, prendere un’altra direzione, sospendersi per un momento e sorprendersi… è la parola, il potere della parola che qui distrae, apre verso direzioni non
collaudate. Lasciamo nascere dentro di noi un dubbio, una distrazione, seguiamo
una traccia o un odore sconosciuti, il segno che delinea una metamorfosi, fermiamoci
ad incroci, paure, collassi del tempo. Siamo stati colonialisti, e forse lo siamo
ora in forme nuove. Siamo arroganti. Abbiamo però il potere di esercitare la fantasia
nei territori di un altro mondo, in questo mondo: la trappola è tesa, il racconto
la svela. Abbiamo una bocca per parlare e due orecchie per ascoltare, dice un proverbio
africano: ascoltiamo dunque queste voci dirette, pur nel viaggio incerto della
trascrizione e traduzione. Ascoltiamo il senso di un mistero sempre rinnovato,
anche nella sofferenza, ma soprattutto nel presente, nel mito, nella polvere degli antenati
e degli spiriti. Nel ferro acuminato che, inconsapevoli, infiggiamo in corpi
lontani. Il corpo è il tema. E le relazioni. E ciò che siamo in questo anno duemilaquattro.
Anche quest’anno i traduttori e la giuria dei lettori si sono trovati di fronte alla particolarità
ed alle contraddizioni del Premio Africa Teller. Perché, al di là di tutte le
buone intenzioni che animano un premio letterario, sia gli scrittori che i lettori restano
comunque imbrigliati in una rete complessa di nodi letterari e linguistici. Chi
scrive utilizza la lingua inglese come tramite per un pubblico occidentale, operando
spesso una torsione del proprio inglese parlato a discapito della sintassi. Oppure
c’è un utilizzo di espressioni anglofone tipicamente africane e difficilmente traducibili,
se non a costo di particolari “interpretazioni”. Infine c’è in tutti i racconti
la presenza della propria matrice linguistica originaria, presenza che per noi è la
traccia più intrigante da seguire e che sta in quel certo “non dire” o nel “dire-insieme”,
nella pluralità dei significati. Al fondo resta sempre la ricchezza di una scrittura
che ha come base l’oralità, una parola rimasta in contatto con la voce umana,
che dà voce al corpo ed alla verità del corpo, di quel corpo che è materia e forma
del simbolismo, sorgente di metafore e di significati in grado di veicolare la complessità
dell’esistenza. Narrazioni dunque della pluralità delle esistenze; la cultura
che nasce dal basso, l’alternativa delle culture popolari a quel potere che cerca di
imporre sulle storie un’unica narrazione autorizzata.