Il Rosso e l’Uomo del Serpente_Dina Carlucci, Matera
_Racconto finalista terza edizione Premio Energheia 1996.
In paese era conosciuto come il “rosso” per via dei capelli così rossi da assumere in estate il colore dell’arancio. La testa grande, la piccola corporatura e lo sguardo, il più delle volte perso a fissare chissà cosa, gli avevano determinato l’insolito trattamento che la gente riserva agli scemi del villaggio. Nella piazza del pesce, dove vendeva tutte le mattine ortaggi e verdure, era una nota di colore, tutti si prendevano gioco di lui e da tutti era trattato con sarcasmo ed ironia.
Spesso si approfittavano della sua buona fede per ribassare il prezzo della merce, del resto la sua stessa credulità non gli permetteva di sostenere alcuna sua difesa e gli faceva credere persino di essere benvoluto. I bambini erano sempre pronti a deriderlo, e quale divertimento era rubargli le verdure quando smontava il banchetto dopo la mezza! Piombavano a frotte con un gran vociare e dando spintoni alla gente, rubavano tutto ciò che era a loro portata e poi di corsa sparivano fra i vicoli adiacenti alla piazza. Erano come cavallette. Con pazienza raccoglieva le sue lattughe e i peperoni sparsi sul lastricato della piazza, imprecava contro tutto e tutti e poi sconsolato se ne tornava a casa. Dentro il suo animo la profonda stanchezza, che nel corso degli anni si era insinuata, gli faceva solo coltivare propositi di vendetta. Così impegnava il tempo per giungere a casa architettando assurdi progetti per braccare almeno uno di loro su cui sfogare poi la sua rabbia. Per allontanare la solitudine che lo consumava giorno per giorno, giocava a pallone con i ragazzi del suo rione contro quelli del rione Convento, era sempre in porta e ne approfittava per dare prova della sua agilità che tutti invidiavano. Spesso lo si vedeva in giro con il capo fasciato a raccontare del suo incidente avvenuto anni addietro e a nulla valevano i rimproveri del parroco per porre fine al tentativo di essere commiserato da tutti, quando invece sortiva solo l’effetto di essere giudicato pazzo.
La domenica, poi, era il giorno più difficile della settimana. Si levava come sempre di buon mattino, si sbarbava, con fatica creava un ordine apparente alla sua capigliatura leonina, si calcava con forza il berretto di velluto a coste e così, con la camicia candida di bucato, si recava in chiesa. A quell’ora era solo con altre due vecchie del paese che passavano tutto il loro tempo a recitare rosari; sostava vicino alla fonte battesimale dove era pure la cappella del Cristo in croce e là, con circospezione per timore di essere scorto dalle due pettegole, inginocchiandosi quasi di spalle al Cristo sui gradini della cappella, rivolgeva la preghiera di sempre: “Gesù Cristo fammi trovare una ragazza da marito, la sposerò presto, sarò per lei un buon marito e non le farò mancare nulla”.
Dopo la messa, quella del primo mattino, alleggerito dalla convinzione che il suo dovere di buon cristiano era risolto, usava andarsene al castello per salire come suo costume sulla torre, in attesa dei rintocchi del mezzogiorno che l’avvisavano dell’ora del pranzo a casa del curato. Il castello che un tempo dominava con piglio da grande guerriero la pianura, negli anni, per incuria e ripetuti crolli, aveva assunto l’aspetto di un vecchio con i panni laceri ed un corpo goffamente ingrandito; ormai devastato aveva perso le grazie e le proporzioni giovanili.
Si arrampicava lungo la parete ovest della torre quadrangolare del lato sud, i gradini interni erano crollati da anni, perciò usava le sporgenze delle pietre che irregolarmente erano sul corpo di questa. Giunto in cima con il berretto calcato sulla fronte, con il vento negli occhi, come un rapace, scrutava per ore ed ore la pianura.
Nessuno sapeva cosa facesse lassù; così in alto non dava fastidio, questo era importante.
Il Rosso, lassù, si sentiva un re e, come tale, guardava tutta la pianura che gli apparteneva con i contadini che la percorrevano per ritornare in paese per la messa della domenica; sognava che passando di sotto l’avrebbero salutato scappellandosi come usavano fare quando incrociavano il dottore o il curato. Più frequentemente sognava di essere falco, con le piume di “cencre”, le gambe possenti e gli artigli forti, come tenaglie e dalla torre spiccava il volo per volteggiare per ore ed ore sulla piana con il vento fra le ali. Di lassù leggero e libero passava al di sopra delle grandi querce e poi più lontano sul canneto e infine nella piana più in basso, tagliata da quel nastro nero che portava sino in città.
Altre volte si vedeva precipitare giù nella gola del precipizio che si apriva come una fenditura lungo la costa del promontorio dove era sito il castello, si vedeva cadere sul macigno di roccia sottostante, fracassarsi la testa e il cervello schizzare fuori. Vedeva allora la gente scendere lungo la gola per recuperare il corpo, le donne strapparsi i capelli per il dolore e battersi il petto per espiare la colpa di averlo sempre deriso e allontanato dalle loro case, sarebbe stato venerato come i santi in chiesa.
Gli avrebbero fatto il funerale come al vecchio medico morto l’anno addietro. Le ragazze da marito gli avrebbero portato sulla tomba fiori rossi alla ricorrenza dei morti.
Queste fantasie lo rendevano triste e cupo, i pensieri gli ronzavano in testa come api e, quando sentiva i rintocchi del mezzodì, come svegliato improvvisamente da un sonno pesante e carico di solitudine, si scuoteva, velocemente, come un gatto, discendeva lungo la parete e poi di corsa si avviava verso la casa del curato per il pranzo domenicale. Era l’unico giorno della settimana che mangiava da cristiani. Il Rosso temeva il curato che come uno stregone gli leggeva nel pensiero. Gli aveva proibito di salire sulla torre, temeva che potesse un giorno cadere nel burrone, per questo prima di bussare si puliva i panni con molta cura, stropicciava le scarpe lungo i pantaloni, per timore che tracce di polvere potessero tradirlo. Il parroco non era un uomo tenero e spesso quando lo aveva scoperto sulla torre non aveva esitato a prenderlo a ceffoni, perciò era sempre impaurito quando bussava alla sua porta, temeva che il vecchio, con uno sguardo, avrebbe capito. La fame lo costringeva dietro la porta del curato, viveva quegli attimi di attesa come i più lunghi della sua vita. Tutto finiva quando illeso raggiungeva la seggiola vicino al camino, con rispetto si toglieva il berretto e aspettava con pazienza che il vecchio riempisse i bicchieri di vino per dare inizio al pranzo.
Dopo il pranzo la tristezza aumentava ancora di più, per le strade sentiva il vociare delle donne che si raccontavano e spettegolavano; gli uomini si raccoglievano in piazza per parlare del raccolto o del tempo; lui girellava di qua e di là con frenesia e disagio. Per distrarsi saltellava due tre volte, poi, fermandosi bruscamente, recitava la sua solita nenia: “Se cado mi rompo una gamba; domani, quando canta il gallo, mi getterò nel fosso, la testa si romperà e uscirà il cervello; tutti verranno a vedermi, mi prenderanno e mi porteranno in paese. Le donne verranno tutte al mio funerale, anche Elvisa che non mi ha voluto per marito. Ma io come farò a vedere se sarò morto? Uno, due, tre, no, non lo faccio più; è peccato mortale, così dice don Donato, non mi farà nemmeno entrare in Chiesa.” Ripeteva questa nenia sino all’imbrunire, con tutti i ragazzini che gli sciamavano dietro facendogli da coro, poi stanco ed esausto si ritirava per gettarsi sul letto e dormire come un sasso.
Il giorno seguente la normalità delle cose, il lavoro, il gioco con i ragazzi, si ripeteva riempiendo le giornate come tante copie una dell’altra.
Era già primavera quando dall’alto della torre vide, in lontananza, nella pianura un uomo che trascinava dietro di sé un piccolo carretto carico di bagagli. La curiosità vinse i suoi soliti pensieri domenicali, come una saetta discese dalla torre per incamminarsi incontro all’uomo. Mentre correva fra i canneti e i campi, nelle macchie rifletteva su ciò che aveva udito in piazza negli ultimi giorni. Alcune donne gli avevano parlato di un mago somigliante al diavolo, queste avevano saputo dagli operai della galleria del treno che quest’uomo, venuto dal mare, era più bravo della Muta ad indovinare il destino. Il cuore gli batteva in gola, sperava che fosse il mago misterioso di cui gli avevano parlato. Per l’emozione, al pensiero che fosse proprio lui quell’uomo misterioso di cui aveva sentito parlare, il cuore gli batté in gola e al timore di trovarsi faccia a faccia con il diavolo divenne cauto e guardingo. Si nascose nei cespugli vicino alla strada e attese che passasse di lì vicino. Dopo poco il Cantastorie gli giunse quasi vicino al naso, l’uomo era strano, alto con un naso grande come un peperone, la testa coperta da un cappello piumato, i pantaloni infilati negli stivali di cuoio, come usano i cacciatori, e una giacca a quadri che mal celava l’evidente magrezza.
L’eccitazione del Rosso aumentò alla sua vista; non era soddisfatto, voleva conoscerlo! Prese allora la strada del cimitero, per essere prima del Cantastorie in paese e correndo nuovamente fra le canne e le macchie giunse alla porta sud. Si sedette sul bordo dell’abbeveratoio e con un filo di canna fra i denti, mascherando la curiosità con una falsa noia, attese l’uomo. Quando questi giunse, il Rosso, sostenendo la parte di chi è indifferente ad ogni evento, si scostò di un po’, a mala pena, quel tanto per permettergli di bere e rinfrescarsi all’acqua della fonte. Il Cantastorie, che non era nuovo a tali comportamenti, ignorò del tutto l’uomo e dopo essersi rinfrescato e dissetato, come se questi non fosse esistito, si accampò poco distante dalla fonte in un luogo all’ombra. Il Rosso non resistette, era troppo! Non poteva essere ignorato! Senza perdere altro tempo si avvicinò all’uomo e con fare altezzoso ed indignato si presentò: “Sono il Rosso il figlio di Caterina, e tu chi sei?” Il Cantastorie già a colpo d’occhio aveva intuito l’estrema semplicità dell’uomo, con dolcezza rispose: “Sono il Cantastorie e vengo da un paese lontano dove c’è il mare, hai mai visto il mare?”
Il Rosso non rispose, non aveva mai capito bene cosa fosse il mare, e quando non capiva, per timore di essere deriso, non chiedeva mai spiegazioni. Facendo finta di nulla si offrì per ospitarlo, sebbene fosse timoroso si sentiva attratto da quell’uomo misterioso e diabolico, non smetteva di osservare le sue mani lunghe con dita come artigli e la gabbia posata per terra vicino al carretto con dentro un serpente.
Lo sguardo dolce e rassicurante del Cantastorie, era come una forza magnetica, che lo incantava, in cuor suo sentiva che la sua vita sarebbe cambiata. Probabilmente sarebbe stato ripagato della sua ospitalità con la veggenza di un futuro matrimonio da sempre tanto desiderato.
Il Cantastorie in quell’uomo buffo e singolare vedeva una grande bontà e sapeva che non sarebbe stato un incontro solo di passaggio come tanti altri. Qualcosa di strano nell’aria, come un presagio, gli faceva pensare che quell’uomo sicuramente avrebbe condiviso con lui un pezzo di cammino. Accettò pertanto l’invito e lo seguì.
Entrando in paese le donne e gli uomini che incontravano, incuriositi, si accodavano a quei due, il Rosso fiero di essere con un uomo importante, salutava tutti scappellandosi e con padronanza apriva il cammino fra i vicoli che portavano a casa sua, con dietro quella strana processione di curiosi.
Giunti che furono, il padrone di casa aprì la porta della sua umile dimora e l’uomo del serpente, come lo aveva già soprannominato il Rosso, dopo essersi nettato con cura gli stivali sulla soglia, vi si introdusse con tutta la sua roba.
La casa del Rosso si sviluppava in un’unica stanza, il letto che un tempo fu di sua madre abbastanza grande per potervi dormire in due, era l’unico mobile di un certo pregio, l’unica finestra faceva filtrare il sole e attraverso i vetri sporchi si intravedevano in lontananza i monti con ancora un po’ di neve. I due uomini si organizzarono al meglio e consumarono un pasto frugale usando le provviste che il Cantastorie aveva con sé, bevvero del buon vino rosso e dopo si adagiarono sul letto. L’uomo offrì una sigaretta al Rosso e fumando raccontò un po’ di sé. Parlò della miniera dove aveva lavorato sin da bambino e di quel giorno in cui seguì i musici venuti in paese per la festa del Santo protettore, da allora non era più tornato e girava di paese in paese raccontando la storia dell’ultimo bandito della sua terra, faceva sognare le donne che incontrava, preveggendo loro amori felici.
Dormirono alcune ore e quando ormai la sera aveva calato nella stanza la penombra si svegliarono, il Rosso si sentiva felice, aveva un amico un uomo su cui poter contare e che poteva ascoltare mentre raccontava di sé. Non era più solo!
Il Cantastorie senza indugiare preparò gli attrezzi per il suo lavoro, prese la chitarra e il trespolo, invitò l’amico a seguirlo e insieme si diressero nella piazza del paese.
In poco tempo la gente del luogo riempì la piazza, la voce che fosse giunto in paese e che fosse a casa del Rosso aveva già fatto il giro di tutte le orecchie; mentre il Cantastorie appendeva sul trespolo vari fogli dipinti che raffiguravano le vicende del bandito, la gente cercava il Rosso per saperne di più. Era seduto vicino al suo amico, seguiva con interesse ogni gesto dell’uomo ignorando del tutto la gente che gli si era avvicinata.
Quando il Cantastorie giudicò abbastanza piena la piazza prese la chitarra e iniziò a suonare e a cantare. Ogni tanto interrompeva il canto e indicando con una bacchetta le immagini sui fogli raccontava la storia di quell’uomo che braccato dalla legge era fuggito sui monti per poi rifugiarsi da una ricca e svergognata signora. La voce dell’uomo intonando vecchi canti volteggiava sulla piazza. La gente apprezzava. Per il Rosso che lo guardava incantato era un angelo vestito a scacchi, la voce forte e calda che gli giungeva lo riscaldava e lo cullava in una magica dolcezza.
Nella sua testa adesso giravano vorticosamente le immagini di lui e del suo amico insieme per il paese. Finalmente qualcuno lo avrebbe protetto da quelle faine e più nessuno si sarebbe preso gioco di lui, adesso avrebbero fatto i conti con il Cantastorie e nella piazza e per strada lo avrebbero finalmente rispettato.
Il racconto terminò, il Cantastorie cantò ancora un’altra canzone e dopo con il berretto in mano fece il giro fra la gente, alcuni fecero un’offerta; altri, girandogli le spalle, presero il cammino verso casa. Vicino la torre dell’orologio alcune ragazze ridevano dello strano abbigliamento dell’uomo e quando questi si avvicinò, intimorite dalla sfrontatezza dell’uomo, fuggirono via sparpagliandosi nel crocevia. La piazza si era spopolata, i due raccolsero le poche cose e tornando a casa decisero di festeggiare il loro incontro con del buon vino e un piatto di minestra calda.
La notte stava calando quando passarono dall’angusta porta dell’osteria di Giovanni soprannominato “Coppola Svoltata” per via della visiera del berretto che teneva sempre rivolta verso l’alto. I due ridevano forte sul nomignolo dell’uomo, un forte profumo di tabacco e di cucina riempì i loro nasi, attraverso il fumo riuscirono a scorgere un tavolo non ancora occupato. Al banco il cantiniere con il berretto in testa e un grembiale che gli ricopriva la pancia assentì con un cenno e indicò il loro tavolo.
L’ostessa serviva ai tavoli, era un donnone con seni grossi come angurie e fianchi poderosi. Portò due piatti di trippa e due boccali di vino, poi si sedette accanto al Cantastorie e la seggiola scomparve fra le sue carni debordanti.
La donna attese qualche minuto, li guardò con attenzione e aperta la bocca sdentata e scurita, dai pochi denti marci che le erano rimasti, chiese al Cantastorie: “Sai veramente leggere la mano come dicono? Chissà se sei poi così bravo come la Muta.” Il Cantastorie impressionato dall’aspetto della donna e dalla sua determinatezza disse: “Chi è questa Muta, certo che so leggere la mano, lo faccio da tanti anni e nessuno si è mai lamentato.” La donna, che era diffidente, replicò: “La Muta è la nostra indovina, vengono anche dai paesi per farsi leggere il destino, quando poi c’è il temporale, vedessi, parla anche con i morti. Tu quanto ti prendi?”
“Quanto mi prendo? Non so, solitamente mi fanno delle offerte spontanee.”
A quel punto non restava che concordare sul prezzo, la donna era intenzionata a metterlo alla prova, voleva scoprire se tutto quello che si era detto sul suo conto fosse vero. Pattuì il prezzo, cogliendo al volo l’ingenuità dell’uomo promise che se fosse rimasta soddisfatta avrebbe offerto altra trippa e vino, altrimenti li avrebbe sbattuti fuori per strada.
L’uomo, per nulla impressionato dallo sguardo minaccioso di questa, le prese con delicatezza la mano e si concentrò, spostandosi con la mano di lei verso il lume, offrì il suo volto accigliato alla luce fioca e tremolante. Le predisse con serietà, abbassando il tono della voce, amore duraturo e fedeltà dall’uomo che amava. Il poveretto era ignaro, a differenza di tutti gli ospiti radunati quella sera, che l’ostessa, contravvenendo ogni regola del pudore e del tutto disinteressata al marito, amava, oltre al pescivendolo, che veniva in paese due volte la settimana, anche qualche avventore che mostrasse con cenni espliciti la voglia per lei. Non sapeva resistere all’invito di un uomo che stringendosi l’impudicizia nella mano incominciava a trastullarsi per richiamare la sua attenzione. Come le piaceva, allora, avvicinarsi e sfiorare con le natiche possenti e morbide come guanciali la patta dell’uomo, appena quel tanto da fargli pregustare il seguito. Una forza magica si impossessava di lei, il corpo sformato e flaccido vibrava come una corda tesa, si alleggeriva di ogni peso e la pelle emanava un odore acre e avvincente, le carni vibravano di desiderio e le movenze esprimevano un’inaspettata sensualità. Così, senza attendere oltre, lei si muoveva come una piuma fra i banconi e ancheggiando si avviava nel vicolo dietro l’osteria dove, protetta dalla curiosità dei passanti, avrebbe rubato un po’ di piacere. Non chiedeva mai niente, solo calde e focose carezze d’amore; difficilmente si ridonava allo stesso uomo, non amava i legami duraturi, solo il pescivendolo era riuscito a legarla a sé garantendosi così pasti gratuiti per ogni volta che veniva in paese.
La donna, alle parole del Cantastorie, reclinò la testa all’indietro per la violenta risata che le saliva in gola, non aveva mai udito una corbelleria così grossa come quella. Si alzò di scatto dalla seggiola e cominciò a cacciare i due ospiti, il marito Giovanni, “Coppola Svoltata”, che non aveva alcuna intenzione di perdere i due ospiti, intervenne per cacciare la donna in cucina gridandole dietro bestemmie e parolacce. Era sempre tanto paziente, per quanto riguardava la sua vita sentimentale, ma non amava che la moglie facesse della sua osteria ciò che le pareva, il padrone era solo lui, pertanto sarebbero restati e avrebbero pagato.
Il Rosso imbarazzato per ciò che stava accadendo, facendo finta di nulla, teneva il capo sollevato e guardava il soffitto della cantina. Sul suo capo pendevano carte collose piene di mosche intrappolate per sempre nella fissità della morte. La volta era macchiata di umidità e ingiallita dal fumo del tabacco e del camino, alta e cuneiforme con le braccia a vela, avvolgeva nel proprio ventre tavoli, bancone, botti ed ospiti. Si sentì piccolo e dominato da quella volta enorme, il fumo lo avvolgeva e il suono delle voci degli uomini che commentavano quanto stava accadendo gli fecero mancare l’aria, l’odore acre dell’ostessa lo nauseava e il vino che aveva bevuto gli aveva ingrossato la lingua, non sopportava più Giovanni e con la licenza che è concessa ai matti, cominciò a dire male della donna e dei presenti. Per la prima volta si sentiva protetto e poteva finalmente dire ciò che pensava di loro. Li chiamò cani morti e poi soddisfatto riprese a mangiare, non aveva alcuna intenzione di andarsene, doveva restare, era forte!
Alle parole del Rosso, come per magia, l’ordine tornò, gli avventori ripresero a discorrere fra loro, l’intimità ai tavoli tornò e i due poterono finalmente parlare indisturbati.
Si raccontavano come fanno gli innamorati da poco, il Cantastorie aveva mille cose da dire e il Rosso si sentiva povero, la sua vita si era consumata fra le mura di quel paese e tranne il cielo e la terra non poteva raccontare altro; del resto la sua miserabile vita non aveva altro.
Quando finirono di bere il vino, il Rosso pensò che potesse portare l’amico nel suo luogo magico dove andava nelle notti di luna piena. Quella notte la luna era brillante e già alta in cielo, pertanto convinse l’uomo a seguirlo. Uscirono dal paese dopo aver girato il vicolo con il muretto. Discesero lungo il fianco della collina, passarono fra le canne del fossato, un cane li seguì e con la luce della luna attraversarono i campi con il granturco ancora verde. Man mano che si allontanavano le luci del paese diventavano sempre più piccole, come dei lumini. Camminarono ancora un po’ sotto querce frondose che oscurarono per un piccolo tratto il loro cammino e, infine, scorsero in lontananza la collina con i cinque cipressi. Il Cantastorie, per la stanchezza, nel salire il dorso ripido si curvò, il Rosso invece assunse, sotto la luce diafana della luna, un aspetto leggero, il passo prese un’andatura svelta e morbida, il corpo sembrò dissolversi nel movimento armonico e preciso da animale notturno. Sfiorava con i piedi la terra: era nel suo elemento, aria e cielo per lui erano essenza. Più in alto andava più si liberava della natura opprimente del pazzo, dello scemo.
Giunse molto rapidamente in cima preceduto dal cane e seguito dall’amico. Il posto a prima vista si presentava abbastanza consueto, unica singolarità potevano essere quei cipressi che sfidavano la volta del cielo. Dal tetto di quella collina in lontananza si vedevano miriadi di luci di numerosi paesi, ne contarono più di dieci. La leggenda di quel posto aveva un che di misterioso. I cipressi, a detta dei vecchi del paese erano gli angeli custodi dei bambini morti senza battesimo, vegliavano sulle loro povere anime incustodite. Quei cipressi a lungo andare erano, nell’immaginario del Rosso, diventati suoi fratelli. A loro, nelle notti di luna piena, raccontava delle sue disgrazie, del parroco che spesso lo rimproverava o di Elvisa che non lo aveva voluto sposare.
Sdraiati sotto i cipressi il Rosso prese a raccontare della madre, chissà se gli alberi avrebbero potuto portare nel vento la sua storia. Andava una mattina d’estate, nel campo di grano che stava mietendo, quando perse per sempre la possibilità di avere una vita normale come tante altre. Si era lasciata amare da un mietitore venuto da un’isola lontano, aveva i capelli rossi e gli occhi azzurri, si era persa fra quelle braccia e per il resto della sua vita dovette perdersi fra molte altre braccia per crescere quel figlio che con i suoi capelli glielo ricordava sempre. La ragione dell’isolamento del Rosso non era più un mistero per l’uomo. Adesso capiva quanta solitudine e disprezzo negli anni aveva raccolto quel piccolo uomo che combatteva tutto solo contro i bigotti e i benpensanti del paese. Quella notte dormirono sotto i grandi alberi. L’indomani all’alba presero la strada del ritorno per poi partire verso paesi lontani a raccontare alla gente la storia del bandito.
Il Rosso in questa sua nuova veste di garzone del Cantastorie si sentiva felice, per la prima volta nella sua vita era finalmente su quel nastro nero che portava nella città e poi in un’altra e in altre ancora, forse non sarebbero mai finite! Immaginava nuovi campanili, nuove piazze e poi tanta gente curiosa che li seguiva per piccoli tratti di strada. In paese l’assenza del Rosso venne notata al mattino seguente, quando in piazza la nota di colore era sparita e di colpo tutto sembrò grigio. Il parroco preoccupato chiese a tutti quelli che incontrò se sapessero qualcosa circa la sua sparizione, poi, anche lui stanco, smise e si rassegnò in attesa del suo ritorno.
Di notte il piccolo uomo sognava spesso del suo paese, delle donne della piazza e del vecchio parroco, la torre, la vallata tornavano prepotenti nella sua mente, si agitava e si svegliava come in un incubo. Tutto sudato si sollevava dal suo giaciglio e ad occhi aperti vedeva il parroco mentre preparava l’altare per la messa o versava il vino nei bianchi bicchieri. La nostalgia per il vecchio, per il suo paese aumentava con il passare dei giorni, sarebbe tornato forse un giorno lontano, sicuramente dopo aver visto la città del suo amico, voleva vedere il mare!
Ogni mattina partivano da un luogo per poi giungere dopo alcuni giorni in un altro paese o città, spesso si fermavano nelle masserie che incontravano lungo il percorso, alcune volte partecipavano alle feste di matrimonio o di battesimo, erano gli incassi migliori, si mangiava abbondantemente e il padre della sposa era sempre generoso, compensava lautamente i musici a cui il Cantastorie si univa.
Dopo tanti giorni e alcune stagioni, giunsero nella città del mare. Il Rosso era radioso. Era una giornata di giugno quando dalla cresta di un promontorio vide in lontananza l’azzurro del cielo fondersi nel blu delle acque del mare. Discesero rapidamente dirigendosi verso la riva, sentiva la voce del mare e vedeva in lontananza le imbarcazioni dei pescatori che ritornavano in paese. A quella vista un fremito gli percorse la schiena. Giunto a riva lasciò i bagagli e prese a danzare. Il Cantastorie felice gli dava il ritmo battendo le mani e alcuni pescatori che rattoppavano le reti, smisero per guardare quella strana coppia di uomini. La sua vita si era riempita di fatti e storie da poter raccontare al suo ritorno in paese. Alle donne avrebbe parlato del mare, delle stelle e della luna, agli uomini delle città e dei paesi che aveva visto, forse avrebbe potuto finalmente prendere moglie, dopo tanto viaggiare sarebbero stati tutti più rispettosi, i genitori di Elvisa lo avrebbero fatto entrare in casa per la sua proposta di matrimonio, Elvisa dai capelli ondulati e lunghi, morbidi come seta e gli occhi verdi.
Le narici si riempirono dell’odore del mare e del pesce, il Cantastorie che da tanto non si bagnava in mare si spogliò ed entrò in acqua, invitò l’amico a fare altrettanto descrivendogli il piacere che si provava. Il Rosso si era bagnato qualche volta nel lago del suo paese e più volte aveva attraversato il fiume della pianura per andare a caccia delle volpi. Quest’acqua, così tanta, gli metteva paura, si sentiva piccolo e collocato troppo in basso rispetto alla situazione, non riusciva a vedere dove finisse e da dove provenisse tutta quell’acqua, non riusciva a vederne i confini, non era come quando osservava la pianura dall’alto della torre. Non era sicuro di controllare la situazione che si era creata, il Cantastorie dal suo canto, con i piedi ben piantati in acqua, lo tirava da un braccio come si strattonano gli asini quando non hanno più voglia di proseguire il cammino. Il Rosso scuoteva la testa e resisteva con tutta la sua forza, si sentiva umiliato da quell’uomo che osava deriderlo. Lui che non temeva nulla, che camminava di notte da solo per le campagne e sfidava qualsiasi animale che incrociava lungo il cammino, vedendo ridere il suo amico s’infastidì, come poteva mettere in dubbio il suo coraggio, come si permetteva! Stanco di quella farsa con la mano libera raccoglieva ciottoli per lanciarglieli contro, poi indignato accettò la sfida. Si allontanò per spogliarsi e libero dei panni entrò in acqua con fragore, sollevando bollicine al suo passaggio. Tutto sommato era come entrare nel fiume, ad un tratto i piedi non trovarono più terreno, il corpo venne leggermente sollevato dalla massa d’acqua, si abbandonò come fra le braccia di una madre, l’acqua gli bagnava il volto, si sentiva leggero, come se stesse volando, il sole gli feriva gli occhi e su di lui vedeva il cielo sconfinato, l’acqua brillava, era perso ! Arrancò qualche bracciata sino a giungere a riva, si sdraiò sui ciottoli, era finalmente di nuovo sulla terra! Il Cantastorie continuava a deriderlo, sapeva di averlo offeso mettendo in dubbio le sue doti atletiche, adesso voleva recuperare sminuendo l’accaduto. Dal suo canto il Rosso, per natura vendicativo, aveva deciso di non rivolgergli la parola: che parlasse con quel suo animale puzzolente che teneva sempre chiuso in quella gabbia! Del resto erano simili, ecco perché stavano sempre insieme! Il Cantastorie per nulla imbarazzato dal suo silenzio gli parlava, raccontava della sua infanzia, del padre pescatore e della madre che lo aveva mandato in miniera ancora giovane.
Nella mente del Rosso si articolavano mille vituperi contro l’amico, quello che gli faceva più rabbia era che lo spilungone facesse finta di niente, come se lui non esistesse. Cosa gl’importava del resto, poteva tornare a casa sua, al paese e dimenticare questa breve esperienza. Il Cantastorie, che lo conosceva bene, sapeva quanto gli piacesse andare per osterie, lì al porto le osterie non mancavano, si mangiava la zuppa di pesce e vi erano sempre tante donne pronte a trastullarti per pochi soldi, il muso sarebbe sparito davanti ad un piatto di zuppa e un bicchiere di vino bianco. Quella sera, nell’osteria “ Al Gambero” mangiarono la zuppa e bevvero del buon vino. Il Cantastorie, per la gioia di essere ritornato dopo tanti anni nella sua città, cantò per i commensali, corteggiò una brunetta con il corpo coperto da una rete che faceva intravedere buona parte del corpo, parlò a lungo con vecchie sue conoscenze. Il Rosso dal canto suo aveva già dimenticato della mattina e tutto eccitato chiedeva dove avrebbero dormito quella notte. Il Cantastorie aveva fittato una stanza sopra l’osteria, erano le stanze fittate dal padrone alle prostitute, per loro sarebbe andata benissimo, non avevano nessun problema a dormire in un postribolo. La sera dopo si sarebbe sposato il figlio di un pescatore che conosceva il Cantastorie, e il Cantastorie era stato invitato a suonare per gli sposi, avrebbero anche mangiato. Dormirono pesantemente in quella stanza che sapeva di pesce e di disinfettante. Al risveglio consegnarono i loro abiti alla governante della bettola, doveva ripulirli per il festino, sarebbero restati in mutande per tutto il pomeriggio.
Il Cantastorie fumando faceva cerchi su cerchi di fumo che si dissolvevano lasciando una scia bluastra, dal suo canto, uomo pratico qual era, non aveva mai affidato il suo cuore ad una donna, sognava mani femminili che ridisegnassero il suo corpo: “Quando finisce il festino andremo a femmine, è tanto tempo che non vado. Conosco un posto dove ci sono donne belle e profumate, avremo i soldi stasera stessa e se finiamo presto ci andiamo di sicuro.”
Il Rosso annuì in silenzio, osservava distrattamente quei cerchi inconsistenti, come l’immagine della madre che gli tornava in mente, con i capelli neri e il suo profumo di miele che gli riempiva le narici della memoria. Non aveva capito molto circa il posto delle donne e la necessità di avere dei soldi, non potevano certo comperare un anello con il quale presentarsi, neanche le conoscevano. Di una cosa era certo: il Cantastorie ne sapeva più di lui, doveva semplicemente lasciarsi condurre come era già successo. A quei pensieri si riassopì, le voci della strada gli giungevano mescolate al suono del mare.
Ai rintocchi delle campane del vespro si svegliarono; la donna aveva già riportato gli abiti stirati e ripuliti, erano come nuovi. Non restava che rivestirsi ed andare da un barbiere. Seduti, dinanzi al grande specchio, con la schiuma bianca sui visi si spiavano, con curiosità. Le loro immagini riflesse rilevavano particolari sino ad allora non notati.
Il Cantastorie aveva occhi piccoli e nostalgici, sembrava un uomo sofferto, le rughe tradivano le giornate al sole, le borse sotto gli occhi l’abuso di vino, le mani contratte sui braccioli della poltrona, affusolate e scurite dal sole ne rivelavano il carattere nervoso, le labbra contrariamente alla caratteristica dominante della magrezza, erano carnose e voluttuose.
Il Rosso era proprio un cespuglio, gli occhi azzurri e mobili, il viso dai contorni sfuggenti, i capelli ricadenti a spirale sulla fronte e lungo le orecchie. Il segno delle labbra era lieve, erano quasi sempre socchiuse e facevano intravedere la perfetta dentatura piccola e brillante. In quel momento farfugliava qualcosa e per il barbiere fu un’impresa radergli la barba. Era eccitato, si muoveva in continuazione. Quel trattamento era proprio da gran signori, persino l’acqua profumata sul viso!
Bighellonarono ancora un po’ per le strade, poi giunsero sul luogo della festa. Era un cortile bello grande adiacente ad alcune case basse, in fondo davanti ad una casa azzurra si era disposta l’orchestrina. Nell’orchestra c’era finanche una fisarmonica tutta nera con il soffietto rosso ed il suonatore, accennando piccoli passaggi musicali, concordava con gli altri il repertorio per quella sera. Il Rosso s’incantò a quel suono, senza indugiare scelse un buon punto di osservazione e si sedette sul muretto basso del cortile, ed attese.
Il Cantastorie si unì a loro, con la chitarra seguiva le note del vecchio fisarmonicista che suonava e dirigeva gli altri. Ben presto i musici si accordarono e, nell’attesa della sposa e degli ospiti, suonarono qualche pezzo. Il Rosso non staccava gli occhi dallo strumento e dal vecchio che sembrava tutt’uno con esso, il soffietto rosso si allungava e si stringeva, spargendo nel cortile note melodiche e tristi, le mani ossute e deformate correvano sui tasti bianchi; alcune coppie, nell’attesa, presero a ballare.
Dal muretto ogni movimento poteva essere agevolmente seguito, le gonne fruscianti lasciavano di tanto in tanto intravedere le gambe delle ragazze, i capelli, ondeggianti in ritardo sui movimenti della danza, disegnavano nell’aria linee morbide. In tutto questo muovere vorticoso, nel suono triste e sensuale della fisarmonica accompagnata dagli altri strumenti, il Rosso si rattristò. Si avvolse con un mantello di sogni sfumati e attonito guardava dinanzi a sé. Era lui che danzava con la bionda dalla gonna verde smeraldo, era lui il suonatore di fisarmonica che spargeva note e tentazioni, proprio come un diavolo. Di lì a poco giunse la sposa, era bella come quelle che aveva visto al suo paese. Sedettero a tavola per il pranzo nuziale e a lui per puro caso venne assegnato il posto proprio di fronte alla bella bionda dal vestito smeraldo.
Mangiò poco e male, non aveva occhi che per lei, la ragazza lo guardava incuriosita, non sapeva chi fosse ma si sentiva gratificata dai suoi sguardi, così, quando ripresero le danze, lo invitò a ballare. Lui, lo scemo, aveva visto tante volte ballare che aveva imparato a memoria i passi e a casa quando rientrava ripeteva ciò che aveva visto, si fece coraggio e accettò. Al centro del piazzale attese che l’orchestra riprendesse a suonare, il cuore gli batteva forte, era un sogno o cosa? Sentiva la mano calda di lei nella sua, avvertiva lo sguardo dei curiosi sui suoi capelli rossi.
Come per magia l’orchestra intonò un tango. Rapito dal suono, con la sicurezza datagli dalla spregiudicatezza dello scemo, cinse la vita della ragazza e prese a ballare, le gambe si muovevano leggere e a ritmo, la ragazza armonizzò in breve il suo passo a quello più esperto dell’uomo, leggera e timorosa gli si strinse ancora più addosso, il corpo di lei sfiorava il suo, un nodo alla gola lo stava strozzando, l’emozione era forte.
Nel ballare evitava di guardarla negli occhi, si sarebbe perso! Intorno, tutto si muoveva, vedeva seduti sul muretto dei bambini e delle donne con vesti scollate. Nessuno ballava insieme a loro: erano soli ed osservati da tutti. L’orchestra incitata dal Cantastorie prolungò il pezzo, sapeva che per lui era il suo primo ballo e forse sarebbe stato anche l’ultimo. Sul ritmo intermittente ed ondeggiante il Rosso articolava passi sempre più complessi, sentiva fra le sue mani quel corpo tenero abbandonarsi. La pelle della ragazza sprigionava odori di fiori e di mosto. Nessuno sino ad allora l’aveva fatta danzare con tanta passione! Nessun uomo le aveva stretto la vita con tanta leggerezza e determinazione. Lo straniero dai capelli rossi doveva essere un ballerino di mestiere.
Quando la musica terminò, la magia si spezzò. Accompagnò la donna al suo posto. Per pochi minuti era stato un ballerino formidabile e lui non se ne era reso conto. Salutata la donna, con un balzo riconquistò il suo posto sul muretto per prendere subito a ricercare nella memoria l’odore di lei, il ricordo del piacevole contatto con il suo corpo, con occhi trasognati si abbandonò alla sua più naturale occupazione: guardare. Lo sguardo vuoto si posò nuovamente nel cortile sulle coppie che avevano ripreso a ballare.
Era tutto un frusciare di gonne, gli uomini, alcuni altèri , altri un po’ maldestri, si dimenavano a condurre le loro compagne, nessuno di loro aveva la grazia dello straniero e gelosi ogni tanto gli gettavano delle occhiatacce minacciose. Il Rosso non le capiva, non era consapevole del fascino che aveva su quelle donne che lo avevano visto ballare, avvertì disagio e distolse lo sguardo concentrandosi ad osservare l’amico che intento a suonare scambiava occhiate tenere e complici con due ragazze.
Si danzò per tutta la notte. Quando anche l’ultimo ospite andò via, il padre della sposa, un uomo dal panciotto marrone adornato da una grossa catena d’oro, pagò i musici e li licenziò, li pagò sicuramente bene considerato che aveva usato soldi di carta per ognuno di loro.
Il Cantastorie era allegro, lo avevano pagato più di quanto avesse sperato, raggiunse l’amico, prese a scherzare sulle sue qualità di ballerino, voleva sapere dove avesse imparato a ballare così bene e come mai non aveva più invitato nessun’altra. Anche lui soddisfatto della serata raccontò dell’emozione del ballo e della ragazza, di come fosse flessuosa e profumata. Il Cantastorie era deciso: quella notte dovevano andare assolutamente a donne. Tornarono sui loro passi, verso il cortile della festa, era da poco passata la mezzanotte, girarono l’angolo dietro il cortile, giunsero dietro il muretto dove era seduto il Rosso e seguendo un vicolo poco vicino al mare, trovarono un uomo con la sigaretta in bocca che guardava l’angolo dove finiva il vicolo. Il Cantastorie gli mise una moneta in mano e questi li precedette lungo una strada più larga sino a giungere ad una casa tinteggiata color verde. Picchiò tre volte sul grande portone con il battaglio a forma di zampa di leone, nel portone si aprì una porticina e una donna corposa con delle vesti color ciclamino li fece entrare, dopo aver attentamente guardato prima in strada con grande circospezione.
La porta venne richiusa dietro di loro, un cortile ricco di piante da giardino e di alberi di limoni separava la casa dal grande portone. Percorsero il lastricato del giardino, poi salirono lungo la scalinata sempre preceduti dalla donna che saliva le scale ondeggiando con il bacino fasciato. Le vesti coprivano le sue carni abbondanti ed odorose, il Rosso notò che sotto le vesti questa non portava mutande, non c’era alcun segno che manifestasse la loro presenza nonostante il tessuto sottile della veste quasi trasparente. La mano piccola ed inanellata della donna scorreva lungo la balaustra di legno ed aiutava quel corpo fasciato a salire lungo i gradini di cotto, i bracciali che ne adornavano il polso tintinnavano urtandosi fra loro al movimento.
Giunsero, dopo lunghi attimi di attesa sospesa, alla fine della gradinata per entrare attraverso una porta dorata in un salotto ricco di mobili sontuosi. I divani e le poltrone erano occupati da donne accompagnate ad uomini. Le ragazze erano vestite a mala pena, con gran sfoggio di merletti e pizzi di biancheria intima, il trucco mascherava stentatamente un colorito lunare e le profonde occhiaie che donavano allo sguardo una dolcezza prolungata. Il Cantastorie parlottava con la donna dal vestito color ciclamino, dopo un po’ la donna cedette alle richieste costretta dalle sue lusinghe. Gli concedeva a parità di prezzo una libera scelta sulle ragazze. Li lasciò dopo aver incassato dall’uomo la somma stabilita e si rifugiò nella sua mastodontica poltrona di broccato rosso in attesa di un nuovo cliente.
Il Rosso osservava quelle donne. Alcune erano intente a ricambiare carezze avventate di uomini volgari, una di loro si era già avvicinata sperando di essere scelta, si strusciava a lui facendogli sentire il seno caldo, il Cantastorie nel frattempo gli dava istruzioni circa il da farsi. Bisognava fare in fretta e scegliere una donna con cui passare la notte. Il Rosso non esitò, come un animale quando ti annusa per saperne di più sul tuo conto, annusò una brunetta dalla pelle olivastra e i capelli morbidi ed ondulati che gli ricoprivano parte delle spalle. I seni abbondanti, il vago profumo dolciastro di fiori che emanava lo indussero a preferirla. Il Cantastorie invece prese proprio quella che aveva tentato di sedurre il Rosso, la sua sfrontatezza, i seni bianchi e tondi, del tutto nudi, lo avevano colpito ed eccitato. Non restava che seguirle. L’odore della brunetta aveva carpito l’attenzione del piccolo uomo falco. Senza nemmeno rendersi conto si trovò nudo, sdraiato su un letto dalle lenzuola fruscianti e completamente alla mercé di mani che lo accarezzavano con dolcezza lungo tutto il corpo. Con il volto nascosto nei seni di lei, cinto dalle sue morbide braccia non gli fu difficile in breve spiccare con lei un volo di diversa natura. Si sentiva leggero come sospeso nel cielo, la pelle di lei respirava insieme alla sua, si sentiva falco e planava in alto, il vento gli attraversava il corpo che si fletteva come una canna alle sue carezze. Fu un lungo ed interminabile volo, poi stanco si addormentò con la testa vicino ai suoi seni, a respirarne il loro odore e la loro dolcezza. Stette così abbandonato in un sonno leggero e delicato sino all’alba. Quando la ragazza si allontanò dalla stanza per abbandonarlo definitivamente, il Rosso si sentì defraudato di un sogno appena accennato. La notte era da poco sfumata che era già sceso in cortile per allontanarsi da quella stanza che lo stava soffocando. Lei era andata via, un senso di smarrimento lo aveva colto, era di nuovo solo! Attese con pazienza l’amico, quando lo raggiunse il sole era già alto, e lui non aveva nessuna voglia di parlare.
In silenzio tornarono alla locanda, raccolsero la loro roba, recuperarono la gabbia con dentro il serpente e si incamminarono verso i monti lasciandosi dietro il mare, i pescatori, le donne ed il ballo. Il Cantastorie da un po’ di giorni avvertiva una strana mollezza nelle gambe, si sentiva spesso affaticato e il respiro affannato, dava la colpa alle continue notti passate a dormire all’aperto, così vedeva naturale poter svernare a casa del suo amico. Non restava che mettersi in cammino per tornare al paese del Rosso. Giunsero sulla sommità della collina da cui avevano visto la città del mare, sostarono anche questa volta. Avevano bisogno tutti e due di tirare le somme. Il Cantastorie si accese una sigaretta, voleva riempire quel silenzio carico di tristezza: “Lo sai che mia madre mi raccontava sempre, quand’ero bambino, che un giorno venne nella nostra città una donna strana, sapeva legger nel cuore degli uomini, li dominava. Mi diceva che ne rubava l’amore e riusciva persino a decidere del loro destino. Era selvatica come una volpe, tutti la temevano e la evitavano, le donne dei pescatori quando la incrociavano facevano gli scongiuri …” Mentre lui parlava il Rosso era lontano con i pensieri, non lo stava ascoltando. La sua mente era trascinata con forza altrove. Seduto su un folto ciuffo d’erba vedeva in lontananza il mare, ricordava la ragazza dai capelli biondi e gli occhi di cristallo, ricordava la dolcezza delle carezze della ragazza con la pelle color dell’oliva e non voleva ascoltare quella stupida storia. Non voleva tornare al suo paese, tutti lo avrebbero nuovamente deriso, l’uomo, da cui si sentiva protetto sino a qualche ora addietro, non sarebbe stato certo in grado di cancellare per lui nei cervelli degli altri la storia di sua madre. Solo adesso capiva cosa facesse la madre con il barbiere, e perché la gente in paese non voleva che si avvicinasse nemmeno alle loro porte, lui era figlio di una poco di buono che si era persa con uno dai capelli rossi, anche lui sarebbe stato come lei, un poco di buono, nessuno gli avrebbe mai dato, in moglie, la propria figlia.
Voleva prolungare ancora per molto la sosta sulla collina, di quella città adesso si sentiva un po’ re, in quei giorni, lui, il pazzo, aveva stupito la gente del porto parlando della sua gente, del curato, della muta, dei racconti del suo paese, del castello e anche di “Caterina la pezzente”. Sua madre, profumata di miele, dolce come la donna dell’altra notte, morbida e calda, proprio come la madre quando lo accoglieva fra le sue braccia per consolarlo dei suoi capelli rossi. La madre, quante braccia di altri uomini l’avevano stretta! Lui cacciato fuori di casa per fare posto a quel porco di barbiere con le unghie lunghe e il sigaro sempre in bocca! Che gioia provò quando venne trovato morto nella sua bottega. Non si seppe mai chi l’avesse avvelenato con il veleno per i topi, se la moglie cornuta o quegli allocchi dei suoi compagni di carte a cui doveva tanti soldi. Finalmente si era liberato di lui. Passò del tempo, i pensieri sul suo paese correvano veloci nella sua mente, era nervoso, il ritorno lo stava mettendo in difficoltà ma bisognava incamminarsi, non c’era più altro tempo. Il tramonto si stava avvicinando e bisognava trovare un rifugio per la notte.
Ripresero il cammino, il Cantastorie stancamente teneva il passo del Rosso, camminarono a lungo sul dorso della collina, dovevano raggiungere quanto prima la cresta che li divideva dal quel paesaggio di monti che erano apparsi come macchie minacciose alla luce del tramonto. Le ombre iniziarono a calare e in meno che non si dica la notte li colse proprio agli inizi della cresta. Il Rosso era stanco e il Cantastorie pur non ammettendolo voleva dormire. Camminarono ancora utilizzando il chiarore della luna, nella luce di questa in lontananza il Rosso scorse un vecchio ponte caduto, poteva esser un buon posto per accamparsi. Il Cantastorie russò per tutta la notte, il Rosso, invece, era avvilito e spossato da tutti quei difficili pensieri sulla madre e sul suo paese. Era agitato, si muoveva in continuazione e la notte divenne un lento e difficile trascorrere del tempo, spesso si svegliava in attesa dell’alba, voleva porre fine a quella notte che lo tormentava. Alle prime luci dell’alba, contrariamente alle sue buone maniere, svegliò l’amico imponendogli di riprendere il cammino, doveva assolutamente cacciare la lepre, voleva impegnarsi con la mente ed il corpo per scacciare la tristezza che lo aveva avvolto come una cappa. Così fece. Caparbio non ascoltò ragioni, inutilmente l’altro gli faceva notare che avevano di che sfamarsi, non servì, voleva cacciare; doveva dare sfogo a quella energia che lo feriva dentro.
Trovarono una radura, il Rosso controllò l’erba, era tenera, proprio come piace alle lepri. Ispezionò con attenzione il suolo alla ricerca di tracce di passaggio di animali, vi trovò quelle della volpe e infine lungo il confine che separava la radura da un vigneto quelle della lepre. Seguì le tracce come un segugio, individuò il percorso della sventurata, scelse il posto dove secondo lui sarebbe giunta per andare a mangiare, si appostò dietro un cespuglio di erba alta e con un bastone stretto fra le mani attese. Il Cantastorie seguendo le sue istruzioni, si era nascosto un po’ lontano, dentro il vigneto, doveva restare fermo e non fumare. Gli occhi del Rosso si muovevano alla ricerca di ogni fruscio di erba, sapeva che la lepre sarebbe presto giunta per andare a brucare. Attese ancora per poco, poi, come aveva previsto, vide sbucare poco lontano da lui due orecchi ben puntati ed attenti a cogliere ogni minimo suono, gli occhi neri della lepre erano impauriti e svelti percorsero con lo sguardo tutta la radura, tutto era come sempre! Lentamente s’incamminò lungo il confine della radura dal vigneto, come giunse vicino al cespuglio, una bastonata rapida e precisa la colpì alla testa, cadde a terra, mosse con un fremito le zampe, fu il suo ultimo attimo di vita. Il Rosso era uscito già dal cespuglio, con fierezza la prese dagli orecchi e la mostrava al suo amico, legò l’animale al ramo di un ciliegio e prese a scuoiarla, le tagliò il codino e se lo legò alla cintura come trofeo. La coda bianca dell’animale risaltava sul suo pantalone nero, abbellendolo. Dopo averne gettato le interiora ancora calde, avvolse l’animale ancora sanguinante in un panno bianco, pulì il coltello a serramanico e soddisfatto si dichiarò pronto a riprendere la marcia. Il cantastorie era restato colpito dalla crudeltà che il Rosso aveva rivelato in quella sequenza di pochi minuti, non sapeva che sull’animale aveva riversato tutto l’odio che provava per il mondo intero dal quale era stato accolto solo per essere ripudiato e offeso. Per il Rosso il mondo aveva capovolto i soggetti, doveva esser lui la lepre uccisa e scuoiata, avrebbe finito di essere lo scemo, non avrebbero nemmeno dovuto fargli il funerale, nessuno avrebbe fatto finta di piangerlo. Quanto rancore avevano avuto per lui e per i suoi capelli rossi! Camminarono a lungo, il Rosso sperava che le montagne si sfaldassero per travolgerlo nella frana, voleva solo morire. Non voleva tornare indietro in quella piazza a vendere verdure a quelle donne pelose e con i baffi.
La lepre legata penzoloni sulla sua spalla gli aveva sporcato di sangue la camicia, ma non voleva chiuderla nel sacco, era sicuro che sarebbe andata a male. Il caldo iniziò a farsi sentire, dovevano cercare un riparo, al Cantastorie mancava il respiro, era stanco, camminavano da troppe ore, voleva riposare, trovarono un pagliaio. Le mosche seguivano il Rosso attratte dall’odore del sangue, infastidito lui le cacciava e bestemmiava convinto che avrebbero alla fine fatto andare a male la carne.
Entrarono nel pagliaio, deposero i bagagli, il Cantastorie si dissetò e si assopì. Il Rosso rifletteva ancora sulla sua mala sorte, da quando era partito dalla città avvertiva come un senso di morte, la sentiva con il fiato sul collo, questo pensiero lo rese nuovamente agitato e confuso. Il caldo nel pagliaio non accennò a diminuire, gocce di sudore gli scorrevano lungo il viso, il naso era tutto bagnato, osservò l’amico che stava dormendo, per un attimo si pensò nuovamente solo, senza di lui, un brivido lo attraversò, sarebbe certamente impazzito. Quel pensiero di morte non doveva ingombrargli il cervello, l’amico non doveva morire e lasciarlo solo. Il respiro del Cantastorie divenne ancora più pesante, il Rosso pensò che fosse il caldo, chiuse per la stanchezza gli occhi e si assopì. Passò forse un’ora, in quel sonno profondo non si accorse di nulla, una fitta tagliente come una lama, aveva passato il cuore del Cantastorie facendolo passare in pochi attimi dal sonno alla morte; un vento forte e caldo si alzò ribellandosi con violenza a quella morte. La paglia prese vorticosamente a girare a mulinello dentro il pagliaio, il Rosso si svegliò, smosse l’amico per svegliarlo e indurlo ad uscire da quel cumulo di polvere, lo chiamò più volte, ma questi restava immobile. Un lampo e capì. L’aveva perso per sempre! Si guardò intorno, gli occhi umidi di pianto, nella polvere intravide la gabbia del serpente, l’animale era immobile sul fondo. Era certo, era stato lui che aveva morso l’uomo uccidendolo, quella bestia schifosa e puzzolente. Accecato dall’ira, senza rendersi conto aprì la gabbia, tirò fuori l’animale che d’istinto andò a infilarsi nel panno della lepre. Furente prese il bastone con tutta la forza che aveva dentro e in breve ridusse a poltiglia lepre e serpente. Schizzi di sangue lo macchiarono e continuava a colpire sollevando cumuli di paglia e pezzi di carne, dal suo cuore già ammalato di tristezza uscì con forza un urlo di dolore che gli aprì la bocca. Durò una eternità e lo fece stramazzare a terra. Piangeva e con i pugni percuoteva i brandelli di carne, voleva cancellare ogni traccia di quello schifoso animale che gli aveva rubato il Cantastorie. Spossato uscì fuori dal pagliaio. Il vento sottile e potente gli finì di arruffare i capelli, entrò nell’orecchio sempre più dentro il cervello. Sentì una fitta dentro la testa. Lentamente il rumore di un fischio gli ingombrò il pensiero, con la testa piena di vento andò a cercare l’amico. Lo chiamò tante volte, lo cercò nell’uliveto, nel canneto poco distante e poi ancora nella vigna. Si allontanò a cercarlo fra le querce, poi sempre più lontano nelle campagne e poi nelle messi ancora più lontane. Alla fine dimenticò che cercava l’uomo e incominciò a cercare il serpente per ucciderlo, doveva trovare quella brutta bestia. Sempre più velocemente la sua mente entrava in un baratro di oscurità, il rumore del vento aveva preso il posto delle troppe emozioni, era finalmente ridotto alla follia.
Non tornò mai più a casa, ma nel suo paese giunse la sua storia. Ancora oggi si narra ai bambini che nelle ore del primo pomeriggio d’estate va in giro per i campi ad uccidere serpenti quell’uomo dai capelli rossi, quello che tutte le domeniche saliva sulla torre e sognava di essere falco.