Il suicidio di Roger Ackroyd_Mario Ventrelli
_Intervento del professor A. Xavier al VII congresso sul Futuro remoto di Vancouver.
In questo mio breve discorso, dedicato in particolare al futuro del libro, sosterrò la causa di quello cartaceo su quello digitale. Sebbene io debba ammettere, sotto molteplici aspetti, la maggior praticità di quello digitale, dovreste a vostra volta accettare che vi è una lunga congerie di cose impossibili da fare con un normale eReader. Annusarne l’inchiostro, usarlo come zeppa per il vostro tavolo, ricavarci del papier mâché… Ma anche mangiarlo, ad esempio. Mi chiederete il perché di quest’ultima affermazione. Vi rimanderò, allora, al celebre caso di Roger Ackroyd.
Bei tempi quando Wallace, Conan Doyle e Simenon, solo per citarne alcuni, venivano stampati su carta. Non ci voleva nulla per diventare un grande romanziere. Questo è quanto, perlomeno, doveva pensare il signor Ackroyd, aspirante scrittore di gialli, di cui ebbi notizia qualche anno fa. Affamato di romanzi polizieschi, si cibava letteralmente dei grandi classici di questo particolarissimo genere, convinto che, per naturale osmosi, a furia di leggerne a quintali, sarebbe un giorno riuscito a spiccare il volo verso l’empireo del delitto. Quando, col tempo, l’insuccesso gli diede alla testa, in una delle rare gite fuori porta dal mondo del thriller, inciampò in un trattatello del filosofo Ludwig Feuerbach il quale, a coronare con raffinate argomentazioni un’elucubrazione che la mente del povero Ackroyd non poteva evidentemente cogliere nella sua complessità, sosteneva in definitiva che l’uomo è ciò che mangia. Questa immagine rimase scolpita nella sua facilmente suggestionabile fantasia.
Ackroyd, dopo averle allegoricamente divorate, cominciò letteralmente a mangiare le opere dei suoi scrittori preferiti. Secondo quanto tramandò lui stesso, apparecchiando il suo desco con cura certosina, cominciò a cannibalizzare l’opera omnia di Conan Doyle, passando poi a Chandler, sperando di ereditare dal primo il gusto del plot e dal secondo il ritmo della narrazione. Mutuò nei suoi scritti questo audace mélange, ma non ottenendo dalla critica e dai lettori quel riconoscimento che auspicava, elaborò frankensteinei minestroni di Agatha Christie, Ellery Queen e Edgar Wallace.
La fissa era sempre quella di elaborare il delitto perfetto, pietra filosofale di ogni scrittore di gialli che, secondo i suoi calcoli, l’avrebbe spedito a guisa di pacco postale nell’Eden della letteratura. Nelle sue lunghe elucubrazioni, venne una notte a concludere che solo il suicidio potesse costituire il delitto perfetto, in quanto, per definizione, l’autore del delitto mai potrebbe essere sbattuto in carcere. Non potendo però optare drammaturgicamente per questa strada (sarebbe stato contrario alle celebri dieci regole del giallo perfetto di Ronald Knox), iniziò allora a congetturare il suo suicidio, unico delitto perfetto che, sacrificandolo sull’altare della letteratura, l’avrebbe reso immortale nel momento stesso della sua dipartita.
Il piano di Ackroyd, pur singolare, non nascondeva una sua perversa logica. Decidendo l’ora e il luogo del suo suicidio, stabilì quale dovesse essere il romanzo col quale si sarebbe ammazzato ingurgitandolo. Una sua opera, naturalmente, la quale, estratta dal suo corpo in sede di autopsia, sarebbe finita su tutti i giornali divenendo, in qualche maniera, un classico. Ackroyd sarebbe stato il primo autore accoppato da un suo personaggio e non viceversa. Quantunque verboso e, per molti versi, retorico, il libro non mancava di una certa suspense, sfidando continuamente il lettore a scoprire chi avesse ucciso l’autore del romanzo che stava leggendo.
Arrivato finalmente il giorno del suo suicidio, Ackroyd apparecchiò la tavola con le posate migliori, divorando una ad una le 200 pagine del suo “capolavoro”. In articulo mortis, alzò la cornetta del telefono per chiamare la polizia al suo capezzale, sostenendo che qualcuno lo aveva avvelenato con un libro tra le cui righe era nascosto il nome dell’assassino. Come accennavamo, in cuor suo, una volta estrattolo, sarebbero stati costretti a leggerlo e per certo ne sarebbe nato un caso. Prima di chiudere gli occhi, Ackroyd sorrise per la prima volta, felice di immolarsi sull’altare della fama. Un attimo dopo la polizia fece irruzione nel suo studio. Senza essere Philip Marlowe, non ci volle molto all’ispettore di turno per venire a capo del demenziale piano di Ackroyd.
E proprio alla sua follia lo scrittore deve, diciamo così, la sua fama. In quanto al suo celebre ultimo romanzo, quello dovettero estrarglielo dal sedere. Ed era un romanzo di merda.