I racconti del Premio Energheia Africa Teller

Il taglio profondo dell’amore_Kenneth Nd’Ung’U Gatari

amore3_Racconto finalista quarta edizione Premio Energheia Africa Teller.

 

Traduzione a cura di Sylvia Stastny

 

Riassunto

Questa è la storia di Magdalene Zasha, una ragazza laureata innamoratissima

di un giovane appartenente ad un’altra etnia. Si conobbero

ad uno sposalizio e si innamorarono subito. Tutto andò per il meglio

finché il suo fidanzato Muraya non decise di portarla a conoscere i suoi

genitori. Come persona nata e cresciuta in città, lei non era preparata

a quello che avrebbe dovuto incontrare lì.

Per l’amore che provava per Muraya, lei cedette alle sue pressioni e

decise di sottoporsi a quello che Muraya chiamava “il rituale della maturità

che avrebbe fatto di lei una donna degna di essere sposata”.

Questo racconto ha inizio al fiume dove le fecero l’anestesia per essere

circoncisa. Quanto sotto descritto sono ricordi del passato… In seguito

le venne la febbre e le allucinazioni le offuscarono il senso della

realtà per l’infezione dovuta alla mutilazione.

Da quel momento, fu questione di giorni prima che morisse di tetano.

Vicino a lei al momento della morte c’era il fidanzato che piangeva, sapendo

di esserne stato la causa.

 

Il fiume è gelato, come lo è al mattino. Vedo i raggi del sole sulla mia

pelle nuda, ma non ne sento il calore. Il mondo si è appena svegliato: la

rugiada sulle piante luccica come un milione di diamanti sparsi. Non sento

le gambe; non sento la parte inferiore del corpo che è immerso nel-

l’acqua. Riprendo la posizione: le braccia conserte e le gambe divaricate

per far penetrare meglio l’insensibilità. Sistemo il panno leggero che

mi avvolge le spalle, l’unico pezzo di stoffa sulla mia pelle. Esso è reso

più leggero dall’umidità e vedo i miei capezzoli induriti e ritti come due

mignoli. Ho la pelle d’oca per il freddo, assomiglia a quella di un tacchino

che si sta decongelando. Vedo le mie gambe divaricate davanti a

me mentre sono seduta sulla riva del fiume. Non ce la faccio più.

“Alululuuuu… Alululuuuu” il verso delle donne accompagna i loro canti.

Sono a torso nudo ed i loro seni ballano al suono dei tamburi, alcuni

pendenti come cetrioli, altri come palloni troppo gonfiati. Gli uomini ed

i pianti (soprattutto i pianti) sono vietati durante questo cerimoniale. Due

donne robuste entrano nel fiume e si dirigono verso di me. Chiudo gli

occhi e resisto alla voglia di scappare. Per mancanza di sensibilità nelle

gambe, mi rendo conto che non potrei neanche se lo volessi. I motivi

che cantano hanno un suono malinconico, le parole sono aliene, come

lo è questo rituale di cui faccio parte. Mi portano due donne: l’una

con una mano sotto il mio ginocchio e l’altra con una mano sotto la mia

ascella. Il freddo, suppongo, mi ha intorpidito la mente, perché non sento

imbarazzo mentre mi portano fuori dall’acqua, a gambe divaricate con

la mia rosa che da rosa è diventata blu. Mi hanno coricata su foglie di

banano. Mi aprono ancora mentre una donna sdentata si accovaccia in

mezzo alle mie gambe, con in mano la lama di un rasoio dall’aspetto rudimentale.

Non urlare. Per favore, non urlare, continuo a ripetermelo nella

mente. Tu sei il capogruppo per merito d’età. Se piangi, l’intero gruppo

di coetanee sarà per sempre marchiato come codardo. Diventi donna

non appena metti piede nel fiume. Sento parlare. Giro la testa

all’indietro mentre le dita storte della vecchia toccano i miei genitali in

cerca del fagiolo proibito che, per loro, distingue le ragazze dalle donne.

Poi incomincia il dolore! Ahaaaaaaaa… Ahaaaaaaaa!…”

Dolore… Dolore… Dolore! “O, mio Dio! Cos’ho fatto? “Mi chiedo quando

mi risveglio. Sono distesa sul dorso con le gambe divaricate e le ginocchia

alzate. Sollevo il lenzuolo insanguinato per valutare il danno.

Ogni minimo movimento manda dei lampi di dolore in tutto il corpo.

O, Dio! C’è del sangue secco dappertutto sull’interno delle cosce. Questo

non è certo il piccolo taglio che mi avevano promesso! Lacrime scot-

tanti mi scorrono sulle guance. Hanno mutilato la mia femminilità. “O,

Dio! Muraya, amore mio, cos’hai permesso loro di farmi?”

“Zasha…” Qualcuno chiama il mio nome. Apro gli occhi. Una donna

parla. Il suo tono di voce, mi accorgo, è piuttosto severo. Continua con

la sua predica prima di scattare e, in modo rabbioso, mi avvicina il piatto

che, suppongo, sia la mia cena. Nel buio della capanna dove ci troviamo

tutte quante inermi, sento gli sguardi curiosi di quelle intorno a

me che mi bruciano. La minestra è fredda e non mi hanno lasciato un

cucchiaio. Non riesco a individuare cos’è e così ne prendo un po’ col

dito e lo assaggio. Che cos’è? Circa trenta paia di occhi mi osservano;

cerco di non fare una smorfia. Metto il piatto sul pavimento di terra battuta,

mi corico e chiudo gli occhi. Sento il sibilo della lampada al cherosene.

Vedo il sorriso di Muraya mentre spero di capire quando potrò

uscire da questo posto. “Una donna matura degna di essere sposata” ,

come dice lui. Il primo giorno che vidi quel sorriso rimarrà per sempre

scolpito nel mio cuore, come i cuori scolpiti sulle rocce giganti dai ragazzi

innamorati.

Era una di quelle giornate quando ti alzi col presentimento che accadrà

qualcosa di bello. Quando ti svegli, il sole è già sorto e fa sembrare bellissimo

quel paesaggio che spesso si ritiene scontato. Assisteva ad un

matrimonio tradizionale africano, del tipo dove un quarto degli ospiti

conoscono gli sposi. Ero lì perché mia madre era amica di una zia dello

sposo. Muraya si trovava lì perché suo cugino era addetto al sistema

  1. Era in una chiesa, o forse dovrei dire fuori dalla chiesa, che lo notai

per la prima volta. I seicento posti erano tutti occupati. Mi sembrava

di conoscerlo anche se non riuscivo a ricordare dove l’avessi conosciuto.

Quando si incontrarono i nostri occhi, vidi che il suo sorriso si

trasformò per qualche secondo in un’espressione di stupore, prima che

si scusasse e mi si avvicinasse con un sorriso furbo. “Ciao, come stai?”

e si sedette accanto a me, senza che l’avessi invitato. “Ciao”. Mi fissava

spudoratamente.

“Cosa?”

Si rese conto che mi stava fissando. “Scusa, è che sei bellissima ora che

hai perso quei chili di troppo che avevi alle scuole superiori.”

“Ti conosco?”, volevo esserne certa.

“Io frequentavo la Kenyatta High School… la scuola di tuo fratello”. Il

suo sorriso era disarmante. “Ti ricordi di me, Magdalene, non è vero?”

Io arrossii e lui colse l’attimo.

Ciò che successe in seguito quel giorno, non era altro che il rituale accelerato

della conoscenza. Muraya non si mosse mai dal mio fianco. Dalla

chiesa al ricevimento fino alla festa serale, il tempo volò. Era all’università

per studiare pedagogia. Io mi trovavo al campus vicino per studiare

architettura. “Non credo che una ragazza minuta e dolce come te

vorrà entrare nel mondo duro delle costruzioni”, egli mi sussurrò nell’orecchio

mentre ballavamo un lento. Mi sovrastava e mi sentivo al sicuro

come in un bozzolo vicino al suo corpo duro di calciatore. La sua

pelle scura era un bel contrasto con il suo sorriso bianco splendente. Mi

portò dalla pista da ballo nel giardino illuminato. Quando mi fissò mentre

sedevamo su una panchina, i suoi occhi pieni di passione, io non riuscii

a fermarlo mentre le sue labbra si avvicinavano lentamente alle mie.

“Zasha, amore mio”, egli sussurrò.

Apro gli occhi e tremo. Guardo dalla finestra per capire che ore sono.

Si sta facendo giorno. Un gallo canta in lontananza. Un altro un po’ più

vicino risponde. Questa è la realtà o sto sognando, penso, mentre mi guardo

attorno in quell’ambiente squallido. Come se qualcuno avesse dato

la battuta d’entrata, il mondo si anima, gli uccelli iniziano a cinguettare

e le mucche a muggire. Al silenzio di tomba di prima è subentrata la

vita. Delle gocce di condensa punteggiano il lenzuolo leggero sul mio

letto. Dio, mi servirebbe una coperta e giacché ci sei, un letto come si

deve, non questo sacco di paglia sulla terra nuda. Tutto questo posto avrebbe

bisogno di qualche riparazione o, meglio, di essere demolito. La ragazza

di fronte a me si sveglia. Una vecchia lattina sparisce sotto le coperte,

c’è il suono di qualcosa che si versa e poi ricompare, riempita a

metà. Che schifo! Allora, serve a questo la lattina! Non voglio neanche

sapere a cosa possa servire il piatto di plastica accanto! L’amore ti porta

a fare delle pazzie.

Quando ci rincontrammo sette giorni dopo, l’incontro fu elettrizzante.

Le mie inibizioni vennero via come la buccia di una banana. Ci baciammo

appassionatamente al ristorante, con un appetito che non poteva essere

saziato dal cibo ma dalla compagnia dell’altro; ordinammo solo del-

le bevande e parlammo. Ciò che mancava a me, lo compensava lui, e

ciò che mancava a lui, lo compensavo io. Da quella sera in poi, ogni

volta che ci abbracciavamo prima di separarci, rimanevamo attaccati

come il velcro e dovevamo letteralmente strapparci via. Pur essendo all’ultimo

anno, riusciva a trascorrere i fine settimana con me. Da soli

non eravamo che dei cerchi a metà. Alla festa di San Valentino, ad una

cena illuminata da un falò, mi guardò con quello sguardo, occhi scintillanti

e tutto.

“Magdalene Zasha…” Non capivo esattamente se dicesse “Magdalene”

oppure “My darling”. “Mi vuoi sposare?” Se avessi saputo come la mia

risposta avrebbe cambiato la mia vita, non avrei mai risposto con tanta

prontezza: “Si, Muraya! Ti sposerò!” La luna era alta mentre mi accompagnava

per tornare al campus. Sedemmo su una panchina di cemento

nei giardini a parlare per ore, non come due persone, ma come

una sola. Sullo sfondo di quel giardino, consumammo il nostro rapporto,

con una dolce brezza che rinfrescava le nostre passioni. Costruimmo

il nostro futuro e lo vivemmo, avemmo dei figli, demmo loro dei

nomi, li vedemmo crescere e perfino andammo in pensione per vivere

nella sua casa in campagna. Ora siamo davvero una cosa sola.

Mi sento scoppiare di caldo. Il tetto di ferro irradia il calore come una

graticola. Ho bisogno di andare al bagno. Dio mio! L’attimo in cui le

mie ginocchia si sollevano – che dolore! Sto per prendere la lattina. Sento

ridacchiare tutt’intorno. Giuro a me stessa di non usare il piatto. Rimetto

a posto la lattina, attenta a non rovesciarla. Qualcuno fa un commento

e tutta la stanza scoppia in una risata. Dio, come mi odiano!

La scarpa comincia a far male solo dopo averla portata per un miglio.

Muraya mi portò a trovare i suoi genitori. Il fatto che proveniamo da

gruppi etnici diversi non aveva mai giocato a nostro svantaggio. Ma questo

non doveva durare. Nel momento in cui mettemmo piede nel loro

recinto, mi resi conto che loro non avevano avuto il tipo di preavviso

che Muraya aveva dato a me. Portavo la cosa più simile ad un “bui-bui”

che fossi riuscita a trovare, niente trucco, né gioielli. Reagirono al colore

più chiaro della mia pelle e alla mia statura minuta con ovvia ostilità.

Per loro, l’essere di carnagione scura e tondetta rappresentava l’ideale.

Ci divisero subito e fui portata in una capanna che, più tardi, sco-

prii essere quella della madre di Muraya, la moglie più anziana. Quando

lei arrivò, ripeté una parola a cui non diedi importanza, la quale, però,

avrebbe dovuto mandare un brivido giù per la mia schiena. “Tuhara!?

Tuhara!? Wewe tuhara!?” Non feci altro che fissarla. Lei mi portò

in una capanna più piccola e lì, contro la mia volontà, mi svestì. Quando

videro le mie parti intime, subito si alzò un lamento tra i presenti. In

meno di cinque minuti l’intero villaggio era in agitazione. Mentre mi

rivestivo da sola, una giovane donna con un bimbo legato al dorso entrò

nella capanna. “Tu niente tuhara?” Era spaventata.

“Che cosa?”

“Tuhara? Un taglio laggiù? Pura… immacolata… niente?”

Scossi il capo, “Niente!”

Spalancò gli occhi “Niente? Vattene…vattene… ti picchieranno! Vattene!”

L’agitazione fuori aumentava. Mi arrampicai per uscire dalla finestra

sul retro e mi allontanai di corsa, come un topo appena fuggito da una

trappola.

Siamo rimaste solo in due adesso; le altre sono tornate a casa. La donna

sdentata viene ad ispezionare il suo lavoro… Non va bene. Riesco a

sentire l’odore della ferita. La sua faccia lo conferma. Ieri aveva ridotto

delle foglie in poltiglia e le aveva applicate lì. Oggi, tutto quello che

ha fatto è schioccare le labbra, poi è andata via. Nbimba, la matrigna di

Muraya che mi salvò la vita e organizzò la mia purificazione, è venuta

a trovarmi. “Vado dire a Muraya tu andare ospedale…”.

La sabbia è, era… Non so cosa. Con Muraya a fianco camminiamo lungo

la spiaggia. “Devi purificarti”, egli mi dice. “Mio padre non può assolutamente

darmi il suo consenso per sposarti se non lo farai. La mia

matrigna ha organizzato tutto”. Arrabbiata, mi giro per tornare. Poi lo

noto: sulla sabbia c’è solo la traccia di due piedi – quelli di lui!

La puzza – sento il bisogno di rimettere. Non ho niente da rimettere. L’altra

ragazza è morta ieri. “Ospitali… ospitali… Muraya”. Grido nel delirio.

Un momento tremo di freddo, poco dopo sudo. Col passare delle

notti, la puzza della morte si avvicina sempre di più alle narici.

“Zasha… Zasha!” Apro gli occhi e vedo Muraya in ginocchio al lato

del letto.

“Ti amo… ti amerò per sempre,” strascico le parole, appena percettibili.

“Che cosa ho fatto!?” Le lacrime gli scorrono lungo il mento. “Ti porterò

in ospedale”. Muraya mi solleva.

“Zasha… resta con me”. Il marcato odore della morte mi sopraffà. Apro

gli occhi, colpiti dal sole. Mi alzo per andargli incontro… vado verso

il suo calore.

“Zasha, amore mio… non andartene!” Muraya balbetta. Il suono delle

trombe copre le sue suppliche mentre il bianco accecante si trasforma

in giallo, verde, azzurro e poi in buio, con una luce in ciò che ha l’aspetto

di una caverna. E’bello sentire l’aria: mi fa bruciare la pelle mentre

la brezza marina, calda e profumata, aleggia da quella luce. Assaporo

o percepisco una presenza.

“Zasha! Non puoi morire!” Sento la sua ultima supplica mentre la piena

gloria di quella presenza mi avvolge in fondo al tunnel.

“Sei a casa!” Mi sento rilassata, contenta e non manco di nulla. “Sono

a casa”.