In nome del debito sovrano
_ di Daniele Ventre
“…Nel 2012 la democrazia nell’Europa mediterranea venne sospesa, per instaurare una tecnocrazia il cui unico fine era quello di drenare le risorse del capitale privato e convogliarlo nelle casse della BCE. I colpi di Stato bianchi dei tecnocrati vennero favoriti dalla corruzione endemica delle classi politiche locali, che accettarono il fatto compiuto sulla base di un ricatto strisciante, pur di conservare i loro privilegi e restare immuni da ogni provvedimento in sede processuale. Questo fenomeno determinò la sospensione effettiva dei diritti dei cittadini e dei più elementari principii di legalità, costituendo inoltre un laboratorio politico per le democrature, le tecnocrazie e i totalitarismi che avrebbero caratterizzato la successiva fase del collasso delle strutture sociopolitiche dell’Occidente.
In Italia, la speranza che il governo tecnico di Mario Monti, nato all’insegna del vantato rigore e della sbandierata sobrietà, potesse costituire un effettivo superamento del degrado politico definitivamente instauratosi durante la fase del berlusconismo, si rivelò ben presto illusoria. Nell’emergenza rappresentata dagli effetti locali dell’ingravescente crisi economica e finanziaria globale, il cambio di direzione a palazzo Chigi si configurò sostanzialmente come soluzione di compromesso fra la necessità di un neuer Kursnella gestione della cosa pubblica e l’implicito presupposto che tale neuer Kurs dovesse instaurarsi senza compromettere l’accesso dei parlamentari agli emolumenti garantiti dal compiersi naturale della legislatura. La svolta Monti appariva dunque come determinata da fattori eminentemente congiunturali, in quella peripezia del sistema politico italiano che domina la scena del secondo decennio del XXI secolo; di fatto, però, quei medesimi fattori congiunturali avevano portato alla superficie in via ultimativa tutti i vecchi nodi rimossi e irrisolti della vita sociale e politica del Paese. Travolte dal naufragio dei primissimi anni ’90 del XX sec. le linee politiche tradizionali, che gli scandali finanziari e i mutamenti geopolitici ingeneratisi a partire dalla crisi del socialismo reale avevano senz’altro sconfessate; delegittimatesi per la loro condotta ambivalente, se non francamente antipopolare, le formazioni della sinistra moderata, ormai culturalmente e ideologicamente deprivate e di fatto incapaci di recepire ogni istanza politica che non fosse in ultima analisi legata al mantenimento di posizioni di privilegio all’interno dell’establishmenttecnico e burocratico; indebolitosi fortemente il progetto liberistico-sviluppista della via italiana al pensiero neo-con, che nel contesto specifico non aveva saputo emanciparsi né dal becero provincialismo xenofobo della Lega Nord né dall’ipoteca sordida d’una fin troppo largamente tollerata collusione con i poteri criminali; postesi in generale le condizioni di un declino progressivo della vita produttiva e sociale della nazione in ogni sua forma, a centocinquant’anni dalla sua nascita come Stato riconosciuto nel consesso europeo l’Italia era ormai unita soltanto dal diffuso senso di lacerazione sociale che separava il settentrione dal mezzogiorno, le categorie dell’impiego pubblico e privato l’una dall’altra, la parte di popolazione attiva impiegata, da quegli strati sempre crescenti di sottocupati e disoccupati che un capitalismo primitivo e predatorio lasciava indietro, i giovani avviati verso un futuro incerto, dagli anziani che un corpo sociale intimamente disfatto e malato percepiva ora come usufruttuari di indebiti diritti-privilegi, ora come ultima àncora di salvezza a cui aggrapparsi per neutralizzare il conflitto intestino che in altri tempi la presenza di intere generazioni senza prospettiva avrebbe senz’altro scatenato. Così, tesa fra sentimenti autofustigatori e indifferenza, dominata da interessi contrastanti, gravata dal suo bagaglio di oligarchie e privilegi, l’Italia si avviava senz’alcuna preparazione verso l’età più cruciale dell’intera storia umana.
Non meraviglia pertanto che l’Italia stessa, come già la Greciae in misura molto minore la Spagna, divenisse agli occhi dell’insensato e pericoloso avventurismo del direttorio economico-finanziario europeo il brodo di coltura ideale per la proliferazione di quelle profonde trasformazioni che nel giro di nemmeno vent’anni avrebbero alterato nella sua intima essenza il tessuto istituzionale e umano delle morenti nazioni d’Europa. Derubricato un po’ ovunque nella prassi, in vario modo e sotto le più disparate mascherature giuridiche, il reato di tortura; estesa indefinitamente, o per l’incompetenza dei legislatori, o per l’effettiva malafede delle lobbies che li manovravano, la discrezionalità del controllo repressivo sulle libere manifestazioni del pensiero; depauperati di sovranità gli Stati, sostituiti da un potere politico sovranazionale extra-istituzionale e pertanto estraneo a ogni procedura di controllo e di effettiva divisione di poteri; determinando con le più varie e diversificate strategie di centralizzazione strisciante il concretarsi di un vero e proprio stato di eccezione economica su scala continentale, la tecnostruttura bancaria europea riuscì infine a disintegrare le conquiste spirituali della modernità, e a imporre il suo peculiarissimo Führerprinzip -né è un caso se uno dei suoi centri di irradiazione sia statala Germania. Responsabili del collasso finanziario dell’Occidente, fra il 2012 e il 2020, le banche in Europa presero il potere al fine di preservarsi. La fragile e immatura interconnessione sovranazionale che posero in atto per breve tempo, fu instaurata al prezzo di stritolare ovunque ogni residuale forma di identità culturale e ogni traccia di protezione sociale o diritto che potesse ancora conferire all’uomo della strada un minimo di possibilità di ritenersi qualcosa di più che un sorridente e sacrificabile servo dell’ingranaggio: un risultato brillante, tanto più ammirevole quanto più appare evidente, a posteriori, come la sua pianificazione fosse da principio largamente incompleta e ben lungi da ogni preordinata messa a punto. All’intricato processo in atto opposero una debole resistenza soltanto i movimenti civici di protesta e il volontarismo delle associazioni non governative; ma quanto il loro proposito fosse velleitario, e comunque ben lontano dal rappresentare una via d’uscita, si intuiva già da un dettaglio: quei movimenti non seppero emanciparsi dalla loro sostanziale perifericità. Tesi a prospettare uno spazio di legittimità alternativa, erano pur sempre avulsi dal potere legittimatorio delle istituzioni culturali dominanti (chiese, accademia, sistemi giuridici, consorterie imprenditoriali), che nella loro agonia di strumenti transitori del moloch tecnocratico, si fecero armi potenti di pubblica delegittimazione dei contestatori, proprio nel momento in cui venivano anch’esse metabolizzate e svilite nel generale progresso di omologazione. Le tappe e le dinamiche che mutarono l’Europa opulenta in crisi di identità del dopo-guerra fredda nel sistema totalitario del 2050, assediato dai disastri del cambiamento climatico e squassato dalle sommosse, dal terrorismo e da sanguinose repressioni, non si esauriscono nelle date e negli eventi che vedremo a breve, più avanti, e che sono affare di dettagli: partono da lontano e sebbene alcuni additino in esse l’effetto di un totale snaturamento della società occidentale del Novecento e delle sue premesse, e promesse, umanitarie e democratiche, sembrano a ben vedere soltanto il ritorno di un incubo e il disvelamento dell’insufficienza dei compromessi che l’età dell’oro dell’industrialismo aveva semplicemente nascosti a sé stessa. Per il momento, l’internazionalismo paradosso delle banche si nutriva di fanatismi e divisioni. Una volta che fosse crollato, solo l’odio avallato dai particolarismi identitari estremistici avrebbe elaborato sul piano ideologico lo stato di conflitto endemico che accompagna i travagli agonici di ogni civiltà, dando un senso all’altrettanto paradossa logica del declino…”