Insekta_Francesco Troccoli, Roma
_Menzione Giuria quindicesima edizione Premio Energheia 2009.
Johanna correva veloce sulla spiaggia e gli andava incontro.
Dall’alto della scogliera, chiunque non avrebbe potuto distinguere che un puntino in rapido movimento, e per un istante fu come se anche Balkan avesse visto così quella scena.
Era certo che si trattasse di lei, anche se ancora non riusciva a vederla in volto; riconosceva la sua immagine da lontano, dal desiderio che la muoveva verso di lui, dalla leggerezza.
Mentre la guardava avvicinarsi, Balkan non riusciva a sentirla, mentre lei lo chiamava per nome, perché la voce della donna era sovrastata dalle onde del mare; ma era così felice che lei fosse lì che questo non gli importava. L’idea di riaverla fra le sue braccia prevaleva su qualunque altro pensiero; per tutto il resto, le domande, i dubbi, le incomprensioni e lo stupore non sarebbe mancato il tempo, poi.
C’era solo una lingua sottile di sabbia fra il balzo della colossale parete basaltica e la marea che risaliva in fretta, ed un senso di urgenza si sovrappose alla placida bellezza di quella visione.
La risacca diventava sempre più vicina, e Balkan cominciò a pensare che non avrebbe avuto modo di salutare la sua amata nella maniera che avrebbe voluto, ovvero abbandonandosi ad un bacio senza tempo.
Il cielo appariva sereno, e la luce dei due soli era al massimo dell’intensità diurna. Non c’era dubbio, si trovava nel sistema binario di Darlan, uno dei luoghi più temuti della galassia, frequentato unicamente da pirati, predoni e trafficanti di ogni risma. Gente in mezzo a cui era cresciuto e con cui aveva imparato a vivere più che dignitosamente. Proprio per questo non riusciva a capacitarsi di come anche lei, che apparteneva a tutt’altro genere di mondo, potesse trovarsi laggiù, libera, e sola.
Si erano detti addio da qualche settimana, ma lei doveva aver cambiato idea.
Lo aveva dunque raggiunto e aveva corso un gran rischio per riuscire a rintracciarlo. Ne concluse che era ancora innamorata di lui, e questo era più che abbastanza.
Al diavolo la marea, le rocce, e i malviventi che infestavano il pianeta; come al solito, lui avrebbe trovato un modo per cavarsela, e anzi persino per trarre vantaggio dalla situazione, per sé, e per lei.
Per loro, insieme.
Johanna era ormai a poche decine di metri, quando Balkan vide la bestia. Un’aquila gigante, sbucata all’improvviso alle proprie spalle, stava picchiando dall’alto delle rocce verso la donna. Balkan rimase inebetito a guardarla, dubitando dei suoi stessi occhi; su Darlan IV non c’erano animali, escludendo le più meschine fra le razze del genere umano.
Non aveva mai visto da vicino quel genere di predatore, ma era come se ciò fosse avvenuto; quando era bambino, suo nonno gli narrava di aver visto i rapaci imperversare durante le razzie dei villaggi saccheggiati dai signori, nei sistemi più lontani dal centro dell’Impero, prima della nascita della Lega. Ma non avrebbe mai sospettato che potessero esserci ancora degli esemplari selvatici in libertà, e di certo non su quel mondo abbandonato.
L’uomo estrasse la sua arma e iniziò a correre verso la donna, sperando di riuscire a sottrarla alle grinfie di quel mostro.
Per quanto si sforzasse di precipitarsi in suo aiuto, Balkan si accorse, con orrore, che riusciva a muoversi molto lentamente; la gravità sembrava essere aumentata ad un livello intollerabile, e la bestia sarebbe arrivata su Johanna prima di lui. Non poteva permetterlo, proprio ora che l’aveva ritrovata.
Puntò il fucile paralizzante, sparò, e si rese subito conto che l’arma non funzionava; la gettò in terra con violenza rabbiosa, prima di lasciarsi andare ad un urlo disperato, disumano, che avrebbe spezzato il cuore a chiunque avesse avuto la cattiva sorte di udirlo.
– Balkan! Svegliati, accidenti! Sveglia, Balkan!
Le parole risuonarono nel silenzio.
Quando l’uomo aprì gli occhi vide l’ologramma di Afrika chino su di lui, che lo fissava con preoccupazione. Balkan pensò che doveva aver tentato di strattonarlo.
– Devono ancora inventarli, gli ologrammi capaci di toccarti…-, mormorò l’uomo mentre l’agitazione del sogno svaniva.
– Avresti dovuto programmare la sveglia.
Disse l’ologramma di Afrika, sollevando il busto e rimettendosi in piedi.
– Buongiorno, Afrika. Guardarti, fa compiangere la deficienza tecnologica dei nostri comunicatori.
Il volto dell’ologramma gli sorrise.
Nonostante tutto, l’immagine tridimensionale rendeva merito alla bellezza della donna. Il fatto che si trovasse a milioni di chilometri di distanza dalla nave di Balkan, e da tutte le altre con cui si collegava regolarmente per coordinare l’azione, le consentiva di poter indossare l’abbigliamento che più l’aggradava, senza doverne sopportare le inevitabili conseguenze. Quel genere di abito, corto e così provocante, era tollerato di buon grado dai vertici della flotta, ed anzi molti pensavano che mantenere gli istinti sessuali maschili sotto stimolo fosse molto utile per fomentare l’aggressività dei Terminatori e rendere più efficiente e produttiva la loro azione. La vecchia idea della pentola a pressione, tanto cara ai militari di ogni epoca.
Ma su Balkan quell’ostentazione di bellezza aveva puntualmente l’effetto opposto; ogni volta che vedeva Afrika, lui si ricordava di quanto amava la vita e non mancava di osservare che la cosa più entusiasmante dell’esistenza umana è la visione del corpo di una bella donna e tutto quel che ne viene di conseguenza in natura. E questo gli faceva dimenticare, spesso e volentieri, per quale ragione si trovava a bordo della sua nave. Gli faceva sognare per qualche istante di essere un uomo libero, pronto a prendere il primo transfer iper-luce e raggiungere quel superbo esemplare di femmina negride in carne e ossa, discendente dai ceppi selezionati secoli prima per le case di piacere delle colonie più lontane, e invitarla a guardare il tramonto sull’oceano occidentale del suo pianeta.
Lo illudeva di poter vivere ancora come un essere umano, un uomo, destinato ad amare i suoi simili, magari a fare dei figli, e non ad attraversare l’universo per disintegrare altri come lui. Balkan avrebbe voluto avere l’opportunità di dar vita alla gente, mentre gli era stata assegnata la missione di togliergliela.
Come al solito, dovette interrompere il vortice dei pensieri e concentrarsi sulla cruda realtà.
– Il bersaglio si è mosso?-, domandò all’ologramma, sperando in una risposta positiva che avrebbe ritardato il momento del rendez-vous.
– Il bersaglio, Starsat 44, è immobilizzato da un guasto alla propulsione ausiliaria, l’unica esistente in una stazione meteorologica permanente, Balkan.
L’uomo fece una smorfia, che l’ologramma di Afrika finse di non vedere, abbassando repentinamente il volto.
– Tu sai come mi sento, non è vero?
Afrika tentò di celare le sue emozioni all’uomo.
– Quel che io so è che devi portare a termine la tua missione, Comandante.
– Hanno sistemi di difesa?
L’ologramma della donna esitò nel dare la risposta, che era penosa anche per lei.
– Nessuno.
Balkan chinò il volto verso il basso, e fissò i propri piedi nudi.
Ovviamente, pensò l’uomo, fino a ieri hanno studiato mari, correnti e tempeste, che diavolo ti salta in mente, dannazione?
– Vorrei averti potuto rispondere di sì. Immagino che la consapevolezza della necessità di difenderti ti avrebbe aiutato -. Soggiunse Afrika.
– Non sarei comunque stato io a dovermi difendere.
– Già.
Vi fu una lunga pausa.
I Coordinatori come Afrika erano quasi tutte donne, per via del loro eccellente intuito; per organizzare l’azione delle cellule in combattimento era fondamentale la capacità di visualizzare lo schema d’attacco su diverse dimensioni di spazio e tempo, e sin dall’inizio le donne si erano rivelate di gran lunga più abili degli uomini. Come le altre, anche Afrika era addestrata ad affrontare le difficoltà psicologiche, gli scrupoli e i sensi di colpa dei Terminatori.
Il suo compito sarebbe stato snidarle e polverizzarle, ma con Balkan nemmeno ci provava più.
Lui era diverso.
Non era certo un novellino, ciononostante per lui ogni volta era come fosse stata la prima. Proprio non gli riusciva di abituarsi a uccidere, e anche se non ne avevano mai parlato, lei e Balkan erano molto più simili di quanto lui potesse immaginare. Dal suo nome era evidente che quell’uomo, proprio come lei, discendeva direttamente dai nativi della Terra.
– Afrika…
– Prego, Comandante.
– Non vuoi sapere cosa stavo sognando?
– Preferirei che tu non ci pensassi, ora. Fine del collegamento.
L’ologramma svanì, e portò via con sé le lunghe gambe, il collo lucido e snello, e gli occhi neri come il luogo che dava il nome a quella donna dalla pelle d’ambra.
Balkan misurò il percorso residuo verso il suo bersaglio e calcolò che in un paio d’ore sarebbe giunto a distanza di tiro.
Poi pensò che se al suo posto ci fosse stato uno dei colleghi, ormai tutti veterani come lui, la missione sarebbe stata un fatto molto più semplice; raggiunta la distanza minima sufficiente, un buon Terminatore avrebbe inquadrato il bersaglio, lo avrebbe agganciato con la teleguida e gli avrebbe scaricato addosso le testate a disintegrazione selettiva, in quantità sufficiente per una nave di quelle dimensioni, e non una di più.
Economia di guerra.
I più esperti lo avrebbero fatto probabilmente gustando un caffè o mentre consumavano il pranzo.
Tutto sarebbe avvenuto nel più assordante silenzio del vuoto cosmico; una luce avrebbe brillato per alcuni minuti, e solo qualche giorno dopo, se gli avvoltoi non fossero arrivati prima, sarebbe arrivato uno spazzino della Lega per recuperare i corpi.
Imprenditorialità di guerra.
Balkan pensava che quello fosse il mestiere peggiore.
Uno spazzino gli aveva raccontato che a volte, fra cadaveri di maschi e femmine la cui umanità era stata deturpata in modo inimmaginabile, gli erano capitati corpi assolutamente integri, del tutto vergini alla colonizzazione parassitaria dell’Insetto.
Almeno due o tre ogni cento vittime, aveva specificato.
Non era ancora chiaro perché gli Insetti ne risparmiassero alcuni. Probabilmente non avevano bisogno di entrare sempre e comunque in un corpo umano per controllarlo; a volte era sufficiente il possesso del suo pensiero. O forse quello era addirittura il tipo di controllo più efficiente, e un giorno, se gli umani avessero perso la guerra, sarebbe stato l’unico.
Del resto, non c’erano più dubbi che quelle bestiacce fossero telepatiche; alcuni erano ormai convinti che fossero prive di individualità, come diramazioni di un’unica intelligenza centrale. Non si sapeva quante di quelle intelligenze esistessero, ma a giudicare dal fatto che la guerra durava da ormai cinquant’anni, dovevano essercene ancora molte.
Anche l’azione di Balkan si sarebbe svolta in quel modo; pure lui avrebbe fatto fuoco per poi allontanarsi nel buio, come il killer professionista che era. Ma per Balkan l’attesa sarebbe stata diversa; lui si ostinava a non disattivare mai i canali di comunicazione con la nave infestata che si accingeva a distruggere.
Al contrario degli altri Terminatori, se gli occupanti della nave avessero cercato di contattarlo per tentare di dissuaderlo (come sempre avveniva), Balkan avrebbe accettato il colloquio con le sue vittime; lo sopportava e lo permetteva.
O meglio, lo voleva, e quindi lo cercava.
In verità, Balkan lo sperava, perché Balkan glielo doveva.
Gli altri Terminatori avevano un solo modo di uccidere: quando giungevano sul posto, essi avevano già disintegrato l’immagine stessa delle loro vittime dentro di sé, e per loro dare un movimento fisico all’eliminazione era l’ovvia conseguenza, la parte più semplice e naturale di un processo che era già avvenuto nella loro mente.
Per riuscire ad uccidere con quella freddezza, annientavano la propria umanità.
L’annullamento della guerra.
Per Balkan non poteva essere così. Lui era certo che l’unico modo per conservare la sua umanità fosse guardare in faccia le sue vittime. Parlare con loro. Ascoltare e, se possibile, esaudire le loro richieste. Portare messaggi alle loro famiglie, a mogli, mariti, amanti, amici, figli, madri, padri.
Questo rendeva tutto tremendamente più difficile.
Balkan sapeva che, in caso di infestazione, uccidere veniva spacciato per un atto d’amore estremo per donne, uomini e bambini; gli Insetti abbandonavano i corpi solo dopo la morte del corpo ospite. Ma per lui non faceva differenza; si trattava comunque di un assassinio. Consapevole, reiterato, empio e colpevole.
La disintegrazione selettiva bruciava la vita umana, pur lasciando pressoché integro il corpo, ma eliminava i parassiti.
Poi i sistemi di pressurizzazione quasi sempre saltavano, un effetto di quell’arma in particolare, e i corpi si perdevano nello spazio.
Lui non era mai riuscito a farlo in quel modo, non era nemmeno riuscito a provarci; per lui c’era dell’altro, lui doveva prima parlare con loro.
Se c’è un modo in cui l’uomo deve essere costretto ad uccidere, pensava, allora deve essere guardando negli occhi la sua vittima. Sentendo dentro di sé la sua morte, e rischiando di impazzirne. Perché possa vivere ancora, nel ricordo. E così, sarò io a salvare la mia umanità. Sarò un assassino, ma sarò ancora un essere umano. Forse.
Il Comandante aveva una lunga esperienza di quei colloqui, e spendeva gran parte delle sue lunghe vacanze (mentre il comando di flotta era convinto che riposasse, come gli altri) a girare la galassia per portare ricordi, lacrime, poesie. Per ritrovare la propria umanità nella gratitudine di una madre, nell’abbraccio di un padre o nel sorriso di un bimbo. A volte era persino riuscito a rivelare di aver premuto lui quel pulsante, ma per quelli non aveva fatto differenza.
Quando viaggiava per quel motivo, Balkan sapeva che non era solo un’espiazione delle sue colpe, ma molto di più.
Era il suo modo per non impazzire.
Quella che si accingeva a compiere era la missione più difficile che gli fosse mai capitata: terminare una inerme stazione meteo.
I sensori rilevarono la presenza di sei esseri umani a bordo, e dai loro movimenti, apparentemente calmi e sotto controllo, non sembrava che l’infestazione fosse ancora molto avanzata.
Probabilmente hanno ancora il volto integro, pensò, e questo renderà tutto, ancora più difficile.
Balkan attivò il sistema di lancio e da quel momento non avrebbe più avuto alcun controllo sulla procedura.
Come previsto, il monitor principale iniziò a rimandare le immagini dell’abitacolo della stazione Starsat 44 e dopo qualche istante l’altoparlante iniziò a gracchiare.
Il volto di un bambino gli sorrise e lo salutò.
Bastardi, pensò, è così che cercate di salvarvi?
I sistemi di monitoraggio ambientale confermavano l’infestazione.
L’avviso “INSEKTA” lampeggiava ogni volta che il computer accertava un sintomo nei corpi inquadrati, nella pelle di quei derelitti, nel loro sguardo assente.
Poi si udì una voce adulta, maschile, che da fuori campo invitava Balkan a passare alla comunicazione in 3D.
– La mia nave -, spiegò il Comandante – ha assunto una configurazione da battaglia, e pertanto è schermata alla trasmissione di ologrammi. Sono spiacente, dobbiamo accontentarci. A meno che il bambino non debba dirmi qualcosa, vi consiglio di mostrarvi a me, signore, perché non posso dedicarvi molto tempo.
Il profilo di un uomo anziano in camice bianco apparve sullo schermo; doveva trattarsi del capo meteorologo. Il suo volto sembrò inizialmente pulito, ma quando si girò verso di lui e lo espose per intero, Balkan notò il colore bluastro del parassita sotto la sua pelle.
Pur con momenti di assenza e confusione, l’uomo tentò di convincere Balkan a desistere. Quando ebbe smesso, il Comandante lo indusse a farsi dire il suo nome, e gli domandò se avesse un messaggio per qualcuno che gli fosse caro, e per chi.
– Che gli Dei ti maledicano! – gridò quello per tutta risposta, in preda all’ira. – L’unica persona che amo è qui con me -, aggiunse allungando un braccio fuori campo e tirando a sé una donna che sembrava più anziana di lui, e sulla quale l’effetto del parassita era ancora più evidente. – E sia lei che io malediciamo te e la Lega, che pensate che l’unica soluzione all’Insetto sia la morte!
L’uomo iniziò a singhiozzare, mentre il viso della moglie era già solcato da lacrime nere; il Comandante aveva già visto quel fenomeno, e sapeva che il colore era causato dal metabolismo del parassita.
Come se fosse la prima volta, anche Balkan pianse, ma nessuno di loro poté vederlo. Balkan gli risparmiava la propria pietà, perché sapeva che è più facile affrontare la morte nell’ira, che nella disperazione.
Il Terminatore domandò se qualcun altro volesse recapitare un messaggio personale, e giurò sulla Lega che avrebbe fatto di tutto per adempiere al compito.
Parlo così con un giovane meteorologo che gli spiegò dove avrebbe potuto rintracciare il padre e la madre, ai quali lo scongiurò di riferire che era morto in battaglia, e risparmiare loro lo spettacolo che lui poteva invece vedere; così facendo, gli mostrò il braccio, completamente corroso dall’Insetto.
Balkan giurò che lo avrebbe fatto, e quello lo ringraziò, e gli disse che non ce l’aveva con lui, perché sapeva quel che la Lega faceva ai Terminatori che non obbedivano agli ordini.
Poi sullo schermo apparve una donna giovane, che non riusciva nemmeno a parlare; Balkan intuì che la sua mente era dominata dall’Insetto e riuscì nonostante tutto a farle avvicinare l’occhio quel tanto che fu sufficiente a identificare lei e la sua famiglia; poi lesse i nomi dei familiari, partendo da quelli più vicini, e nel mentre quella scuoteva la testa, finché annuì quando lui arrivò a citare il nome della persona da cui lei voleva che lui si recasse.
Balkan aveva contato sei persone; ne mancava ancora una.
Sullo schermo apparve una donna, e la prima cosa che Balkan notò fu che non sembrava contaminata.
Si trattava di una osservazione che soleva far sempre subito; era come se solo nel momento in cui si convinceva che la persona che aveva di fronte non fosse ancora martoriata dal parassita, si permettesse di guardarla davvero in viso, e imprimere nella memoria una traccia nitida da consegnare ai suoi cari. I volti degli infestati invece, cercava di dimenticarli, perché temeva che i parenti li avrebbero rivisti nei suoi occhi.
Fu per questo, che ci vollero alcuni secondi.
Istanti, frazioni infinitamente piccole durante le quali il segnale, ormai nitido e chiaro, lasciò le retine e raggiunse la coscienza. Istanti che si dilatarono in uno spazio fuori dal tempo, in cui la vita di Balkan rimase sospesa fra passato e futuro, in un presente da cui scomparvero la dignità e il coraggio di vivere.
Era proprio lei.
Johanna guardava impassibile verso di lui, l’odio già sepolto sotto la fredda consapevolezza della morte imminente.
Balkan sapeva che lei non poteva vederlo in alcun modo, ma ebbe la sensazione che invece lo stesse guardando, e istintivamente si portò le mani sul volto per nascondersi. Poi con un altro gesto automatico allungò il braccio destro verso la tastiera per permetterle di vederlo, ma subito dopo si bloccò.
Non posso lasciare che mi veda, pensò, non posso rivelarle chi la sta uccidendo. Sarebbe come ucciderla due volte.
Di getto, interruppe anche il collegamento audio e si piegò su se stesso.
Come ho potuto solo pensarlo? Non posso farlo, non posso… non posso…!
– Non posso farlo! -, gridò con tutta la forza che aveva nel petto, facendo vibrare la gola di dolore, con gli occhi che gli esplodevano nelle orbite, e spingendo dal ventre le sue urla assordanti che riempivano tutto lo spazio della sua nave, rimbalzavano su ogni oggetto facendolo vibrare di terrore e morte, e poi tornavano ad attraversarlo, a perforare il suo corpo con la pestilente e letale virulenza di un parassita invisibile.
Iniziò a vomitare, e non smise di piangere.
Quando riuscì a rialzare lo sguardo, vide che lei non parlava, ma continuava a guardarlo, muta, non vedendolo, e lui non riusciva a riattivare il canale audio, perché lei lo avrebbe sentito, lo avrebbe visto senza bisogno di usare gli occhi, lo avrebbe amato ancora, lo avrebbe odiato, avrebbe ucciso il suo assassino, come era giusto che fosse, come lui sempre più desiderava, come ormai era disposto a fare, pur di non dover distruggere l’unica cosa bella della sua vita, oh, perché, perché proprio a lui, che infame missione, che inaccettabile sacrificio, e loro, oh loro non potevano non sapere, con i potenti mezzi della Lega, per tutti gli Dei…
Balkan rivide le immagini del sogno, e capì.
Era lui, l’artiglio dell’aquila. E non v’era arma che potesse proteggerla, che potesse aiutare Johanna che gli correva incontro sulla spiaggia, gridando il suo nome all’oceano.
Balkan scoccò un’occhiata al cronometro, e vide che mancavano solo nove minuti al lancio. Non poteva più fermare la sequenza, nemmeno se lo avesse voluto.
Prostrato, impotente, sull’orlo del collasso, riaprì il canale audio, e Johanna parlò.
– Comandante… mi sente ora?
Balkan non rispose.
– Io penso di sì. Comandante, le chiedo allora di rintracciare Balkan Kasparov su Beta III. Gli dica che non ho mai amato alcun uomo di più di lui, nella mia vita. Gli dica che gli voglio bene, un bene infinito, anche se non lo amo più. Grazie, Comandante.
Balkan si gettò in avanti e protese le braccia sullo schermo, in un abbraccio impossibile con cui si illuse di strappare Johanna all’inferno.
Dopo alcuni minuti, vi fu un lampo accecante.
L’aquila arrivò sulla preda e lui cadde in terra, privo di sensi. La marea della sera raggiunse il suo corpo, e l’acqua iniziò a sollevarlo, spingendolo verso le rocce.
Il secondo sole stava tramontando.
Presto, gli spazzini sarebbero arrivati.