Io non ho paura. Come combattere il virus dell’egoismo.
_di Elisa Kidané
Ci mancava solo questa ennesima tegola sulla già scassata (s)fortuna africana per rendere il percorso di questo continente sempre più in salita.
Se prima eravamo diversamente visibili, oggi un africano è per antonomasia pericolosamente visibile.: il solo fatto di essere africano rimette in moto la vivace ignoranza-collettiva-occidentale, così acuta da intasare i distretti medici per chiedere lumi sul da farsi perché “nel mio condominio vivono degli africani… ho sentito che quella malattia là e contagiosa”. Se non fosse perché trattiamo di un tema che ha accumulato migliaia di vittime, laggiù in Africa naturalmente, ci sarebbe solo da pensare che Fantozzi ha fatto scuola.
È questo allora il vero virus che deve far paura perché minaccia seriamente l’Occidente, un virus che avrebbe anche l’antidoto, ma generalmente chi viene contagiato non ama sottoporsi ad una cura specifica, un virus il cui sintomo iniziale è quello di congelare i sentimenti e di rendere miopi, incapaci di guardare lontano, ma interessati solo a quello che succede attorno al proprio ombelico. Il virus in questione ha un nome, potrebbe chiamarsi Danubio, Po, Tevere. Ci pensate? Ma no, forse è meglio chiamarlo semplicemente per quello che è, scientificamente: malsano egoismo. È questo il virus che fa davvero paura, perché prima di dividere l’umanità in razze, in privilegiati e sfortunati, in ricchi e poveri, divide la collettività e rende l’individuo diffidente, aggressivo. Ognuno pensa a se stesso, cura i propri interessi e si scaglia contro chiunque tenta di tessere relazioni, sinergia. Che sono poi gli antidoti al virus. E di fronte a questa ottusità, quale via scegliere? Quale argomentazione presentare?
Questo virus è moralmente letale quando intacca gli organismi nazionali capaci di investire un capitale per un singolo cittadino, e fregarsene altamente quando una pandemia colpisce migliaia di persone, soprattutto se si trovano anni luce lontani dai propri interessi. Una pandemia chiamata Ebola, pensate. Le hanno affibbiato il nome di un fiume della Repubblica democratica del Congo, il fiume Ebola. Potevano chiamarlo, come si fa generalmente, con un nome scientifico, oppure con il none di chi l’aveva individuato. Invece in questo modo si è circoscritto il fenomeno, identificandolo con uno stato, in un continente avvezzo a morire. Ma questa volta l’Ebola ha rotto le linee di demarcazione africane, e il timore ora è palpabile. Ed è questa la gran paura dell’Occidente, che sembra più spaventato per il fatto di venirne contagiato (pur sapendo che avrebbe mezzi a sufficienza per arginare il male), che non per le migliaia di vittime già fatte in alcuni paesi africani.
È questo che deve far paura. Deve farci paura la fredda logica che reputa che questi sono fatti loro, perché l’importante è che qui si prendano misure drastiche per lasciare fuori le miserie endemiche dell’Africa. Se non fosse perché la situazione è davvero tragica, verrebbe da sorridere nel guardare le mastodontiche misure di sicurezza prese in America e in Europa per i pazienti zero, che hanno contratto il virus Ebola. Ma c’è poco da sorridere se si pensa, invece che quelle precauzioni sono chimera per quei paesi che hanno pazienti con troppi zeri. Non dobbiamo avere paura dell’Ebola, ma dobbiamo aver paura del fatto che non sono state prese precauzioni importanti per impedire che 5.000 persone in Liberia, Sierra Leone e Guinea morissero. Dobbiamo aver paura del fatto che l’OMS, un’organismo mondiale che dovrebbe salvaguardare la salute di tutta l’umanità, ha sfacciatamente ammesso che si sono fatti degli errori nella gestione dell’emergenza e – non soddisfatta – ha pure sottolineato che si è data una risposta inadeguata per fermare il virus letale in Africa. Tanto si sa, errore più errore meno, tutto dipende a quale latitudine ci si trova. Una dichiarazione simile, nei riguardi di un paese dell’Occidente, sarebbe costata come minimo il posto agli (ir)responsabili di cotanta avventata leggerezza. Ma i morti, le vittime, hanno un peso specifico se si trovano a sud o a nord del mondo. È di questo che dobbiamo avere paura. Non facciamo finta di non sapere che dietro i morti per un virus ci sono degli interessi commerciali altissimi. È questo che ci deve far paura. Sapere che si specula sulla pelle e sulla vita della gente. E allora più che l’Ebola, alla quale non serve il panico, ma misure adeguate di sicurezza, progetti di salute dignitosa, a noi devono fare paura coloro che cavalcano il panico e l’ignoranza collettiva, pur di umiliare la dignità del singolo, di chi è percepito come un diversamente altro e quindi una potenziale minaccia; devono farci paura coloro che usando ogni mezzo trasmettono falsi e ambigui messaggi, senza nessuna base scientifica, mettendo a repentaglio il lungo percorso intrapreso per una convivialità plurale e diversa. È di questi che dobbiamo aver paura, dei sabotatori di utopie, non dell’Ebola, che come qualsiasi virus, per quanto letale possa essere, se preso con le dovute precauzioni può venire circoscritto e debellato. Altrimenti, mi chiedo, se non siamo capaci di debellare il virus dell’egoismo se qui su questa Terra non siamo in grado di proteggere ogni singolo individuo, che ci andiamo a fare sulla Luna?