Katia, Asterios Kakanas
Racconto finalista Premio Energheia Grecia 2024
Traduzione: Maria Chatzikyriakidou, a cura di: Franco M.T. Gatti
Le nuvole avevano coperto uniformemente i bordi della montagna. Come un velo morbido, come una coperta celeste che copriva dolcemente le cime bianche in attesa dell’alba.
Uscì sulla veranda indossando solo una lunga camicia bianca, abbracciando una bottiglia di brandy. Si sedette comodamente sulla sedia a dondolo, lasciando i piedi nudi preda del vento gelido del mattino. Aprì la bottiglia e cominciò a bere, dondolando il corpo avanti e indietro.
Il cielo dietro la montagna aveva cominciato a schiarirsi spargendo note di rosa, giallo e blu tutt’intorno, creando un quadro unico, diverso da tutti gli altri. I raggi di sole trapassavano le nuvole e si riversavano nella valle, facendo brillare i pini innevati come cristalli preziosi.
La prima debole luce dell’alba raggiunse la sua terrazza. Sentì che le accarezzava dolcemente i piedi, come la più dolce carezza di un uomo, e che lentamente saliva fino alla sua cintura. Chiuse gli occhi e rimase a godersi il calore di questo flirt con il sole, fantasticando sulla presenza di un maschio accanto a lei. Una presenza che lei volontariamente non aveva permesso di avvicinarla per molto tempo. E anche se si avvicinava, lei conosceva il modo per allontanarla, per gelarla. Un ghiacciaio il suo corpo, il suo cuore, le sue gambe. Non aveva bisogno di calore. Non più. Solo di piccoli piaceri immorali in mattinate come questa.
La luce dei raggi le era arrivata alla cintura, le abbracciava il ventre, le accarezzava le cosce. La camicia semiaperta era stata completamente strappata da un vento proveniente da sud che la scuoteva. I suoi seni erano duri come la pietra, le labbra secche e screpolate. Afferrò la bottiglia di brandy con una mano e abbassò l’altra tra le gambe. Lentamente, la portò sempre più in basso. Poi un po’ più in alto. Poi di nuovo più in basso.
Sentì un brivido di piacere e di lussuria lungo la schiena, mentre il sole diventava sempre più caldo. La sua mano continuò a salire e scendere, stringendo sempre più forte la bottiglia contro il petto. La fantasia si stava avvicinando al culmine. Le sfuggì un sospiro strozzato. Poi un altro, più forte. Continuò ancora più velocemente. Il culmine arrivò. Emise un grido di piacere assoluto e aprì gli occhi di scatto. La bottiglia le cadde dal grembo e lei sprofondò nella sedia a dondolo, che era bagnata fradicia.
Guardò il cielo. Le nuvole si erano diradate e il cielo era di un azzurro brillante. Le cime delle montagne scintillavano e il sole, più luminoso che mai, si rifletteva sulla morbida neve in pianura.
Entrò in casa, chiudendo dietro di sé la porta del balcone. Prese il pacchetto di sigarette e ne mise una in bocca. Mise nel giradischi il vinile di Eugenio Finardi “Acustica” e si sdraiò sul divano. Accese la sigaretta e si sedette a bere brandy e a fumare, con la melodia di ”Katia” che le faceva venire le lacrime agli occhi.
Sentiva la solitudine farla sprofondare nei cuscini del divano, mentre i pensieri turbinavano nella sua mente. Aveva ormai trentacinque anni, la sua carriera stava arrivando al termine, aveva seppellito sua madre quattro giorni fa ed era riuscita ad allontanare dalla sua vita l’unica persona che la amava. Tante notti di passione, tanti momenti di tenerezza, tanti sogni. Aveva buttato via tutto senza pensarci due volte. E ciò che la spaventava di più era che, se le fosse stata data una seconda possibilità, avrebbe fatto di nuovo la stessa cosa.
E perché? Perché non sopportava l’amore incondizionato. Questa maledizione l’aveva portata a prendere decisioni autodistruttive. Da allora aveva seppellito i suoi sentimenti, i suoi bisogni, i suoi appetiti. Si era trasformata in un simulacro, un’entità senza vita che rifugge da ogni tentazione, da ogni voglia di vivere e di piacere. Solo a piccoli piaceri immorali come a quello di questa mattina diceva di sì.
Si alzò dal divano e spense il giradischi. Versò quello che era rimasto del caffè di ieri in una tazza e la rabboccò con il resto del brandy. Mentre stava per entrare in bagno, sentì bussare alla porta d’ingresso. Perplessa, aprì e vide un corriere con una busta in mano.
“Signora Masini?”.
“Sì”, rispose lei esitante.
“Una firma per favore, è per lei”.
Si chiuse la porta alle spalle ed esaminò la busta. Era leggera e sembrava vuota, finché non sentì qualcosa di piccolo e duro sul fondo, come un sasso. Strappò il sigillo ed estrasse un pezzo di carta piegato della stessa marca di sigarette del pacchetto che stava fumando e un anello.
Immediatamente i suoi occhi si riempirono di lacrime e sentì il suo cuore sussultare. Sapeva da chi proveniva. Guardò fuori dalla finestra della porta d’ingresso verso la terrazza. Il corriere non c’era, non c’era nessuno fuori. Si sedette sul pavimento, posò l’anello accanto a sé e aprì il pezzo di carta.
Fontane del Seguro, Piazza del Mercato, Napoli
Domani sera
Andrea
Chiuse gli occhi e si appoggiò alla porta, scoppiando a piangere. Il passato bussava alla sua porta e lei voleva aprire e correre verso di lui. Ma come poteva? Aveva deciso: non avrebbe più vissuto al fianco di nessuno. Non si sarebbe permessa di vivere la vita di qualcun altro. Mai.
Ma questa lettera era qualcosa di diverso. Andrea non era solo una parte della sua vecchia vita, che aveva lasciato a prendere polvere, dimenticata in un cassetto da qualche parte. Era la sua vita, erano tutte le cose che ricordava e che la facevano piangere con una bottiglia di brandy tra le braccia in mattine come questa.
Si asciugò gli occhi e rilesse il messaggio sul pezzo di carta. Poi prese l’anello in mano e guardò il suo triste riflesso nella pietra che lo adornava. Non poteva più sopportare questa immagine di felicità perduta. Doveva sigillare la sua solitudine, e doveva farlo domani pomeriggio.
Trascorse la notte sulla terrazza, abbracciata dal freddo del Nord Italia e dalle stelle del cielo invernale. Il giradischi suonava incessantemente le canzoni di Lucio Dalla e lei non riusciva a smettere di bere una bottiglia di brandy dopo l’altra. Non riusciva a dormire, non riusciva a ubriacarsi. Non aveva freddo, non sentiva nulla. Aspettava solo che il sole spuntasse da dietro le montagne, per avere la conferma che era ora di partire. E così fu.
Con i primi raggi che illuminarono il cielo, iniziò a prepararsi. Fece il bagno, si vestì, bevve un caffè doppio e ne preparò un altro per il viaggio, si pettinò, si passò il mascara sugli occhi e un rossetto scuro sulle labbra secche e, con la borsa in mano, si mise davanti allo specchio. L’immagine triste di sé era scomparsa. Il suo posto era stato preso dal riflesso più evidente e imponente del suo carattere, quella crudeltà che dominava il suo essere. Un ritratto agghiacciante di una femminilità feroce ma fragile.
Il taxi la lasciò alla stazione di Milano, dove prese il treno per Napoli. Per tutto il viaggio non staccò mai gli occhi dal finestrino e dai paesaggi che passavano velocemente. La sua mente si era liberata dei pensieri. Era determinata, piena di fiducia, e non avrebbe permesso a nessun ripensamento di rovinare il suo umore. Non questa volta.
Non appena mise piede a Napoli, un altro vento le accarezzò il viso. Un’aura familiare, ma allo stesso tempo strana. Guardò l’orologio. Mancavano poche ore all’uscita di Andrea dal lavoro.
Camminò dalla stazione al molo. Ferraglia arrugginita e navi su cui picchiava la brezza marina di gennaio; aveva molto da ricordare di questa città. Rimase lì, fumando una sigaretta dopo l’altra, osservando con malinconia i colori del cielo che sfavillava sul mare, mentre il vento del sud portava con sé goccioline fredde dal porto. Non appena si fece sera, si avviò in salita verso la Piazza del Mercato.
Il traffico in città era intenso, perché era l’ora in cui la maggior parte dalla gente tornava a casa dopo un noioso mercoledì di lavoro. Raggiunta la piazza, sentì delle gocce di pioggia accarezzarle delicatamente il viso.
Alzò lo sguardo verso il cielo oscurato e vide nuvole nere che abbracciavano la luna fino a farla scomparire dal firmamento. Un soffitto nebuloso copriva la città e dalle sue crepe scendevano le lacrime della sera, bagnando i passi della gente.
Guardò di nuovo la piazza. La gente cominciò a disperdersi, aprendo gli ombrelli o usando buste e sacchetti per coprirsi la testa. “Non verrà”, pensò.
Frustrata da questo sporco gioco divino, si fermò sotto un capannone di ferro, osservando la pioggia trasformarsi da un momento all’altro in un temporale. Le timide gocce lasciavano il posto a un selvaggio e violento sferzare di vento e acqua che martellava tutto con furia. Mai prima di allora aveva visto una furia tale dal cielo, una furia che le ricordava che la vita ha sempre altri piani rispetto ai suoi.
Quella notte, seicentoquaranta tonnellate d’acqua caddero su Napoli. Ma insieme alla città, annegarono anche un piccolo fiore di speranza e di bontà che sembrava emergere timidamente dal ghiacciaio della sua anima. Era rimasta lì fino a tardi, aspettando, guardando i fiumi di pioggia che portavano con sé il suo cuore nelle fognature di una città che un tempo le aveva promesso così tante cose. E ancora una volta se le stava rimangiando.
Il giorno dopo, i titoli dei giornali parlavano di precipitazioni record degli ultimi anni. Citavano i danni causati dall’acquazzone, il numero di fulmini che si erano verificati e la tragica morte di una donna inghiottita da un capannone di ferro in rovina.