I racconti del Premio letterario Energheia

L’inverno dell’umanità, Ivan Palladino_Messina

Finalista Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione giovani

452 D.C. terzo mese di assedio di Aquileia

Il sole si era appena svegliato rispecchiando con i suo raggi sull’acqua del fiume Natissa. I

legionari sui torrioni tenevano gli archi e i pilum pronti all’uso. Schierato proprio di fronte

alla città Romana vi era l’imponente esercito di Attila, il valoroso condottiero Unno. Erano

ormai tre lunghi mesi che cingeva sotto assedio le massicce mura di Aquileia senza però

risultati favorevoli, quello sarebbe stato l’ultimo giorno, se ci fosse stato un miglioramento

avrebbe continuato l’assedio altrimenti avrebbe abbandonato la spedizione.

-Signore gli uomini sono pronti, aspettano solo il suo segnale.-Disse uno dei suoi generali.

-Attendete. Prima ho il bisogno di parlare con lo sciamano Fritgerno. – A queste parole il

generale annuì e di corsa andò a chiamare lo sciamano che risiedeva in una piccola

capanna solitaria avvolta dal fumo. Appena entrato nella capanna lo vide voltato di spalle

con i suoi lunghi capelli bianchi raccolti sotto un copricapo a forma di testa di orso:

– Fritgerno, sei desiderato nella tenda del nostro Re. –

Lo sciamano annuì e fece cenno di dargli una mano ad alzarsi, il generale si avvicinò, prese

la mano dello sciamano e lo tirò su con forza. Era un uomo anziano, con una barba raccolta

in delle treccine, un occhio coperto da una benda poiché era stato deturpato da una

bestia. Indossava un lungo abito tinto di rosso, come il sangue delle fiere che egli

sacrificava agli Dei. I due percorsero in fretta la strada che separava la capanna dello

sciamano da quella del Re, passando persino tra le fila dell’esercito dove alcuni soldati

erano ormai con il morale a terra dopo le numerose sconfitte subite in quei tre mesi.

Arrivati alla grande capanna il generale tornò tra i suoi uomini mentre lo sciamano entrò

nella tenda ove Attila aveva preparato tutto il necessario.

-Fritgerno, qui hai tutto, una piuma di corvo, una piuma di falco, il sangue di un cavallo, un

legno di quercia e un filo. Ora ti prego di portarmi buone notizie, oggi è il fatidico giorno.-

Lo sciamano prese la piuma del corvo e la tinse nel sangue del cavallo, poi prese il

ramoscello e lo legò con la piuma del falco. Rovesciò il sangue a terra e pronunciò delle

preghiere alla Dea madre, poi lanciò in aria la piuma di corvo e la piuma di falco. Il

momento fu pieno di attesa, ma alla fine il falco prevalse sul corvo, Attila guardò

sorridendo lo sciamano poi imbracciò spada e scudo e uscì dalla tenda gridando a

squarciagola. I soldati risposero battendo le loro armi sugli scudi, provocando un rumore

tale da far volare via tutti gli uccelli che dimoravano nel bosco dietro di loro. I Romani

erano impassibili, non si sentiva alcun rumore da parte loro. Attila colse il momento

favorevole per aizzare i suoi:

-Vedete soldati, i nostri nemici ci temono. Sanno già quello che riserveremo alle loro mogli

dopo ave raso al suolo queste quattro mura che li proteggono. Hanno paura della nostra

forza. Abbiamo gli Dei con noi niente e nessuno può fermarci!- Terminate queste parole un

frastuono aleggiò per pochi secondi sui guerrieri Unni, era come se un milione di api

ronzassero sopra di loro. Attila volse il suo sguardo verso l’alto e vide uno sciame di frecce,

non ebbe nemmeno il tempo di dare l’ordine di alzare gli scudi ai suoi che strali di legno e

ferro trafissero molti dei suoi uomini, d’un tratto lo sgomento si impadronì dei temibili

guerrieri dell’est. Attila era perplesso, gli Dei lo stavano abbandonando? Il Re non demorse

e ordinò ai suoi di proseguire la marcia verso le grandi mura di Aquileia. Dalla foresta

uscirono due grandi torri d’assedio costruite da legionari romani che erano stati fatti

prigionieri da Attila. Sul torrione più alto, insieme ad un gruppo di arcieri, vi era un uomo

con un elmo dorato che luccicava sotto i raggi del cocente sole di luglio e una lunga criniera

di cavallo bianca su di esso. I Romani rimanevano dietro le mura e si preparavano a

difendere il loro ultimo baluardo prima dell’ingresso degli Unni in Italia. L’esercito di Attila

marciava disordinatamente e così facendo metteva in difficoltà le guarnigioni difensive

romane, le quali non avevano dei bersagli fissi. Il Re degli Unni rimaneva dietro, insieme a

Fritgerno il quale lo rassicurava sulla buona sorte per il suo esercito. Nonostante le

rassicurazioni dello sciamano, Attila vedeva cadere i suoi uomini come dei birilli, ogni scala

appoggiata alle mura veniva brutalmente scagliata verso il suolo, La battaglia era un vero e

proprio massacro per gli Unni.

-Per tutti gli Dei Fritgerno, avevi detto che non avremmo avuto problemi nella vittoria,

eppure i Romani ci stanno massacrando come i lupi fanno con gli agnellini. Io, Attila,

Flagello di Dio, non posso accettare una tale umiliazione.-

– Sire…gli Dei sono con noi…- Fritgerno non ebbe nemmeno il tempo di terminare la frase

che un soldato di Attila lo trafisse con un pugnale facendolo morire sul colpo. Attila

guardava quel macabro spettacolo, i suoi uomini venivano trafitti dall’alto con le frecce e

chi di loro riusciva a salire dalle scale veniva brutalmente infilzato e gettato giù dalle mura.

Egli si inginocchiò verso il corpo ormai esanime del vecchio sciamano e, con le mani, prese

qualche goccia del sangue che sgorgava dal suo corpo, si rialzò e pian piano lo lasciò colare

sulla sua faccia, guardando il cielo e recitando qualche preghiera.

-Uomini, ritirata!- Gridò il Re con la faccia sporca di sangue, dopo per far udire il comando

a tutti fece cenno ad uno dei suoi di suonare il corno. Al suono di questo tutti batterono in

ritirata correndo velocemente in luoghi dove le frecce o le armi da lancio non potevano

raggiungerli. In mezzo a questo trambusto una freccia venne scagliata molto lontana, essa

raggiunse il Re degli Unni, sfiorando il suo braccio e facendolo sanguinare. Di colpo l’intero

accampamento si ammutolì, le uniche voci che si sentivano erano quelle dei Romani che

esultavano per aver sventato l’ennesima incursione barbara.

Attila era con il capo rivolto verso il basso e con la mano sinistra cercava di coprire la ferita,

attorno a lui si era creato un vero e proprio muro di scudi, che impediva a qualsiasi cosa di

penetrare. L’unico a cui fu permesso di entrare era lo stregone, Siktomir. Egli prese il Re di

peso e lo trascinò, scortato dai soldati, all’interno della tenda. Attila corrucciava la faccia

per il dolore ma questo non gli impediva di maledire il giorno in cui nacque il primo

Romano. Siktomir procedeva con la medicazione della piccola ma dolorosa ferita. Aveva

attorno ad essa due strati di una fascia ricavata dalla pelle di un cervo.

-Mio Re posso esserle utile in altro modo? Domandò Siktomir procedendo a ritroso verso

l’uscita della tenda regale.-

-Sì. Vai a chiamare i miei generali, dì loro che è una questione importante e di precipitarsi

qui il prima possibile.- Siktomir si inchinò davanti al Flagello di Dio e poi uscì dalla tenda.

Arrivò in quello che era il centro dell’accampamento dove erano riuniti tutti i soldati e i

generali che facevano la conta dei defunti e dei dispersi. Siktomir si avvicinò ad ognuno dei

generali e riferì ciò che gli era stato detto dal loro sovrano. Ognuno di loro fece cenno con

la testa di aver capito e cinque uomini di statura robusta si incamminarono con passo

sostenuto verso la tenda del loro Re.

Attila intanto giaceva dolorante sul suo letto e si rivolgeva agli Dei, domandando loro

perché si fossero presi gioco di lui e del suo popolo, promettendogli una vittoria che non è

arrivata. Di questo era rammaricato. Proprio quando ebbe finito di pregare la tenda si

mosse ed ecco che chinati davanti a lui c’erano i suoi generali più valorosi: Sigterico,

guerriero di origine germanica nonché suo uomo più fidato, Alminio, Ulrivh, Vallia e Aren. Il

sovrano li scrutava uno ad uno, quegli uomini erano con lui fin dalla sua ascesa. Uno ad

uno li invitò a sedere accanto a lui.

-Miei fidati generali, , penso che oggi abbiamo toccato il fondo. Siamo stati umiliati da un

popolo di pastorelli! Noi i temibili Unni! –pronunciando queste parole Attila era

vistosamente alterato. -Noi che abbiamo sottomesso tutte le tribù slave! Detto questo ho

deciso di chiudere qui la nostra spedizione in Italia, andremo via a mani vuote da una terra

tanto ricca. Ah! Che disgrazia! Pensare che Fritgerno aveva consultato gli Dei prima dello

scontro e loro erano con noi…o almeno così doveva essere. Domani alle prime luci dell’alba

partiremo verso est e faremo rientro nei nostri territori. Avete qualcosa da dire in merito a

questo? –dopo queste parole corrucciò il viso in una smorfia di dolore e si toccò la ferita.

-Sire, siamo ancora numericamente superiori rispetto ai Romani, ma tatticamente

dobbiamo cambiare qualcosa.- Disse Alminio.

-Sicuramente Alminio, peccato che i Romani stiano dietro quelle mura che nemmeno il più

forte dei giganti riuscirebbe a buttare giù. Replicò con voce forte Vallia.-

-Calma-intimò Attila-Mi fa piacere che voi abbiate delle idee contrastanti perché è su

questo che si basa un dibattito, peccato che qui non stiamo parlando di giochi di dadi, dove

se si perde si può ricominciare, qui stiamo giocando con delle vite. Guardate come sono

ridotto, sdraiato lungo un letto come un vecchio in fin di vita- a questa affermazione una

piccola risata uscì dalle bocche dei presenti- Potreste essere voi al mio posto e vi assicuro

che non è una bella sensazione. Però sempre meglio essere feriti che essere distesi morti

sotto le mura romane. Ormai è deciso, domani di mattina presto toglieremo

l’accampamento e partiremo.-

I presenti assentirono. Il Re ordinò loro di uscire dalla tenda tranne a Sigterico.

-Sigterico, mio fidato amico, con te mi sento al sicuro, libero di parlare. Parla anche tu con

me, lo vedevo che durante l’assemblea eri molto taciturno, non è da te. Suvvia amico,

cos’è che ti turba?-

-Mio signore, non sono turbato. Mi sento solamente umiliato nell’abbandonare questa

spedizione. Sono germanico dentro e questi porci hanno massacrato le mie genti. Non

posso dimenticare da dove vengo e chi sono i miei antenati. Mio signore, rispetto la sua

decisione di partire domani all’alba e non starò qui a contraddirla. Sono un suo generale e

mi limito a rispettare gli ordini che lei mi dà.-

Davanti a queste parole Attila rimase immobile e muto, non proferì parola. Fece cenno con

la testa di aver capito e mandò fuori dalla tenda pure lui. Sigterico si alzò, si inchinò davanti

al suo Re e uscì dalla tenda.

La luce aveva ormai lasciato spazio alle tenebre, le stelle si accendevano come lumi nelle

varie tende degli Unni. Aquileia e le sue mura diventavano ancora più imponenti con

l’avvento della notte. Attila stava disteso sul suo letto, l’intero accampamento aveva

ceduto alla forza del sonno. L’unico a rimanere sveglio era lui. Pregava e si lamentava con

gli Dei, faceva così da una giornata intera. Si sentiva abbandonato da loro.

La ferita gli provocava costante dolore, sentiva il suo braccio come se fosse pronto a

cadere da un momento all’altro. Decise allora di tornare nel luogo dove aveva ucciso il suo

sciamano, fece un movimento con il bacino e si alzò. Con passo lento e cadenzato

raggiunse il luogo dell’assassinio dove ancora giaceva il corpo del povero sciamano

circondato da qualche corvo. Attila li scacciò e si avvicinò, si chinò sul corpo esangue e ne

strappo un pezzo di carne, la morse e la sputò a terra rivolgendo lo sguardo verso l’alto. Poi

gettò la carne a terra e si tolse la benda dalla ferita. Riprese la carne e invocando gli Dei la

strofinò sopra lo squarcio. Questa bruciava però si sentiva sollevato dal fatto che le divinità

lo stessero ascoltando, lui lo sentiva. Rimise a posto la fascia, la strinse forte e tornò verso

la tenda.

Varcò la soglia e un brivido lo trapassò da parte a parte. Era una strana sensazione quella

che il Re aveva provato- Gli Dei sono entrati nella mia dimora, sono con me! – pensò Attila.

Si distese nuovamente sul letto e socchiuse gli occhi per poi abbandonarsi anche lui nelle

braccia di Morfeo.

Fuori c’era freddo, la temperatura si era abbassata e il Re iniziava a tremare tanto da

svegliarsi. Il risveglio fu traumatico. Sull’uscio della porta era ferma una figura alta e magra,

con abiti trasandati e laceri. Aveva un cappuccio che le copriva il volto, una falce lunga e

affilata nella mano destra e nella sinistra teneva una piccola clessidra.

Attila balzò di scatto e prendendo la spada disse:

-Chi sei?! Avanti fatti vedere! Non ho paura di te, Io sono At…

E proprio quando stava per finire questa frase la figura la completò con voce rauca

-Sei Attila, Re degli Unni, Flagello di Dio-disse avanzando verso il Re- ora tocca a me

presentarmi, sono Falce Nera, la Regina del Pianto. La morte, Attila, è venuta a prenderti.

-Come?! Non è possibile che sia giunto il mio momento, non è così!

-Qui si fa a modo mio-Rispose con tono deciso la Morte-oggi ti sei procurato una ferita che

per te potrebbe sembrare un nonnulla, ma io so che quella ferita potrebbe farti morire. Per

questo sono qua. Ah! Quante anime che mi hai portato oggi! Io però sono qua per la tua.

Attila sentiva mille voci nella sua testa, tutte che cantavano una preghiera Tengrista, la

Morte girava attorno al Re, il quale piano piano si inginocchiava. Sentiva la testa esplodere,

d’un tratto la Morte fu alle sue spalle e disse:

-è da codardi prendere la vita ad un Re che ha compiuto grandi imprese senza nemmeno

lottare, perciò voglio proporti una sfida. Domattina nel bosco dietro l’accampamento

voleranno un’aquila e un falco, lotteranno all’alba per noi, vincerà l’uccello che volerà più

in alto fino a che non arriverà mezzogiorno. Se il mio falco vince avrò la tua anima, se la tua

aquila vince, il tuo braccio tornerà come nuovo. Accetti Re degli unni?

-Si, accetto!

Allora la Morte tirò fuori la mano ossuta e la allungò verso quella del Re, che senza

esitazione la afferrò e la strinse forte.

La Morte si dissolse come fanno i sogni quando vengono interrotti, ma la mente di Attila

era frastornata da questi avvenimenti. La testa gli girava e poco dopo cadde a terra quasi

stordito.

L’alba giunse presto e l’accampamento veniva smontato dai soldati. Si udivano le voci

festose dei Romani che esultavano per la ritirata del nemico tra gestacci e umiliazioni.

C’era chi urinava dalle mura sui cadaveri degli Unni che avrebbero voluto di istinto salire

sulle mura e ammazzare quei Romani uno ad uno, ma subito venivano fermati dai generali.

L’accampamento era stato disfatto quasi del tutto , mancava solo la tenda reale che non

era stata smontata in quanto Attila era ancora dentro. Nessun uomo osava entrarci,

nemmeno Sigterico. Al di fuori della tenda non si muoveva nessuno, tutti attendevano

l’uscita di Attila.

Ad un tratto, nel tombale silenzio il suono di stivali che calpestavano il terreno disturbò

tutti, era Attila, vestito di tutto punto. Aveva un copricapo di ferro pregiato, degli stivali alti

di pelle di renna, un vestito anch’esso di renna e una maglia ferrata che copriva l’intero

busto. I soldati lo ammiravano come fosse un Dio.

-Soldati, oggi non ci sposteremo da qua prima di mezzogiorno. Ho una scommessa da

vincere.

A queste parole i soldati si guardarono gli uni gli altri con aria perplessa, nessuno sapeva di

quella scommessa. Nel frattempo Attila si incamminò verso il bosco, nessuno osò seguirlo,

nemmeno i suoi generali.

La Morte era lì che lo aspettava, accanto a se aveva un’ aquila e un falco, i due animali che

avrebbero gareggiato quel giorno di luglio.

-Finalmente sei arrivato Re degli Unni. Non attendevo altro-

-lasceremo decidere la nostra sorte a questi due uccelli: disse Attila.

Attila era visibilmente spaventato, lo si evinceva dai suoi occhi persi nel vuoto. La Morte

prese i due volatili, e li lanciò verso l’alto dicendo:

-Volate, e decretate il vincitore!

I due uccelli si levarono nell’ampio cielo azzurro che sovrastava la regione settentrionale

dell’Italia. Il falco della Morte era bellissimo, aveva le piume marroni che si facevano strada

in tutto il corpo, un becco nero come il carbone e due occhi neri profondi come l’abisso.

Anche l’aquila di Attila, era maestosa. Aveva il corpo piumato di marrone con qualche

tocco di giallo che compariva di rado, il capo ricoperto di piume bianche come gli abiti delle

antiche vestali, il becco giallo come il sole del mezzogiorno ed uno sguardo penetrante

come quello di una donna intenta a sedurre un uomo.

La gara era cominciata e alle strida emesse dai due volatili, tutti gli Unni alzarono la testa

per ammirarne lo spettacolo. I Romani, che nel frattempo aspettavano la partenza dei

Barbari, ammirarono l’aquila, segno dell’impero, levarsi alta nel cielo. Il generale Fabius

Lupercus interpretò questo come un segnale a favore di Roma e, nonostante fosse un

fervido cristiano cattolico, diede il segnale alle legioni di prepararsi e di attaccare il nemico.

Attila e la Morte erano in piedi ad osservare i due volatili battersi in una gara avvincente,

quando ad un tratto quel silenzio che sembrava dominare la dolce vallata Friulana venne

interrotto da un suono macchinoso, un cigolio. Tutti gli Unni si voltarono verso il luogo dal

quale sembrava provenisse il rumore, e con stupore di tutti videro gli imponenti portoni di

Aquileia aprirsi e uscire dalla cittadella tre legioni ben armate e assetate di sangue. Attila

era immerso in quel bosco ameno che provocava in lui un senso di benessere, nonostante

stesse vicino alla Morte e stesse gareggiando per la sua vita. Gli Unni imbracciarono le armi

e gli scudi e comandati dai generali assunsero una sorta di formazione difensiva.

I Romani si lanciarono come fossero loro i barbari e gli Unni si difendevano come se

fossero loro i romani, le parti si erano invertite. Attila guardò oltre gli alberi del bosco e

intravide quello che stava accadendo, ma non poteva abbandonare la scommessa perciò

rimase.

-Attila, dimmi di te. Cosa ti manca ormai sulla terra? Perché non vuoi venire via con me?

Posso portarti via nel tempo, verso mondi a te sconosciuti. In fin dei conti io son pure bella,

la compagna per te.

-Morte, nel tuo castello non c’è oro, motivo per cui vago su questa terra. Non voglio

entrare nella tua macabra corte o nel giardino dove dimorano tutti i grandi eroi. La nostra

sorte verrà decisa dall’aquila e dal falco. In fondo io ti conosco da sempre e so che dentro

di te non c’è sangue, tu puoi falciarmi, ma io non ti amerò mai. Nel frattempo l’aquila e il

falco volavano fianco a fianco sempre più in alto, sempre di più.

I Romani e gli Unni si affrontavano senza esclusione di colpi e dopo poco tempo il generale

Vallia era caduto sotto i colpi romani. I due eserciti si equivalevano al momento, ma gli

Unni erano stati colti di sorpresa e perciò erano penalizzati. Il mezzogiorno era giunto e

allora l’aquila e il falco fecero ritorno; il primo che sarebbe arrivato a toccare il suolo

avrebbe vinto. I due volarono accanto come fratelli e nessun vento li separò. L’aquila aprì

le ali maestosamente e si impose sul falco che in picchiata era molto più lento rispetto

all’uccello di Attila. L’aquila chiuse le ali e cadde in picchiata raggiungendo il falco e

superandolo e atterrando per prima.

-Hai vinto Re degli Unni. Disse la Morte- le promesse io le mantengo, prenditi altro tempo,

tanto prima o poi ti avrò. Così dicendo la Morte toccò con la falce il braccio ferito di Attila

che guarì all’istante.

-Morte, non cresce più l’erba dove passo io, ma sono il padre della mia gente, e li condurrò

verso un futuro felice. Non voglio morire in battaglia, né per veleno o per carestia, ma

voglio spegnermi tra le braccia di una donna con una coppa di vino tra le mani. Così voglio

morire. Ma di tempo ne avrò! Io e te ci rivedremo, senza dubbio. Pazienta, Morte. Ora

vado a compiere il mio destino di condottiero, sento che gli Dei sono con me. La Morte

sparì sogghignando e borbottando qualcosa, Attila invece congedò l’aquila-Vola in alto,

sempre di più, va dalla steppa ai ghiacci del nord, prima o poi ci rivedremo- dette queste

parole la liberò e la lasciò volare verso mete sconosciute. Entrò nella sua tenda, prese la

sua spada e il suo scudo e si diresse verso la testa del suo esercito. Arrivato dietro i suoi

,vide che i Romani li sovrastavano:

-Unni, con me! A questo grido risposero all’unisono ventiduemila voci che avanzarono

seguendo il loro Re. I Romani erano sbigottiti. Attila volse lo sguardo verso il cielo e udì le

strida della sua aquila, gli Dei stavolta erano veramente con lui. I Romani cadevano uno ad

uno ai colpi di spada degli Unni, nessuno poteva resistere. Nel frattempo dai torrioni gli

arcieri scoccavano le loro frecce facendo cilecca quasi sempre. Stavolta gli Unni erano

inarrestabili. Attila sentiva un vigore in corpo che non aveva mai provato. Uccideva i nemici

con una facilità disarmante e i suoi soldati non erano da meno. In poco tempo giunsero

dall’accampamento alle porte di Aquileia, nemmeno gli arcieri riuscirono a fermare la loro

temibile avanzata. Le tre legioni furono interamente distrutte e le porte di Aquileia erano

messe sotto assedio. Nonostante gli Unni fossero sottoposti al costante lancio di pietre da

parte dei Romani continuavano incessantemente a tormentare le mura con colpi di spade,

scudi e pietre. Passarono due lunghe ore prima che le mura venissero violate, ma

finalmente Attila e i suoi entrarono ad Aquileia. Ad aspettarli vi era una guarnigione di

poco più di quattromila uomini che gli Unni sbaragliarono. Adesso non c’era più nulla che

potesse fermarli.

Diedero fuoco a tutto, uccisero donne e bambini, presero come schiavi tutti gli uomini e

squartarono vivo il generale Lupercus ed esposero il suo corpo smembrato lungo tutte le

mura. La crudeltà e la sete di sangue di Attila era stata per il momento soddisfatta. La

presa di Aquileia lo aveva appagato, ma soprattutto lo aveva affermato, rendendolo uno

degli uomini più influenti della storia.

Dopo questa decisiva vittoria Attila si diresse verso Padova, dove saccheggiò l’intera città

per poi stanziarsi nel palazzo imperiale di Milano. Qui ebbe modo di modificare un dipinto

raffigurante i Cesari e i principi sciti, in un dipinto in cui i gli imperatori romani versavano

sacche d’oro davanti allo stesso Attila.

Il resto è storia…

(liberamente tratto dalla canzone l’aquila e il falco dei Pooh)