La casa dalle finestre di cielo_Massimo Franco Maso, Dolo(VE)
_Racconto finalista settima edizione Premio Energheia 2001.
… ovvero una breve storia alchemica di cose immaginate e vere allo stesso tempo
Marco se ne stava seduto, sconsolato, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e il capo chino a guardarsi le scarpe.
Mugugnava, tamburellava, sbuffava. Di tanto in tanto, inarcando le sopracciglia, allungava lo sguardo all’altro capo della stanza, ma gli bastava distinguere la banda cremisi del carabiniere per ritornare con gli occhi alle scarpe. La sua non era paura, solo vergogna.
Prima lontani ed indistinti, poi sempre più vicini e decisi…
Marco conosceva quei passi, conosceva quelle scarpe, conosceva le scarpe di tutti là dentro; quelle del maresciallo, risuolate e smunte… quelle dell’appuntato, lucide e strette da leggergli tutti i calli… e quelle “mezzetacchi” asciutte di sua nuora… Ada, meticolosa e perbenista baciapile.
“Di nuovo!… Alla tua età!… Ma non ti riesce di provare vergogna?… Non pensi alla mamma?… Cos’ha combinato di preciso stavolta Maresciallo?”
“Il solito… Ubriachezza molesta… ma non è stata redatta denuncia. Certo bisogna far qualcosa. Non sono tutti così comprensivi.”
Seguì un lungo silenzio e Marco sentì addosso gli occhi di tutti i presenti. Accadeva quasi ogni sabato sera. Da quando aveva lasciato il lavoro per quella storia dell’esaurimento… stress, come dicevano i medici, stress ed incompatibilità di carattere.
Marco era sempre stato un sognatore, uno con la testa per aria, sempre disposto a scherzare su tutto… ma in quell’ufficio… con quei colleghi!
Scelse il prepensionamento pensando di poter cominciare una nuova vita, una vita senza regole, orari, obblighi da rispettare, ma le cose andarono diversamente. La nuova attività partì male e finì peggio; quelli come lui non sono fatti per fare i soldi. Debiti su debiti… e la vergogna di dover elemosinare il suo vecchio posto di lavoro… Ormai aveva fatto il callo alle battute dei compagni, ai loro riferimenti ironici; faceva finta di non capire e di non sentire, ma a casa…
… “Non pensi alla mamma?”… Elvira, la moglie, lo trattava peggio di tutti, lo considerava un fallito, unicamente capace di perdere tempo dietro alla sua collezione di francobolli. Non gli aveva mai perdonato il fatto di aver preferito le sue “passioni” alla “carriera”. Sei giorni dentro a quel supplizio: la mattina in ufficio, il pomeriggio e la sera a casa.
Così il sabato sera se ne fuggiva via, lontano da tutta quella nauseabonda normalità.
Prendeva il “nove barrato” e scendeva in periferia, per infilarsi in uno di quei bar con i tavoli di formica verde e i flipper maltrattati da ragazzi svogliati e fumati. Trovava sempre qualcuno disposto ad ascoltare le sue storie, i suoi progetti.
Prima un bicchiere di rosso, poi l’aperitivo, il birrino…
I suoi progetti diventavano sempre più grandi, impossibili… con le mani disegnava faraoniche strutture consistenti quanto il nulla di una nube. Poi le parole cominciavano ad impastarsi, i gesti diventavano faticosi, pesanti e il vino gli pareva acqua.
I primi a schernirlo erano i ragazzetti dei flipper, poi i bulletti prendevano in mano la situazione e finiva a spintoni e sgambetti. Marco reagiva e arrivavano i Carabinieri perché… “quelli come lui non sanno stare agli scherzi, quando sono bevuti”… Anche stavolta era finita così.
La cosa non ebbe il seguito che pareva; il maresciallo gli strappò la promessa che non avrebbe mai più messo piede in quel bar… e nemmeno negli altri. Ada, la nuora rinsecchita e acida, aveva esaurito tutto il suo repertorio e si limitò a non rivolgergli la parola per tutto il viaggio. Elvira?… Un cuscino e una coperta sul divano valevano mille discorsi. Tutto sommato, non gli dispiaceva dormire in soggiorno assieme al gatto; si alzava quando voleva, non sentiva russare Elvira e poteva leggere fino a tardi con la luce accesa. Gli mancava solo la capatina del sabato, ma aveva dato la sua parola.
Una sera gli venne meno la volontà e sgattaiolò fuori di casa.
Il Bar Sport di Gemma era giusto davanti l’ultima fermata del “nove barrato”, ma non aveva un soldo in tasca… una precauzione suggerita ad Elvira dalla nuora.
Marco non era tipo da lasciare debiti o battere credito; pentito della sortita decise di rientrare a piedi. Gli capitò così di passare davanti ad un vecchio edificio, un palazzotto signorile di fine ottocento, del quale restava in piedi solo la facciata puntellata, tutt’intorno calcinacci ed erba alta. Dall’altra parte della strada, a ridosso di uno scalcinato parco giochi, c’era una delle tante fermate del “51”… e una panchina verniciata di fresco. Guardò l’orologio… quasi le dieci; alle undici sarebbe passata l’ultima corsa. Era stanco di camminare.
Sbuffò e raggiunse la panchina della fermata. Avesse avuto con se un libro quell’ora gli sarebbe volata. Si rassegnò alla lunga attesa e provò ad ingannare il tempo guardando le stelle attraverso le finestre e le porte dell’edificio diroccato… e pensava…
“Chissà chi ci abitava!… Chissà com’era quando quella “maschera” di mattoni aveva finestre, porte e tende…”
“Già!… Chissà com’era quando quelle “occhiaie”vuote avevano vetri e tende?… Scommetto che se lo sta chiedendo anche lei, non è così?”
Marco trasalì spaventato; incantato a guardare le stelle non si era accorto che qualcun altro aveva occupato l’altra metà della panchina. Di chi era quell’acerba voce che spogliava i suoi pensieri?…
“Oh… mi scusi, non intendevo spaventarla… Era giusto per scambiare una parola, per far passare il tempo più velocemente. Mi capita spesso di perdere l’autobus… allora mi siedo a guardare la casa dalle finestre di cielo… io la chiamo così.”
Due occhi dolci, sorridenti, incorniciati da un paio di occhialetti civettuoli… poi, com’era uso fare di solito, Marco buttò gli occhi ai piedi… scarpette di vernice nera, fibbiate di lato, terminavano graziosamente un paio gambe dall’aria nervosa e irriverente. Non osò scivolare con lo sguardo oltre le ginocchia temendo di recare disagio alla ragazza. Ritornò a incrociare gli occhi della giovane e ruppe il silenzio…
“… la casa dalle finestre di cielo!… Mi piace.”
“Davvero?… Certe volte mi lascio trasportare dalla fantasia e mi ritrovo dentro a quella casa… vestita come una dama dell’altro secolo… Immagino feste, cene, ricevimenti, balli, Champagne… A volte sono talmente presa da quei sogni ad occhi aperti che lascio partire l’autobus e me ne devo ritornare a casa facendo l’autostop… Oh, mi scusi, troverà certamente ridicole queste cose…”
“No, no…affatto signorina – si affrettò Marco – non tema… anch’io m’incanto a fantasticare ad occhi aperti di tanto in tanto… giusto come lei signorina… signorina!…”
“Mi chiamo Emma… e!…”
“…io Marco, mi chiamo Marco…”
Una leggera stretta di mano unì due sorrisi diversi, ma in qualche modo simili. Emma continuava a parlare, a raccontare della sua immaginaria vita dentro alla casa dalle finestre di cielo, con tanto e tale trasporto che pareva cosa vera, vissuta chissà quando. Marco ascoltava, totalmente estasiato dalla vivacità di quella voce gentile e per quanti sforzi facesse non riusciva a staccare gli occhi da quella radiosa e garbata creatura.
Il “51” arrivò puntuale…
–“Beh… questo è il mio. Buonasera signor Marco…”
Marco rispose con un cenno della mano; soffocò un sospiro nel vedere le calze di tulle inghiottite dalla sbuffante bocca di quel mostro giallo.
Il “nove barrato” lo vomitò sotto casa che manco si era accorto d’averlo preso e d’averci viaggiato sopra. Per lui il tempo si era fermato a riposare su quella panchina, davanti alla casa dalle finestre di cielo.
Passò la domenica fissando l’azzurro attraverso la finestra, impegnato a ricucire fotogramma per fotogramma, quell’insolito, straordinario incontro; non annaffiò il giardino, non riordinò i francobolli, non accese la televisione… fissò semplicemente il cielo. Andava e veniva da una stanza all’altra della casa senza un preciso motivo. Elvira, il figlio, la nuora… erano solo voci indistinte e fastidiose… quotidiani rumori.
Casa, lavoro… lavoro, casa… la settimana trascorse con una lentezza insopportabile, il sabato poi… gli parve una crudele agonia. La sera arrivò come una liberazione; seguì il suo istinto, quella voce misteriosa che lo tormentava… Uscì di casa, alle otto in punto, prese il “nove barrato” e tornò a sedere sulla panchina di fronte alla casa dalle finestre di cielo.
Seduto, incurante della gente che passava, in cuor suo provò di tutto: imbarazzo, rimorso, pentimento, vergogna… ma su tutto prevaleva un pensiero… l’improbabile, remota speranza di rivedere Emma. Sette giorni trascorsi a fissare nella mente un’infinità di particolari… i suoi capelli, le dita sottili, le caviglie affusolate… maggiormente i profondi occhi scuri, dolci e umidi… ancor di più il suo sorriso.
C’era qualcosa in quella ragazza che catturava e coinvolgeva tutti i suoi sensi… qualcosa di disarmante, di buono, che gli faceva battere forte il cuore. Scese la sera… una calda sera primaverile, profumata di gelsomino… e Marco si stupì del fatto che una dolorosa nostalgia gli serrava il respiro in petto. Qualcosa del genere l’aveva già provato, tanti anni prima… venti, forse trenta. Lentamente le finestre della casa diroccata si tinsero di indaco, poi di cobalto e infine lumeggiarono di stelle. La via era deserta e sul marciapiede non si sentivano più i passi della gente. Marco intristì, si guardò in giro sconsolato e infilò le mani in tasca. Ci trovò un biglietto da diecimila stropicciato, sfuggito Dio sa come alle perquisizioni di Elvira.
“… una bottiglia vien fuori…” –, pensò Marco – “… forse due…”
“Se non ha il biglietto posso prestargliene uno io… la tratta è la stessa credo… Certo se non si offende!”
Poche parole sciorinate in un solo respiro… lo stesso effetto di una mano ghiacciata sul collo. Socchiuse appena gli occhi, questione di un istante… forse un accenno di preghiera, di ringraziamento. Avrebbe voluto dire tante cose, comportarsi come se nulla fosse, ma la gioia di risentire quella dolcissima voce era tanta da ricacciargli in gola ogni possibile e comprensibile suono; deglutì una, due… tre volte, poi esordì…
“Oh… che sorpresa signorina… pensi … passavo di qui per caso… ho di nuovo perso l’autobus e… e…”
“Non lo dica a me… Io lo perdo ogni sabato sera. Manco farlo apposta… il Professore trova sempre un ultima cosa da farmi fare prima di uscire… e finisce che arrivo tardi alla fermata.”
“Il Professore?… E’ una studentessa?…”
“No, no… sono assistente universitaria… Devo farmi le ossa e così… Ma lei?… Diceva che passava di qui per caso… lavora o abita nelle vicinanze?”
“No… cioè, sì… A dire il vero, beh…”
… e gli sfuggì dalle labbra quello che non avrebbe mai voluto dire…
“… Vede Signorina… le ho mentito. Non me n’abbia, la prego… Non passavo di qui per caso… Ci sono venuto apposta… Speravo di risentire la sua voce e di rivedere il suo bel sorriso… Mi scusi, non dovevo… Mi creda, mi dispiace…”
Subito dopo Marco arrossì, s’irrigidì, pronto a scattare in piedi e scappare via, convinto d’avere osato più del lecito.
Emma si preoccupò subito di tranquillizzare Marco; gli prese la mano fra le sue…
“Beh… non ci vedo nulla di male… E se la mia voce e il mio sorriso riescono a donarle un po’ di gioia… di cosa dovrei dispiacermi?… Eh?”
Marco rispose con un imbarazzato silenzio che Emma si sbrigò a dissipare…
“Devo prendere quello delle undici e venti, non ho altra scelta. Poiché su questa panchina ci dovremo passare un bel po’ di tempo… non crede… non credi che potremmo darci del tu, Marco?”
“Per me va bene… Emma.”
In quel preciso istante Marco si sentiva l’uomo più felice su tutta la terra. A rompere il ghiaccio ci pensò Emma, che in quanto a loquacità non aveva rivali. Parlarono di tante cose, di tutto, di nulla… Soprattutto parlarono della casa dalle finestre di cielo. Marco fu trascinato da Emma dentro un mondo immaginario, di fiaba… dove il valzer e le piume di struzzo si sprecavano. In quella tiepida e profumata sera di primavera si lasciò guidare nel gioco complice, infantile di una ragazza che pareva uscita dalle pagine di un romanzo inglese, di fine ottocento. Non parlava… ascoltava, ogni tanto annuiva, certamente sognava di perdersi in quegli occhi profondi e umidi… e si sentiva il cuore così leggero. Emma sapeva compiere prodigi, sapeva ritagliare una bolla preziosa di spazio e lasciare fuori dalla sua fantasia tutto il resto del mondo. Due rumorosi bagliori e un clacson straziante ruppero l’incanto…
“Ciao… Devo andare, se perdo questo!…”
Marco la richiamò che già stava salendo sul predellino.
“Se sabato prossimo passo di qui per caso… Ci sarai?…”
Emma sorrise…
“Forse… non so… dipende dal Professore… Ma capiterà!”
Marco rientrò che le tre erano passate da un bel pezzo.
Aveva camminato per ore, felice di poter assaporare tutta la dolcezza di quella straordinaria notte di primavera. Ad attenderlo, sul piede di guerra, Ada, Elvira e quel povero “lacchè” di Arturo… suo figlio.
“Mbè!… Che ore sono queste?… Ci sono delle regole in questa casa… Dove sei andato ad ubriacarti?… Eravamo in pensiero, cosa credi?… Ma se non eri in caserma dai Carabinieri, dov’eri finito?… E dove…”
Ma Marco non li vide e neppure li sentì; si distese sul divano, ignorando tutto quello che stava fuori dei suoi pensieri e si addormentò accarezzando il gatto… si addormentò accarezzando un sogno. Sette giorni passati come sette istanti. Si ritrovò seduto sulla panchina di fronte alla casa dalle finestre di cielo, con la stessa ansia, gli stessi timori e tante emozioni da riempire la tavolozza del più esigente pittore. Il “51” sfiatò, serrò le porte e ripartì… senza di lei.
Marco ringraziò Dio… una speranza c’era!
E ringraziò ancora, allorché Emma comparve da dietro l’angolo, giusto un paio di minuti dopo, col suo passo deciso, ma tranquillo… Come in un vecchio film gli pareva di aver già vissuto almeno cento volte quell’incontro…
“Buonasera Marco… E’ andato anche stavolta.”
… disse Emma sfoggiando uno dei suoi radiosi sorrisi.
“Colpa del Professore?…Cosa si è inventato stavolta per farti perdere l’autobus?”
“Oh no… il Professore non c’entra nulla… L’ho perso di proposito. Sapevo di trovarti e… non mi andava di saperti qui ad aspettare per nulla.”
Marco si sentì lusingato.
“… e poi è una così bella serata… non trovi? Guarda la nostra casa… gli ultimi bagliori di luce… qualcuno ha messo delle tende rosse… forse daranno una festa, magari un ballo in maschera…”
… e il gioco ricominciava, dolcemente. Era come un tuffo nel passato più geloso della sua infanzia. Come l’aveva chiamata?…
La “nostra casa”… Emma possedeva la chiave per liberare i ricordi più belli, le emozioni sopite, colori, odori… morsi di affetti cancellati.
Sabato dopo sabato, incontro dopo incontro… per diventare amici basta condividere una fantasia… un segreto, magari basta immaginare quello che sta’ dietro ad un muro e a delle finestre vuote. Emma parlava, raccontava, disegnava con gli occhi i suoi sogni… Marco ascoltava, estasiato, stregato da quel suo misurato, discreto e misterioso fascino; si lasciava carezzare da quella voce vellutata, così sottile e armonica.
Sabato dopo sabato, incontro dopo incontro… Le scuse non servirono più e la panchina divenne l’appuntamento fisso di due buoni amici. A Marco piaceva credere che la casa
celasse un mistero… che ci fosse qualcosa di magico fra quelle quattro mura fatiscenti, qualcosa che aveva a che fare con Emma e con quella loro particolare amicizia. In effetti qualcosa di strano stava succedendo… La casa dalle finestre di cielo pareva nutrirsi delle loro fantasie, così che aveva ripreso a vivere, come diceva Emma… e i gelsomini avevano cominciato ad invadere e conquistare ogni anfratto, ogni pietra, ogni angolo, vestendo di un bianco velo da sposa la vecchia casa. Certe volte Emma aveva l’impressione che la casa partecipasse al loro gioco; così accadde, sul finire di maggio, che una stella cadente tracciasse la sua effimera vita attraverso la finestra più alta mentre le lucciole, in basso, parevano soffuse candele portate avanti e indietro da maldestri camerieri…
“Guarda…” –, diceva allora Emma – “… stanno danzando al lume di candela.”
Le sere tiepide e profumate della primavera lasciarono il posto alle prime afose notti dell’estate e sabato dopo sabato i vestiti di Emma erano sempre più leggeri e più corti. Marco che ormai viveva solo in funzione di quella manciata di minuti, trovò modo di ingannare il tempo fra un incontro e l’altro…
“Tieni… è per te Emma!”
“Cos’è?…”
“Oh, nulla… solo poche righe dedicate…”
… e diventava rosso, ma Emma faceva finta di nulla. Apriva la busta, leggeva… sorrideva…
“Grazie… mi piace.”
Forse gli piaceva davvero, forse lo diceva per pura cortesia, ma che importava… quella “gentile bugia” era sua… solo sua. Una poesia, una filastrocca, una storia… Amava scrivere di Emma, per Emma, gli rendeva sopportabile la lontananza.
Un altro sabato, un altro incontro, una fiaba più dolce delle altre… un gesto imprevisto. Quel bacio sulla guancia, affettuoso, profumato di rossetto… una confidenza inaspettata, ma ancor di più quella carezza col rovescio della mano. Certi gesti possono significare poco per l’uno e molto per l’altro, ma la complicità che ne deriva sancisce un legame forte, di cuore e di pelle.
Altri sabati, altri incontri… altri sogni consumati dentro ai saloni della casa dalle finestre di cielo, sempre più vivi, sempre più veri. Bastava una stella più luminosa ad accendere una nuova storia… ed Emma era la prima a sciogliere la fantasia…
“Ma tu guarda la baronessa che fa il filo al tenentino… Me la sento, sì… me la sento che finisce a duello, il marchese non è tipo da lasciare…”
Poi, una sera, l’ultima di luglio, successe qualcosa di strano, di veramente strano. Il cielo non era mai stato così limpido, stellato, illuminato da una grassa, metallica luna. Emma, per rendere più divertente e credibile il gioco, aveva invitato Marco ad un accenno di danza, pochi passi di valzer e un paio di volteggi… nulla che potesse giustificare la violenta vertigine che li colse… una luce forte, bianca, violentissima… un lampo. Marco tornò rapidamente a sedere temendo un malore.
Chiuse e riaprì gli occhi rapidamente nel tentativo di recuperare un minimo di equilibrio; anche Emma, vicino a lui, pareva segnata in viso dallo stesso fastidio, ma reagì prontamente…
“Cos’è successo Marco?…Ti senti male?
“No, no… anche se non saprei descrivere… Ma no… non capiresti…!”
“Non capirei cosa?… Che per un istante… per una frazione di secondo… ti è passata davanti agli occhi un’ intera esistenza?”
Marco le sgranò addosso due occhi, sbalorditi…
“Ho indovinato?… Dimmi se sbaglio!… In un solo secondo hai vissuto un’esistenza che non è la tua, hai provato sensazioni che non sono le tue… hai vestito una pelle
che non è la tua e abbracciato una donna che sai di conoscere, ma che non hai mai visto…Non è così?”
“Come… come fai a sapere che…” – balbettò Marco –
“…E’ vero, è stato un istante, una luminosa breccia nel tempo… un pezzo di vita che credo di aver già vissuto… ma molto, molto tempo fa… eppure pare ieri… Non mi riesce di spiegare bene la cosa. Ballavo… Ballavo con te, ma non eri tu… e io non ero quello che sono adesso…”
“Hai semplicemente subito un… N.L.T… un disallineamento temporale, è una sigla inglese, quello che molti chiamano flash-back… o anche time-back-lash…”
Oh… Buon Dio!”
“Tranquillo… non è nulla! Abbiamo semplicemente viaggiato nel tempo, magari all’indietro… O forse quello che siamo adesso è la proiezione temporale di una nostra copia che vive un altro tempo. Diciamo che potremmo essere un N.L.T. di quelle copie… Di più non saprei dire”
“Abbiamo viaggiato?… Hai detto abbiamo viaggiato?… Le nostre copie?…”
“Uhm-umh, proprio così!… E’ successo anche a me, nello stesso momento.”
Marco ed Emma si guardarono in silenzio, complicemente… poi guardarono la casa. Allora Emma, con un disarmante sorriso, portò l’indice alle labbra e aggiunse…
“Shsss… Non ne far parola con nessuno… Non capirebbero.
Sarà il nostro segreto. Sai… credo veramente che quella casa racchiuda qualche mistero e credo anche che abbia a che fare con questa nostra magica amicizia… Sigilliamo questo segreto?”
“Eh?… Ah sì, sì, ma come…”
Marco non ebbe il tempo di finire la frase; fu prontamente zittito dalle fredde labbra di Emma che si poggiarono sulle sue. Quando il “51” si allontanò stava ancora assaporando quel lieve bacio, col cuore in gola, e non ricordava nulla, assolutamente nulla di quello che era successo prima, dopo… in mezzo. Non camminò verso casa… volò! Non dormì… vide e rivide ad occhi aperti quel bacio almeno mille volte. Gli venne naturale pensare che tutta la sua vita, per quanto inutile, poteva trovare un senso e una ragione in quel piccolo, breve tocco di labbra. Sabato dopo sabato… gli incontri si fecero sempre più dolci e confidenziali; Emma raccontava di sé, delle sue insicurezze, dei suoi problemi… parole, parole… che cadevano dalla sua rossa bocca come fresche perle di rugiada. Dal canto suo Marco spalancò la porta a sogni che credeva di non possedere più, condivise con Emma idee e progetti… che e non gli pareva vero d’essere ascoltato con tanto interesse.
Sono sogni, le notti di mezz’estate… sogni che durano il tempo di una carezza, di un malinconico sguardo d’inconfessato amore… e d’estate la luce arriva presto a dissiparli, crudelmente. Un altro sabato, un altro incontro… diverso.
“Marco… sai che notte è questa?”
“Uhm!…”
“San Lorenzo… E’ la notte di San Lorenzo! La notte delle stelle cadenti… Chissà quanti desideri custodisce gelosamente la nostra casa… Di chi erano? A chi erano destinati?…
Dobbiamo essere pronti… e veloci. Se vediamo una scia luminosa… Io ho un desiderio e tu?…”
“Io?… Sì!”
Giusto in quel momento una lama bianca graffiò il cielo…
“Eccola!… L’ho pensato… si, si, si… ci sono riuscita!
Ho espresso il mio desiderio in tempo… E tu?… Marco!…”
Marco non rispose, ma Emma sentì i suoi occhi addosso… sui capelli, sulle labbra… la sensazione di un desiderio. Rabbrividì e volse il capo ad incontrare gli occhi di Marco in un lungo e silenzioso dialogo. Si possono dire tante cose con gli occhi, si possono dire cose che nessuna parola può descrivere… si può confessare un amore struggente senza arrossire… si può dire “no” senza ferire… Occhi umidi e dolci, sulle ali di un gentile sorriso, possono stringersi in un caldo, infinito abbraccio. L’estate di Marco finì la notte di San Lorenzo, quando i fanali del “51” tagliarono il buio e illuminarono la casa dalle finestre di cielo. Prima di salire sull’autobus Emma prese le mani di Marco fra le sue, dolcemente, affettuosamente…
“Tempo e amore non vanno mai d’accordo… ma i sogni sopravvivono al tempo. Ricorda il nostro segreto… i sogni sono anime senza tempo… e nel tempo si può viaggiare.”
Allorché il “51” serrò la sua bocca meccanica Marco si sentì strappare via qualcosa dal petto. A pochi secondi dalla partenza Emma era corsa in coda all’autobus e dal finestrino mimò dei gesti che Marco non comprese, anzi… li scambiò per un saluto. Il cammino verso casa fu una tempestosa odissea fra rimorsi, rimpianti, pentimenti. Una settimana insonne precedette un sabato grigio e nuvoloso. I gelsomini avevano smesso di fiorire e la casa dalle finestre di cielo era tornata spoglia e triste. Emma non si presentò all’appuntamento e Marco maledì con quanta rabbia aveva in corpo quel desiderio rubato alla notte di San Lorenzo, maledì quel bacio sognato con tanta forza.
S’avvilì e pianse per notti intere. Non si dava pace d’aver perso l’unica cosa preziosa che la vita gli aveva riservato, d’aver portato turbamento e sofferenza a quegli occhi profondi, ma soprattutto gli era insopportabile l’idea di non vedere più quelle sottili, rosse labbra sorridenti. Pensò a quanto crudeli e dolorose possono essere le leggi del cuore… più crudeli e dolorose del male stesso.
Marco non sopportò una nuova attesa. Qualcuno lo vide salire sul “nove barrato”, di sabato sera, qualcun altro lo vide varcare la soglia del Bar Sport di Gemma; in molti lo videro uscire ubriaco e barcollante fra spintoni e insulti. Sotto una pioggia battente, calda come le lacrime, lo videro raggiungere la panchina di fronte alla fermata del “51”, sedersi, bere da una bottiglia nascosta in un cartoccio. Fra un sorso e l’altro guardava le pietre bagnate della casa dalle finestre di cielo, ma non riconosceva più quel nome. Come un insano cominciò a gridare la sua rabbia, ad inveire contro quelle quattro mura fradice di pioggia e di muschio. Infine impugnò la bottiglia vuota come un martello e si lanciò gridando incontro alla casa, oltre il marciapiede… Successe tutto in pochi secondi.
I fari violenti del “51” che squarciano l’oscurità… un’ombra che li attraversa, come un gatto nero… una frenata inutile e la pioggia che copre ogni sofferenza con un lenzuolo d’argento…
***
“E’ successo così?… Sono queste le ultime cose che ricordi?”
“Sì… Non ricordo altro, solo quelle luci accecanti e un tonfo… ma nessun dolore.”
Le due ombre parlavano tranquillamente, senza particolari emozioni, sedute sul margine di una barocca tomba di famiglia, lucida di marmo venato. Parlavano e guardavano quel gran via vai di persone vestite a lutto che andavano a depositare fiori e nastri viola.
Marco abbozzò un triste sorriso…
“Mi hanno sistemato sotto quella croce di ferro posticcia…
E dire che qui dentro di posto ce n’era. Elvira, Ada, mio figlio… anche per l’ultimo viaggio mi hanno riservato un cuscino e una coperta sul… divano. Una croce di ferro e una fotografia plastificata… è tutto quello che resta di me. Guardali!… Tutti vestiti di nero, sembrano tristi, ma non li sento” – e si toccava ripetutamente il petto.
“… Valevo così poco?”
“T’importa qualcosa adesso?”
“No, no… E’ strano, ma non provo nulla… dolore, odio, rancore… nulla, assolutamente nulla. Non c’è niente che mi trattenga ancora quaggiù.”
Rispose Marco seguendo con lo sguardo Elvira e Ada che raggiungevano la cancellata del camposanto.
“Guardale… stanno parlando di me. Elvira ha buttato via i miei francobolli dopo che Ada gli ha fatto notare che erano tutti timbrati e valevano poche lire. Non hanno conservato niente di me. Non sono proprio esistito… se non sono nel cuore di nessuno.”
Marco alzò le spalle e si liberò di un lungo sospiro. Per eludere altre possibili domande sull’argomento si rivolse allo sconosciuto interlocutore…
“Ma tu… Tu come mai sei ancora quaggiù?… Sei arrivato da poco come me?”
“No, veramente io sono qui per te… Ti devo accompagnare.
E’ il mio lavoro.”
Marco scattò in piedi…
“Vuoi dire che sei… che sei… un angelo?… Vi ho sempre immaginati biondi, riccioluti, vestiti di azzurro e con le ali…”
“… Sì… e con l’aureola!… No, no… Sono solo stato incaricato di prelevarti.”
“Oh Gesù!… Ecco, lo sapevo… L’ho combinata grossa, enorme!… Mi porterai a penare non è così?… Non parevi un diavolo!”
“Angeli?… Diavoli?… Santo cielo quanta confusione gira quaggiù. Guardami bene… ti sembro un angelo o un diavolo?…”
“Beh… non saprei. Ho capito!… Devi guidarmi nell’espiazione della mia penitenza… Cioè… sei un angelo, ma non proprio… Qualcosa che ha a che fare col purgatorio… dico bene?”
“Angeli, diavoli… paradiso, inferno, purgatorio… Ci mancava solo quel megalomane di Dante ad imbrogliare ancor di più le carte…”
“Ma allora cosa sei?”
“Cosa sono!… Se ti dicessi che sono semplicemente un operatore addetto ai trasferimenti?… Dammi retta, lascia perdere. Di tempo per capire come girano le cose lassù ne avrai parecchio.”
“Quanto?”
“Quanto!… Perché?… Tieni fretta?… Tieni un appuntamento da onorare?”
“N… no, è che… ecco, vorrei solo sapere se dopo questo tempo, magari fra un po’…”
“Ahhh… Ho capito! Vuoi sapere se ritornerai ad essere un umano in carne, ossa e patemi d’animo?”
Marco annuì temendo di parlare a sproposito.
“Beh, sai com’è… Non dipende da me. E’ il capo che decide. Comunque… detto fra noi, tieni buone referenze.”
Marco sorrise, un po’ per la notizia e un po’ per l’accento partenopeo di… di?…”
“A proposito… mi chiamo Anselmo.”
“Anselmo?… Ma ti sembra un nome da angelo?”
“Mica ci chiamiamo tutti Gabriele o Niceo… E poi te l’ho già detto… la devi finire con questa storia degli angeli e dei diavoli. Vogliamo andare?”
Marco fece cenno di sì, ma istintivamente volse gli occhi alla fila di cipressi che delimitava la terra consacrata…
“Chi cerchi oltre il confine?” – chiese Anselmo, ben conoscendo il sottile dolore che ancora imprigionava l’animo di Marco – “Lo so… Fa male! Per questo ci vuole un certo tempo fra… un’esistenza e l’altra. Non fartene una colpa! Non potevi sapere che Emma si era semplicemente presa un paio di settimane di ferie. Buon Dio… Marco! Se solo avessi avuto gli occhiali sul naso quella sera… avresti capito quello che Emma tentava di dirti attraverso il vetro… Vabbè, ormai è fatta… Allora, vogliamo andare?”
“Ancora un minuto… un solo minuto.”
“Un minuto?… Strano vizio il vostro… Vi ostinate a misurare tutto ciò di cui non conoscete inizio e fine… il tempo, lo spazio… Proprio non ci sapete stare senza prigioni eh!… Speri ancora di rivederla?”
“Non so!… Forse. Sta tramontando il sole… mi sa che è proprio ora di andare.”
Proprio in quel momento due figure varcarono la cancellata; due donne, due giovani donne. A metà viale si fermarono, scambiarono poche parole e una delle due, quella vestita di azzurro, continuò verso la croce di ferro posticcia. Marco sentì nuovamente il cuore battergli in petto. Riconobbe subito quella minuta ragazza… quegli occhi umidi, quelle sottili labbra…
Oh… era bellissima Emma dentro a quell’abitino azzurro che lasciava scoperte le spalle e le ginocchia… e lasciare la vita gli parve una condanna iniqua. Emma si chinò sulla terra smossa di fresco, aprì la borsetta e ne trasse un foglietto scritto a mano e arrotolato a papiro attorno ad un mazzolino di gelsomini bianchi. Lo depose e con la voce rotta dal pianto sussurrò…
“Sono poche parole… non sono mie, ma è come se lo fossero… Dovresti vedere la nostra casa Marco… Tutti si fermano a guardarla perché… perché non succede che i gelsomini stellati fioriscano a settembre… Era proprio magica la nostra casa, non credi?… Ricorda… Ci lega un segreto… I sogni sono anime senza tempo… e nel tempo si può viaggiare.”
Frugò nuovamente dentro la borsetta a cercare il sacchetto dei trucchi; si passò il rossetto sulle labbra e lo corresse appena con una salvietta umida, poi si chinò in avanti fino a poggiare le labbra sulla foto di Marco. Ci restò un paio di secondi…
A Marco parve un’eternità.
“Ti piaceva l’odore del mio rossetto. Lo farò ancora… ogni anno, per la notte di San Lorenzo… e andrò a sedere sulla nostra panchina davanti alla casa dalle finestre di cielo… ad odorare il profumo dei gelsomini… Ci sarai anche tu, vero?”
Emma si rialzò, asciugò le lacrime e segnandosi cristianamente sfiorò con le dita il ferro della croce. Le due ragazze si allontanarono sottobraccio, mestamente, fino a confondersi con le ombre della sera, fino a sparire. Anselmo si avvicinò a Marco…
“Valeva la pena aspettare ancora un minuto… valeva la pena aggiungere rimpianto al rimpianto?”
“Ohhh sì… Ne valeva la pena davvero. Eppoi non è rimpianto quello che mi porto dentro… E’ un sereno, doloroso, irrinunciabile piacere… Se mi puoi capire!”
“Ti ha lasciato solo un bacio che l’acqua, il sole e il vento cancelleranno…”
“Qualcosa resterà sempre… una traccia, un ombra, un’idea… per quanto piccola… qualcosa resterà sempre.
Vogliamo andare?”
Anselmo accolse l’invito con un bonario sorriso e i due s’allontanarono parlottando come vecchi amici…
“Marco… non credo che dovrai attendere poi molto… le tue referenze sono davvero buone…”
“Lo dici per consolarmi?”
“No… Ti vedrei bene nei panni di un signorotto di fine ottocento…”
“Ma dai!…”
“Dico davvero… Carrozze, cilindri, lumi a petrolio e poi… danze, feste… Che ne diresti di quella villa che sorge giusto a ridosso della fermata del “51”?”
“Mi prendi in giro?… La casa dalle finestre di cielo?…”
“Uhm… Già, era un’ipotesi. Certo… se la cosa non ti piace si può sempre…”
“No-no-no… Va benissimo!”
“E allora cos’è quell’espressione dubbiosa?”
“Oh… nulla. Pensavo che anche ad Emma sarebbe piaciuto…
Ma perché sorridi con quell’aria furba?… Oh buon Dio!… Non mi dirai che…”
“Shsss… Ecchè gridi a fare?… Io non ho detto nulla… intesi! Non sono autorizzato a… e rischio pure la retrocessione, Però…”
“Però!!!!…”
“Però e basta!… Sai Marco, avevi ragione… E davvero speciale la tua Emma… Non t’interessa sapere cos’ha scritto in quel foglietto?”
***
“… Ti chiedo quello che non mi puoi più negare
Mia dolce Signora di Dundalk on Gaillinh,
ti chiedo di non piantate fiori sulla terra smossa,
di non ferire la fredda pietra con inutili parole,
ti chiedo quello che non mi puoi più negare
Mia dolce Signora di Dundalk on Gaillinh,
ti chiedo di tingere di pianto le labbra
di segnare la mia lapide col purpureo sigillo di un caldo
bacio,
Mia dolce signora di Dundalk on Gaillinh
sarà una rossa catena ad unire nel tempo i nostri cuori…”
– Iscrizione sepolcrale per un combattente indipendentista –
Irlanda 1917