I racconti da sceneggiare, I racconti del Premio letterario Energheia

La cerbottana di Roberto Leoni, Reggio Emilia.

_Racconto finalista ventiduesima edizione Premio Energheia 2016
_Miglior racconto per la realizzazione di un cortometraggio.

 

materaDa piccolo ho odiato i cimiteri. Ironia della sorte, mia nonna mi portava sempre al cimitero per farmi vedere la tomba dei miei bisnonni, persone che tra l’altro non avevo mai conosciuto. Tutte le volte mi annoiavo da morire e mi chiedevo che senso avesse stare per lungo tempo davanti ad una lastra di marmo. Provavo rabbia. Le foto dei morti erano tra le cose che più mi angosciavano. Alcune facce erano veramente tremende e veniva da chiedersi se quei signori non fossero già stati morti in vita. Facce seriose, cupe, con le bocche piegate all’ingiù, insoddisfatte, vere e proprie maschere. Fu così che un giorno, per allentare la noia e il disgusto, decisi di portare al cimitero una cerbottana. Avrò avuto all’incirca otto anni. Mentre mia nonna era intenta a pregare davanti alla tomba dei suoi genitori, io mi staccai e feci un giro per il camposanto. Guardavo tutte quelle facce e leggevo tutti quei nomi e non riuscivo a dare un senso alla morte. Ad un tratto mi sentii spaesato, cominciò a girami la testa, credetti di svenire. Mi appoggiai ad una tomba e cercai di riprendere fiato: fu in quel momento che vidi davanti a me una faccia assolutamente assurda, ridicola. Si trattava di una lapide vecchissima, la donna era morta nel 1928, così dicevano le scritte ormai sbiadite e che ancora ricordo bene. La fotografia era in bianco e nero, ma tutto quel tempo aveva reso l’immagine assolutamente spettrale. No, quella faccia non mi era per niente simpatica. Estrassi un pezzetto di carta dalle tasche dei pantaloni e lo masticai. Masticavo come un ossesso quel pezzo di carta, che intanto si trasformava in poltiglia, e mentre masticavo guardavo gli occhi della vecchia, completamente bianchi, una cosa spaventosa. Quand’ebbi finito di masticare sputai la carta e ne feci una pallina appiccicosa da infilare nella mia piccola cerbottana di plastica. Presi la mira e con un soffio potente sparai la pallina verso la foto della vecchia spiritata. Centrai in pieno la faccia, proprio sul naso. Mi scappò da ridere poiché la vecchia pareva che portasse ora un naso da clown bianco. «Colpita!» urlai. Subito mi pentii di avere urlato così forte. Non volevo dare nell’occhio, non volevo che qualcuno mi scoprisse. Mi guardai intorno ma vidi che il cimitero era deserto. C’era soltanto mia nonna nel camposanto, troppo impegnata nelle sue preghiere per accorgersi di me. Così continuai nella mia azione bellica. Volevo colpire tutte quelle facce da morto, impallinarle una ad una. Con piglio sistematico iniziai il mio torbido progetto, scegliendo a caso le mie vittime. Fu la volta di un signore morto a cinquantasette anni, con la barba scura e gli occhi stretti. Stavolta mi ci vollero ben tre tentativi prima di riuscire a offendere la sua faccia. “Questo qui è un duro,” dissi tra me. Ma anche lui fu sistemato con una palla sull’occhio destro. Poi fu il turno di una signora morta a settant’anni. Con lei feci centro al secondo colpo. La pallina sembrava stare in perfetto equilibrio sul suo zigomo sinistro. Finalmente la mia vendetta cominciava a prendere corpo. Finalmente stavo chiudendo il conto con tutti quei morti. Il fatto è che io non li sopportavo, i morti. Forse tutte quelle visite al cimitero alla lunga mi avevano nauseato e incattivito, così tanto da farmi salire come un moto di ribellione premeditato. Certo è che con i morti, già da tempo, non scorreva buon sangue. Dei morti infatti mi dava fastidio soprattutto quel loro starsene tranquilli senza mai dire una parola, sempre chiusi giorno e notte nelle loro casse sigillate; sempre intenti a far niente, così glaciali da non alzare un dito. E quale migliore vendetta se non quella di sputare delle palline di carta su quelle che erano state le loro facce da vivi? Che saltassero fuori dalle tombe se non erano d’accordo sui metodi della mia vendetta! Che me le ritirassero indietro le mie palline umide e schifose se non erano in sintonia col mio modo di fare! Che me ne dicessero quattro! Ma i morti, pensavo, non dicono mai nulla, gli puoi dire quello che vuoi, loro stan sempre zitti. Questo lo sapevo, certo, ma speravo in un qualche colpo di scena, in una simpatica sorpresa. Sognavo che un morto davvero incazzato, infuriato per quelle palline, uscisse di gran carriera dal suo loculo per suonarmele di santa ragione. Quella sì che sarebbe stata una bella scena! Invece niente, i morti erano morti. Ne avevo avuto piena conferma quando vidi il primo cadavere in vita mia. Era accaduto due anni prima dell’episodio della cerbottana. A quel tempo il mio prozio Amedeo, il fratello di mio nonno, era spirato serenamente dopo una faticosa esistenza trascorsa in campagna. Mi obbligarono a fare visita al feretro, che si trovava nelle camere ardenti del paese di S. Per me fu un’esperienza traumatica. Non fu tanto il morto a farmi impressione, quanto le persone piangenti che sostavano ai lati della cassa. Il morto in sé finì per farmi rabbia. Il primo sguardo che diedi al prozio mi disorientò. Era come vedere un’altra persona, quel ceffo non aveva niente a che spartire col prozio conosciuto da vivo e che mi costruiva i segnali stradali col legno compensato. Più guardavo il corpo inerte di Amedeo e più non capivo il suo starsene fermo nella bara senza dire e fare nulla. Provai a salutarlo con la mano ma non mi rispose. Teneva la testa leggermente piegata su di un lato, le mani bianche e molli come guanti sgonfi, un vago e vacuo sorriso racchiuso in una bocca serrata con decisione. Il mio prozio era vestito bene, a vederlo sembrava dovesse andare ad una serata di gala. Per me erano tutti sprecati quei bei vestiti se poi doveva starsene “a dormire” dentro a quel brutto letto dalle sponde troppo alte. «Ehi, sveglia zio!» avrei voluto gridargli nelle orecchie. Ma poi rimasi zitto per non fare incavolare mio padre. Ricordo l’inquietudine che mi salì in testa, accompagnata da un gran senso di confusione. Non riuscivo assolutamente a capire cosa significassero la morte, il morire e i morti. Era tutto vago e indistinto e in quel turbinio ogni cosa era possibile, compreso che i morti potessero risorgere e ballare, o che la morte fosse solo una messinscena, un gioco originale. In quel turbinare di cose disperai di fare qualcosa per Amedeo. Sentivo che era triste e volevo rallegrarlo. Volevo svegliarlo dal suo gioco, che non gli piaceva più e che lo annoiava soltanto. Mi sarebbe piaciuto riempire la sua cassa di luci elettriche intermittenti di vari colori, per rendere il tutto più vivace. O magari avrei trovato divertente ficcargli una radiolina in bocca per farlo divenire un morto canterino. Poi feci qualcosa che non avrei mai dovuto fare. Mi avvicinai alla cassa e toccai la spalla destra di Amedeo, scuotendola, per saggiare la sua reazione. Non disse e non fece nulla. Arrivò mio padre di gran carriera a impedirmi ulteriori azioni. Mi trascinò fuori dalla camera ardente, con molta discrezione, e là fuori mi schioccò qualche sonoro ceffone sulle chiappe. Io, piangendo, gli dissi che non volevo fare niente di male, solo vedere se Amedeo stava dormendo o scherzando, e mio padre mi disse allora una cosa che mi scandalizzò: «I morti sono morti e non tornano vivi, non si muovono più!». Quella frase mi procurò una sensazione brillante, così la definirei, ovvero una specie di stupore dovuto alla presa di coscienza di una cosa sino a quel momento ignota. Avevo capito che i morti non potevano più parlare, ridere, giocare, saltare, ma che stavano sempre muti e fermi e passavano così il tempo. Era una cosa per me insopportabile. Alla fine mi convinsi che Amedeo mi stava prendendo in giro, che tutti i morti mi stavano prendendo in giro e che ridevano alle mie spalle. Abbandonai la camera mortuaria più triste che mai e fu da allora che i morti diventarono i miei nemici. Ecco che quel giorno, al cimitero, mentre mia nonna pregava davanti alla tomba dei suoi genitori, ebbi la mia prima ghiotta opportunità di regolare i conti con chi era cadavere. Se necessario, sarei stato disposto a colpire con la mia cerbottana tutti i cimiteri del globo, a fucilar le tombe una ad una con le mie palline umide e vischiose. Galvanizzato da quei pensieri di trionfo continuai nella mia missione. Venne la volta di un bambino, un poveraccio morto ad appena sette anni. Non ebbi pietà nemmeno per il suo buffo faccino. Una pallina lo colpì, rimanendo saldamente ancorata tra i suoi capelli e provocando in me la fuoriuscita di un grido di gioia. Poi mi accanii contro un signore crepato alla veneranda età di ottantasette anni, un uomo dalla faccia ridicola. «Beccati questo, faccia da culo!» e sputai la pallina sul suo orecchio destro. Avevo una mira fenomenale, riuscivo a centrare tutte le facce o quasi al primo colpo. Ma fu in quel mentre che mi sentii tirare per la camicia. Ebbi un sussulto, urlai qualcosa che non ricordo, e mi si gelò il sangue. “Ecco, è uno dei morti, dev’essersi incazzato di brutto!” pensai. Ci volle poco per scoprire che in realtà non era stato un morto a tirarmi per il colletto, bensì mia nonna. Quando vidi la sua faccia furente per poco non svenni. Era comparsa come dal nulla.
«Cosa diavolo stai combinando con quella cosa!» disse lei, strattonandomi.
Non seppi trovare una risposta. Dire la verità, cioè che mi stavo vendicando dei morti, mi sembrava una scelta rischiosa. Così optai per il silenzio. Speravo soltanto che non vedesse quelle palline appiccicate alle foto dei morti. Purtroppo se ne accorse.
«Oh, misericordia! Cos’hai combinato, mascalzone!»
Prevedendo una reazione tremenda da parte della nonna, cercai di divincolarmi e di liberarmi dalla sua mano, che ancora mi teneva stretta la camicia. Scappai tra le tombe, saltando come una lepre sui cumuli di terra e scartando le lastre di marmo. Mia nonna si mise a inseguirmi agitando il pugno ma la sua lentezza di movimenti non poteva tenere il mio ritmo portentoso. Ero uno scoiattolo. Entrambi eravamo i protagonisti di una scena patetica. Se qualcuno ci avesse visto in quel momento non avrebbe tardato a chiamare l’igiene mentale. Per fortuna eravamo gli unici visitatori del cimitero mentre i morti, in quanto morti, non potevano crearci problemi. Ad un tratto mia nonna inciampò in una tomba e cadde in mezzo ai fiori. Io fermai la mia corsa e scoppiai in una fragorosa risata. Rimase per qualche secondo immobile e allora mi feci serio, temetti per la sua salute. Disperai che si fosse fatta male ma poi la vidi rialzarsi lentamente da terra.
«Te la farò pagare!» urlò verso di me.
Si scrollò la terra di dosso e riprese a camminare zoppicando.

***

Quell’episodio segnò profondamente la mia vita di fanciullo. A parte la tremenda punizione che seguì alla mia marachella, punizione che non voglio qui rammentare, da quel giorno il pensiero dei morti si fece sempre più intenso e sconvolgente. Sentivo come il bisogno di esorcizzarli, di tenerli lontani, e per far questo caddi nelle loro braccia. Può sembrare un paradosso ma per me, stranamente, non lo era. Cominciai a disegnare carri funebri e tombe sui bordi dei quaderni di scuola, soprattutto sul quaderno di matematica, materia che non ho mai sopportato, mentre nell’ora di educazione artistica mi impegnai nel raffigurare scheletri e morti putrefatti. Il mio modello erano le danze macabre tedesche, di cui avevo potuto vedere una riproduzione sul libro scolastico di storia. La mia maestra disapprovò subito quei disegni e ne rimase inorridita. Ovvio che si premurò immediatamente di riferire a mamma e papà del mio talento artistico depravato. Quando i miei videro quei disegni inorridirono a loro volta. Pensarono seriamente di farmi visitare da uno psicologo ma poi lasciarono perdere, forse perché credevano la cosa una faccenda passeggera, frutto di una lieve depressione infantile. Una sera li sentii dire che tutto quel trionfo del macabro, sbocciato così liberamente sui miei quaderni di scuola, era dovuto ad una delusione amorosa, al fatto che la bambina più bella della classe si era rifiutata di diventare la mia fidanzatina. Io sapevo perfettamente che erano tutte fandonie ma non dissi nulla, era troppo delicato l’argomento per poterne parlare con loro. Sapevo che non erano abbastanza illuminati per comprendermi e per comprendere certi argomenti, così li lasciai nel loro brodo di giuggiole. Ben presto, comunque, la smisi di disegnare carri funebri e morti. Alla fine mi avevano stancato e poi non riuscivano ad esorcizzare alcunché. Il problema, in realtà, era diventato un altro e le cose si erano davvero complicate. Certo, i morti erano morti, come aveva detto mio padre, e se ne stavano chiusi nelle loro tombe, e fin qui tutti d’accordo o quasi. Erano miei nemici, e tutti d’accordo. Ma la morte cos’era? Chi moriva, dove finiva coi suoi pensieri? Quelle domande me le ripetei una sera e non trovai appigli, fino a che, sconvolto e nauseato, non mi addormentai. Un giorno provai a leggere la voce “MORTE” sull’Enciclopedia Generale che trovai nello scaffale della biblioteca paterna, ma la spiegazione non mi convinse per niente. Si parlava della morte come cessazione delle attività vitali degli organismi e del concetto di morte presso le varie religioni, ma ero ancora troppo piccolo per poterci capire qualcosa. Per il momento sapevo soltanto che i morti non potevano parlare né muoversi e questo mi sembrava poca cosa. Poi, una sera, provai a domandare a mia madre dove finivano i pensieri delle persone morte. Lei, che stava preparando la cena ed era indaffarata nello sbattere due uova troppo gialle, sbrigativamente e con la faccia turbata mi disse: «Vanno dove c’è sempre buio». Allora mi venne in mente un’immagine della morte davvero buffa e triste. La morte, pensai, doveva essere un grande palloncino nero che si gonfiava fino a diventare gigante come una mongolfiera, talmente gigante da spengere tutti gli uomini, le donne, i cani, i gatti, le bestie, punto. La morte, in fin dei conti, era solo un grandissimo palloncino nero brutto come una bolla di petrolio. Però, in quel buio, non si annoiavano i morti? Le domande si moltiplicavano e il gioco di faceva sporco. A giocare sporco era soprattutto mia nonna che cercava di inquinare le acque con le sue storie e si divertiva a impaurirmi. La sua storia preferita era quella del paradiso e dell’inferno. Me l’aveva raccontata innumerevoli volte nella speranza di terrorizzarmi. Tuttavia quel racconto aveva il sapore di una brutta favola, che certo, mi spaventava, ma al quale non avevo mai dato importanza. Eppure mia nonna si impegnava fino all’ossessione. Quando andavo a trovarla mi ficcava sempre in testa brutte storie sull’aldilà, mi parlava di inferni e di robe coi diavoli tutti cattivi e stronzissimi. Dicendomi queste cose mi ammoniva, «stai attento che se non ti comporti bene finisci in quella brutta storia dell’inferno», e poi mi faceva vedere una cartolina piena di uomini dannati tra le fiamme, robe paurose del medioevo col diavolone che cacava mille peccatori rammolliti dal suo largo sfintere merdone. E gli occhi. Paurosi. Sempre acidi gli occhi dei diaboli. Demoni verdi, gialli, viola, con le ali appuntite e un ghigno da bestie rancorose inarcato sulle bocche caprine. «Eh», diceva mia nonna, «vedrai che se non fai le opere belle i diavoli ti mettono in una pentola e ti cuociono come una bistecca». Io le facevo il dito medio e me ne andavo di corsa, mi rintanavo nel letto e auguravo a mia nonna di fulminarsi col ferro da stiro. Un giorno decisi di mettere in chiaro le cose, di mettere in riga i suoi inferni, i suoi diavoli e le sue opere belle e compagnia bella. Le dissi che la morte era un palloncino nerissimo e che in quel palloncino non c’erano paradisi e colombe e angeli o diavoli, e lei subito a dirmi di fare a modo, di non parlare ad alta voce di quelle cose oscene e di non pensarle nemmeno che sarei finito all’inferno, «brucerai all’inferno se dici quelle robe vergognose e i diavoli ti mangeranno». Io sbottai, presi le sue foto d’inferni, le strappai in mille pezzi e le feci volare in alto come un fungo atomico improvvisato. «Santo cielo, hai fatto peccato mortale, sei dannato, sei dannato, guarda i miei inferni, li hai tutti rotti, li hai tutti rotti, ommaria!» Alla fine capii che ero solo, solissimo, e che nessuno poteva aiutarmi. Tutti andavano al cimitero ma nessuno sapeva nulla della morte. La gente praticava il culto dei morti senza sapere niente dei morti. E ognuno diceva la sua sull’argomento pretendendo di avere ragione, mia nonna fra i tanti. Io rimanevo con l’unica certezza che i morti erano miei nemici. Improvvisamente, quando ormai stavo per compiere nove anni e mi trovavo in balia dello scoramento, ebbi un’illuminazione. Capii che annientando tutti i morti del pianeta si poteva cancellare anche la morte stessa. Bisognava però muoversi subito. Occorreva pianificare un intervento su larga scala, ben più strutturato e incisivo dei colpi di cerbottana sparati al cimitero. Occorreva progettare la “piccola fabbrica triturante dei morti”. In quel progetto decisi di investire tutte le mie giornate solitarie e senza amici. Nella fabbrica arrivavano sempre migliaia di camion pieni zeppi di casse coi loro morti e gli operai scaricavano le bare dai camion e le montavano sui nastri trasportatori che finivano dritti nella bocca della macchina che mangiava i morti, piena di luci, di leve e di rumori. Poi un operaio minchione senza un occhio e coi baffi gialli, tutto pazzo e privo di senno, azionava le leve e faceva partire il nastro che portava le casse verso la macchina magnamorti. La macchina si trovava al centro della fabbrica ed aveva le sembianze di una grande faccia meccanica piena di denti, ricordava vagamente il volto del dio egizio Anubi, e sgranocchiava le bare come fossero barrette di riso soffiato energetiche. Le bare coi loro morti, polverizzate come segatura, scendevano dal tubo sfinterico della macchina mostruosa mischiate a durissimi granelli di sterco. Con questa macchina, mi ero convinto, avrei liberato il mondo da tutti i morti, dalla morte e, di conseguenza, da tutti i cimiteri del mondo. I cimiteri mi angosciavano, li trovavo i luoghi più alieni del pianeta. Non sopportavo l’idea che esistessero posti assurdi in cui si praticava l’insensato accumulo del macabro. Erano come delle città defunte, senza traffico, senza negozi, senza niente di niente, posti insopportabili. Come vincere la partita? Bisognava triturare milioni e milioni di morti per annullare il regno del macabro. Forse, mi rendevo conto, l’impresa era insormontabile. Forse la sola macchina mangia morti poteva non bastare. Troppe le bare da mangiare, troppi i morti da ridurre in polvere. La macchina, prima o poi, sarebbe scoppiata. L’impresa insormontabile mi fece cadere in depressione. I morti, la morte e i cimiteri stavano compiendo un accerchiamento per uccidermi. Vecchie e nuove domande mi rodevano nel profondo, impedendomi di divertirmi col trenino elettrico. Dov’era la morte? Era fuori o dentro casa mia? Era nel giardino di casa? Poteva trovarsi rinchiusa in un barattolo di marmellata? Viaggiava sul tetto delle automobili col falcione nero in mano? No, tutto questo era troppo. Per essere un bambino mi ponevo delle questioni che non erano decisamente alla mia portata. Non dormivo la notte e vivevo in uno stato di ansia perenne. A scuola davo scarso rendimento. Fu allora che i miei tornarono a tirare fuori la storia dello psicologo. Dicevano che dovevo farmi curare, che non ero un bambino “a posto”. Io, terrorizzato all’idea di finire dal dottore, decisi di non pensare più ai grandi quesiti sulla morte e per un certo tempo riuscii a vivere sereno.

***

Un giorno, tuttavia, tornarono a presentarsi i fantasmi del passato. Avevo dieci anni. Ero davanti alla tv e stavo guardando un documentario sulla Svizzera. Era un innocente documentario per bambini della mia età, si vedevano soltanto montagne, laghi e fiori. L’inquadratura si soffermò su di un paese visto dall’alto. Era un bel posto, tutto ordinato e pulito. La voce narrante decantava la tranquillità di quella cittadina e la cordialità della sua gente: lì si parlava il tedesco. Cacciai uno sbadiglio, la Svizzera mi stava facendo venir sonno. Ero in procinto di cambiare canale e di guardarmi un po’ di cartoni animati quando vidi qualcosa che non avrei mai dovuto vedere. Il cimitero del paese. Fecero vedere il cimitero del paese. Bello, elegante, con le croci in ferro, quasi un giardino, ma pur sempre un cimitero. Fu una visione molto breve, di pochi secondi, ma capace di far scattare in me antiche rabbie. Tutte le domande sulla morte rimaste sopite riemersero a galla con tutta la loro forza. Vidi l’esercito dei morti beffardo e ridanciano uscire dal televisore e prendermi per il collo. Mi piegai in due dall’angoscia. Stavo raggomitolato sul divano e rantolavo. Poi sentii salirmi l’odio. Il mio odio verso i morti e i cimiteri. Avrei voluto raderli tutti al suolo, i cimiteri. La gente amava il brutto, non c’erano dubbi. Non si poteva spiegare altrimenti il pullulare di milioni di cimiteri in tutto il mondo. Se pensavo alla maestra la mia rabbia si faceva ancora più intensa. Sicuramente lei era una che andava al cimitero tutti i giorni… e poi aveva il coraggio di inorridire di fronte ai miei disegni funebri! Che faccia tosta! Giurai che se mai un giorno fossi morto, la mia dipartita infatti non era da escludere sebbene avessi la netta percezione che la morte non mi riguardasse, mi sarei volatilizzato all’istante. Nessuno mi avrebbe mai trovato morto e il mio corpo, di certo, non avrebbe alimentato la fabbrica del macabro. Strinsi con le mani i braccioli del divano, più forte che potei, e cominciai a mordere la fodera come un cane. Che schifo, i cimiteri! Presi ad urlare, a scalciare. Ben presto la mia collera si fece incontenibile. Mi alzai di scatto dal divano. Che cosa orrenda, i morti! Mi scagliai verso le cose: presi a calci i mobili, strappai i libri paterni, ruppi i vasi sulle mensole.
«Maledetti morti, maledetti morti! Siete tutti degli stronzi!» gridai senza pudore.
Arrivò di gran carriera mio padre che mi bloccò riempiendomi di ceffoni, una sfilza di botte che ancora oggi ricordo con qualche brivido. Mia madre si coprì il volto e pianse emettendo dei singhiozzi ritmici e striduli. Quella volta non riuscii a farla franca. Mi mandarono dritto filato dallo psicologo e mi prenotarono una serie di sedute per un anno intero. Presi anche qualche farmaco che non ricordo, delle specie di gocce per sopire la rabbia. Da allora, comunque, il mio odio per i morti e i cimiteri andò affievolendosi fino a scomparire. A undici anni potevo già ritenermi guarito. Rimasero i miei antichi quesiti sulla morte ma quelli ancora oggi non hanno trovato risposta. Stranamente conservai la mia vecchia cerbottana, che nascosi gelosamente in un cassetto del comodino. Talvolta la rigiravo tra le mani e la ammiravo, ma senza pensare a nulla in particolare. Quanto a mia nonna, morì. Se ne andò quando ancora ero in cura dallo psicologo. Non andai al funerale e nemmeno piansi, in fin dei conti con lei non avevo fatto altro che visitare cimiteri e sentire storie di diaboli. Da quel famoso giorno della cerbottana i nostri rapporti erano sempre stati molto tesi e molto poco affettuosi. Riposa di fianco alla tomba dei suoi genitori, così come aveva sempre desiderato.
Qualche tempo dopo la morte della nonna, andai coi miei genitori al cimitero. Mio padre voleva portare dei fiori. Io non avevo nessuna voglia di andare a vedere la tomba di mia nonna. Mia madre riteneva che fosse inopportuno portarmi al cimitero quando ero ancora in convalescenza. Niente da fare, il babbo insistette, diceva che ero guarito. Alla fine andai al cimitero. La vista delle tombe non mi procurò nessun effetto e questo era già un ottimo risultato. Mio padre sostituì i vecchi fiori un po’ secchi con dei gerani freschi, poi cambiò l’acqua nel vaso. Io guardavo la foto della nonna, ammutolito. Indossava un vestito a fiori e lo sfondo era di un azzurro luminoso e mistico, come lo sono gli sfondi di certe immagini sacre dozzinali. L’espressione del volto era serena, ma non troppo. Non avevo mai visto prima di allora quella fotografia. Rimanemmo in silenzio. Sentii come una specie di vuoto universale salire tutt’intorno. Mia madre tolse una foglia secca alla base della tomba. Una cornacchia gracchiava in lontananza come un grammofono malato. Percepivo la commozione dei miei, lì vicino, ed era un sussurro alle orecchie. Andammo. Percorrendo il vialetto tenevamo la testa china. Mio padre biascicava adesso una caramella al rabarbaro. Poi voltai la testa. Fu come ricevere una chiamata da lontano. Cominciai a correre. Mio padre: «Dove vai!». Ero di nuovo davanti alla tomba di mia nonna. Tirai fuori la mia cerbottana di plastica e le fiondai una pallina sul grugno.