La crisi culturale Europea
_Abbiamo elaborato le categorie per comprendere la cultura europea della crisi Fukuyama non aveva tutti i torti nel sostenere che la «la storia è finita» e che la democrazia liberale di matrice anglosassone è l’unica rimasta.
Abbiamo elaborato le categorie necessarie per comprendere la cultura europea della crisi?
_di Francesco Lamendola
La cultura europea del Novecento ha attraversato una crisi senza precedenti, culminata nel periodo fra le due guerre mondiali, che è stato particolarmente ricco anche per i numerosi tentativi di oltrepassare il vicolo cieco della modernità e per dischiudere nuove prospettive filosofiche, artistiche, letterarie, ancora tutte da esplorare.
La guerra civile europea dei Trent’Anni (1914-1945) e, poi, la lunga stagione della guerra fredda, hanno avuto l’effetto di congelare, disperdere, criminalizzare quei tentativi e, soprattutto, di operare una arbitraria e inaccettabile semplificazione dei termini del problema, sotto il ricatto morale, o piuttosto moralistico, del dramma che l’Europa e il mondo avevano vissuto.
A partire dal 1945 (ma già dalla Conferenza di Casablanca del 1943, con l’intimazione della resa incondizionata al Tripartito da parte degli Alleati), il fascismo è divenuto una ideologia politica innominabile (anche se, fino al 1939-40, le democrazie erano state prodighe di riconoscimenti verso di esso); e la stessa cosa è accaduta al comunismo, dopo il crollo del muro di Berlino, nel 1989, e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991.
Francis Fukuyama non aveva, quindi, tutti i torti nel sostenere che la «la storia è finita» e che la democrazia liberale di matrice anglosassone è rimasta nella posizione di unica ideologia politica rispettabile; mentre tutti gli Stati che non la praticano si trovano retrocessi allo “status” di «Paesi canaglia», contro i quali la comunità internazionale è in diritto di adottare qualsiasi misura repressiva ritenga opportuna, dalle sanzioni economiche all’intervento militare localizzato, fino alla guerra indiscriminata, senza limiti di tempo e senza restrizioni giuridiche.
Questo appiattimento ed impoverimento della prospettiva politico-culturale ci impedisce ancora oggi di porci nella giusta prospettiva per comprendere il travaglio degli scrittori e dei pensatori della crisi – crisi, si badi, che non è affatto terminata – e ci costringe ad affrontare la riflessione su di essi mediante delle categorie inadeguate, antistoriche e grossolanamente semplificatrici, figlie di quel ricatto e di quel manicheismo.
L’operazione di stravolgimento della cultura della crisi si è svolta in tre tempi.
Nel primo tempo, iniziato verso il 1939 e tuttora in corso, si sono messe al bando le ideologie genericamente dette “di destra”, non senza averle arbitrariamente omologate l’una all’altra, al punto da etichettarle come “i fascismi”: mentre, in realtà, vi si ritrovano alcuni maestri del pensiero europeo che cercavano una via alternativa alle consuete categorie “destra/sinistra”, a cominciare dagli esponenti di quella “rivoluzione conservatrice” che annovera nomi come Ernst Jünger, Oswald Spengler e Carl Schmitt; per non parlare di pensatori della statura di Martin Heidegger, al quale, se va stretta la definizione di “esistenzialista”, ancora più stretta va quella, «sic et simpliciter», di “nazista”, che pure si è voluta affibbiargli.
Nel secondo tempo, iniziato nel 1945 ma divenuto irresistibile solo dal 1989, si sono messe al bando le ideologie genericamente note come “di sinistra”, affastellando insieme – ancora in maniera arbitraria -, filoni e pensatori tra loro diversissimi, dall’area anarchica e libertaria fino a quella stalinista, maoista, trotzkista, castrista.
Si noti che, peraltro, ci troviamo ancora in una fase di transizione: il marxismo esercita ancora un certo fascino, una certa nostalgia, che non è necessario dissimulare interamente, anzi, dei quali si può ancora andare fieri, e sia pure nella consapevolezza di un pensiero minoritario e ormai privo di smalto e di prestigio.
Così, mentre gli esponenti del pensiero “di sinistra” sono stati retrocessi al rango di esponenti di un paradigma sconfitto, ma in se stesso non necessariamente criminale, anzi in parte considerato tuttora rispettabile, quelli del pensiero “di destra” hanno subito una condanna ben più radicale, ivi compresa la “damnatio memoriae”.
Ciò significa che, ad esempio, se è considerato perfettamente lecito, nel salotto della cultura politicamente corretta, rivisitare il pensiero di Antonio Gramsci e perfino di Palmiro Togliatti, fare la stessa cosa con quello di Berto Ricci o dello stesso Mussolini è considerato apologia del fascismo e, quindi, lo storico o il filosofo che vogliano impegnarvisi, sono tenuti a sottoscrivere una preliminare dichiarazione di ripudio di quello stesso pensiero e di adesione incondizionata al credo democratico; cosa che non è affatto richiesta a quegli altri.
Perdura, insomma, l’idea di un pensiero di sinistra in se stesso “buono”, vale a dire ispirato a principî di umanità e solidarietà sociale, che avrebbe causato atrocità e sterminî solo per fattori accidentali (come nel caso dello stalinismo); mentre il pensiero di destra sarebbe stato, con tutta evidenza, intrinsecamente malvagio e ispirato alle forme più bieche e retrive di egoismo sociale, per cui non avrebbe potuto non sfociare in una prassi politica criminale.
Sia detto fra parentesi, in questa riscrittura partigiana e sistematica della vicenda europea del ‘900 si dà per scontato, o lo si dava fino a pochi anni fa, che il fascismo dovesse allearsi con il nazismo, vista la “sostanziale affinità ideologica” tra i due: il che significa giocare deliberatamente sull’equivoco tra fascismo e nazismo come ideologie politiche, e tra fascismo e nazismo come movimenti politici e, poi, come regimi al potere.
Va da sé che, per fare ciò, è necessario ignorare tutti gli elementi che non si lasciano ricondurre con docilità a questo schema precostituito: ad esempio, il fatto che il fascismo come regime politico fosse, ancora nel 1935, più vicino alle democrazie che al nazismo (il “fronte di Stresa”); oppure il fatto che l’innaturale alleanza tra Gran Bretagna e Stati Uniti da una parte, Unione Sovietica dall’altra (Unione Sovietica che, dall’agosto 1939, era alleata della Germania hitleriana), doveva essere presentata, dal 1941 in poi, come una alleanza perfettamente concorde e omogenea, nel comune denominatore dell’antifascismo e della “libertà”.
Ora siamo entrati nel terzo tempo: quello del Pensiero Unico, dominato dall’idea che solo il libero mercato è un sistema economico razionale e virtuoso e che solo la democrazia è un sistema politico degno di esseri civili: e chi non lo accetta merita di essere retrocesso alla categoria di “terrorista” e privato dei diritti fondamentali che la democrazia stessa proclama, in teoria, per tutti gli individui; vedi il caso di Guantanamo.
In questa terza fase, che gli studiosi “complottisti” vedono come lo stadio avanzato di un processo mirante ad instaurare un nuovo totalitarismo mondiale con tutte le armi più subdole, ivi comprese quelle chimiche e batteriologiche, oltre che con una sistematica campagna di disinformazione e di manipolazione dell’opinione pubblica, si marcia a grandi passi verso l’instaurazione di un Pensiero Unico che, come il geloso Yahwé dell’Antico Testamento, non ammette altro Dio fuori di se stesso ed è pronto a colpire senza misericordia quanti non vogliano prestargli il dovuto atto di omaggio e sottomissione.
Giungiamo così al paradosso di trovarci, nel medesimo tempo, nella condizione di cittadini della crisi e di esserci privati da noi stessi degli strumenti culturali, intellettuali e spirituali per riflettere adeguatamente su di essa; il che spiega come la nostra crisi attuale tenda ad avvitarsi sempre più su se medesima e come noi non riusciamo mai a porci in maniera realmente critica verso di essa, vale a dire assumendone tutta la portata e misurando tutto il coinvolgimento che ad essa ci tiene legati, psicologicamente prima ancora che intellettualmente.
Siamo come ipnotizzati dall’immagine, distorta e irreale, che abbiamo elaborato sulla crisi della modernità; e a ciò non sono estranee le manovre di chi ha tutto l’interesse affinché questo incantamento perduri e, con esso, cresca in noi il senso di frustrazione, di impotenza, di assoluta inutilità di qualunque possibile risposta.
D’altra parte, elaborare delle categorie mentali e degli strumenti culturali che ci mettano in grado di confrontarci costruttivamente con i pensatori della crisi non è una semplice operazione filologica, intesa a sdoganare e rivalutare figure importanti e ingiustamente dimenticate o, peggio, denigrate e criminalizzate (si pensi, per fare solo un esempio, a quanta fatica e quanto tempo sono stati necessari per liberarci dall’etichetta di “nazista” che è gravata sul pensiero di Friedrich Nietzsche: e sarebbe ora di smetterla di attribuire tutta la colpa di ciò alle “perfide macchinazioni” della sorella del filosofo, Elisabeth).
Non è una semplice operazione filologica, dicevamo, ma molto, molto di più: perché dobbiamo renderci conto che i pensatori e gli scrittori della crisi altro non sono stati che la punta dell’iceberg; in altre parole, che l’intera società e l’intera cultura europea, specialmente nelle strette della precaria tregua ventennale tra la prima e la seconda fase della Guerra dei Trent’Anni (1918-1939) hanno vissuto una straordinaria stagione di lacerazione, di dubbio, di angoscia, ma anche di speranza e di ricerca di possibili vie d’uscita: quei “sentieri interrotti” (per usare l’espressione di un altro grande incompreso di quella stagione: il norvegese Knut Hamsun, già Premio Nobel per la letteratura e gloria nazionale del suo Paese, indi processato per tradimento in quanto aveva aderito al regime di Quisling) che l’erba alta delle successive stagioni, la Guerra Fredda prima, il Pensiero Unico poi, hanno pressoché cancellato.
Il nostro compito, ora, sarebbe appunto quello di rintracciare quei sentieri interrotti; di porci in ascolto di quelle esigenze, di quei dibattiti, di quelle ricerche: non per assolvere o condannare, non per rinfocolare odî e incomprensioni; ma, al contrario, per ritrovare dei preziosi punti di riferimento che ci aiutino a orientarci nel cammino fuori dalla crisi in cui tuttora siamo immersi, avvalendoci dei passi (e delle cadute) di quanti ci hanno preceduto.
Nel 1945, e di nuovo nel 1991, si è voluta riscrivere la storia mondiale in termini di bianco e nero, senza sfumature, senza chiaroscuri. Céline era un reazionario, Ehrenburg un progressista; Gentile aveva militato dalla parte sbagliata, Croce da quella giusta; e così via. La povertà, la miseria di questa operazione culturale risiede anche nel fatto che tale riscrittura della vicenda culturale europea novecentesca è stata condotta, in gran parte, proprio da quegli intellettuali che meno di tutti hanno avuto il coraggio di esplorare nuove strade per uscire dalla crisi; e così, alla fine, hanno potuto dire di aver avuto ragione, solo perché non avevano mosso un passo fuori della più logora tradizione: valga per tutti il caso di Benedetto Croce, massimo responsabile di un cinquantennio di mummificazione della vita culturale italiana.
Ci stiamo avvicinando al punto.
Il punto è che, fra gli intellettuali della crisi, e specialmente fra quelli del ventennio 1919-1939, i più generosi e i più audaci sono stati quelli che hanno osato esplorare nuove possibilità, compresa quella di oltrepassare il tradizionale (e ormai obsoleto) solco fra le ideologie di sinistra, “progressiste”, e quelle di destra, “reazionarie”. Ma siamo proprio sicuri che Ungaretti, Céline, Drieu La Rochelle, Jünger, Unamuno, Hamsun, Eliade, Rebreanu, Pessoa siano catalogabili sotto la semplicistica etichetta di “conservatori” o, addirittura, di “reazionari”; o non è vero piuttosto che la loro complessità rifugge dai nostri comodi schematismi ideologici?
Le vicende della seconda guerra mondiale (e, in minor misura, della prima) hanno reso pratica corrente una massiccia dose di ricatto ideologico: chi non è con noi è contro di noi; i nemici dei nostri nemici, sono nostri amici; e così via semplificando. Questa pratica è stata proseguita nei decenni della Guerra Fredda, anche se con maggiore ambiguità: perché, fino a quando non fu chiaro chi avrebbe vinto, quanti pensavano “contro” potevano sempre sperare che la storia avrebbe dato loro, un bel giorno, ragione.
Dobbiamo ora liberarci da questi ricatti ideologici, da questa pistola puntata alla tempia di chi voglia pensare in modo libero e autonomo; dobbiamo riconquistare quella capacità di critica a trecentosessanta gradi da cui possono nascere il disorientamento e la confusione, ma anche dei preziosi impulsi verso l’autenticità e verso la ricerca della verità. Tuttavia, per poter fare questo, dobbiamo riconciliarci con il nostro passato; il che vuol dire che dobbiamo emanciparci dalle decrepite categorie della “destra” e della “sinistra”.
C’è qualcuno che non lo vuole, perché un pensiero libero e adulto metterebbe in crisi i suoi affari, non sempre puliti e presentabili come ci si vorrebbe far credere. Una ragione in più per tentare.