La debolezza e il potere: l’umiltà del male secondo Franco Cassano
di Maurizio Canosa_
“Perché le cose comincino a cambiare è necessario che il bene si giri verso l’imperfezione dell’uomo e smetta di guardarla dall’alto, abbandoni l’inerzia che discende dalla sua presunzione”. Così scrive Franco Cassano, nel suo ultimo lavoro L’umiltà del male. Il libro possiede una forza innegabile che deriva dalla fascinazione di un formidabile testo dostoevskijano tratto dai Fratelli Karamazov: La leggenda del Grande Inquisitore. Quella densità di sostanza che innerva ogni pagina dell’apologo dello scrittore russo, ha attraversato gli ultimi secoli del pensiero suscitando dibattiti e interpretazioni, per approdare con tutto il suo intatto vigore fino ai nostri giorni. La lettura della vicenda fornita da Cassano è senza dubbio interessante e problematica. Nel racconto, presentato da Ivan Karamazov al fratello Aliosha, Cristo torna sulla terra e, nel cuore della Spagna del XVII secolo, viene fatto arrestare dal Grande Inquisitore. Questi, lo accusa di aver dato agli uomini la libertà invece del pane, dimenticando che le sole forze che la fragile umanità accetta davvero come formule per una vita felice derivano dal Mistero, dal Miracolo e dall’ Autorità. Alla fine della lunga requisitoria, ancora una volta, Cristo viene condannato a morte. Superando le interpretazioni tradizionali che inchiodano la figura del Grande Inquisitore esaltando quella di Cristo come martire della libertà, Cassano si pone in una posizione critica. Le ragioni del Grande Inquisitore hanno una loro motivazione stringente, perché hanno se non altro il merito di porre “l’attenzione per i miseri , per i deboli, per coloro che non hanno la forza morale per essere all’altezza dei principi più esigenti formulati da Cristo”. Secondo Cassano, è solo attraverso la volontà di contaminarsi con la medietà del mondo che una vita può alimentarsi. La superiorità del male sul bene, sta nel sapersi confrontare con la debolezza congenita della natura umana. Nel suo bisogno di protezione e di cura. Coloro che scelgono la libertà devono esser capaci di affrontare la minaccia del naufragio in mare aperto. Allo stesso modo, ben pochi trovano in sé forza e vocazione sufficienti per imporsi l’onere della virtù. Gli altri, i molti, quelli che compongono l’umanità del maggior numero, non possono che seguire il tono paternalistico dell’autorità, perché a differenza dei primi sanno d’essere imperfetti e peccatori. E irrimediabilmente fragili. Scendere dall’Olimpo degli eletti, dal Gotha dei “dodicimila santi” troppo lontani dalla prosaicità della maggioranza, rimanda alla necessità di fare i conti con ogni debolezza terrena: la povertà, certo, ma ancor di più “l’insuperabile fanciullezza degli uomini”, quella naturale tendenza a voler dormire sonni tranquilli, non per cattiva fede, ma per una biologica carenza di tempra morale. Ecco perché il magistero di Cristo, anziché anelare ad una chimerica e leziosa possibilità di autodeterminazione, avrebbe dovuto educare l’essere umano al principio di obbedienza per fondarsi, come in realtà ha fatto la Chiesa, sull’Autorità, il Miracolo e il Mistero. “E’ forse colpa di tutti gli altri, dei deboli – dice il Grande Inquisitore rivolgendosi a Cristo – se non sono stati in grado di sopportare quello che hanno sopportato i forti? L’anima debole ha forse colpa se non è in grado di accogliere in sé doni così tremendi? O forse sei venuto davvero soltanto per gli eletti?” E’ vero, su questo humus sono riuscite a germogliare le dittature più feroci. Citando La banalità del male di Hanna Arendt, Cassano riconosce che l’uomo medio si esonera dal proprio senso di colpa perdendosi nella massa indistinta, cosicché in un regime totalitario può giustificare se stesso nell’individuazione del tiranno quale capro espiatorio, come Male Assoluto, vero e unico colpevole di ogni nefandezza. Tuttavia, il rischio opposto dell’aristocratismo etico è sempre dietro l’angolo, perché i puri, i santi e gli eroi si ostinano a chiedere a tutti la marcia nel deserto verso terre promesse inarrivabili. Per esempio, i deportati dei Lager nazisti compromessi con i propri aguzzini – spiega ancora il sociologo facendo riferimento a I sommersi e i salvati di Primo Levi – “erano un campione di umanità media e non ci si poteva attendere da loro ‘il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai filosofi stoici’. Quelli tra essi che sono stati risucchiati nel meccanismo dello sterminio, in una situazione nella quale ‘lo spazio per le scelte (in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla’ non sono giudicabili”. E’ vero che non è possibile paragonare l’infelice esistenza di un campo di concentramento alla realtà di una società democratica e liberale, come quella in cui viviamo. Tuttavia, si rivela ancora un compito arduo quello di dover tarare la propria virtù sull’equilibrio sottile tra un’etica dell’intenzione (che non accetta compromessi perché si vuole incontaminata e assoluta) e un’etica della responsabilità (che bada più agli effetti dell’azione etica e umilmente scende a patti col mondo). Cassano lo sa perfettamente. Non si tratta di abdicare alla volontà di dare un senso concreto alla prospettiva del bene e della libertà, quanto piuttosto di riconoscere che “il vantaggio dell’Inquisitore…sta tutto nella sua visione più realistica dell’uomo, nella scelta di attenderlo non alle grandi imprese, ma al momento della debolezza e del bisogno”. E’ anche vero che quell’aristocratismo che Cassano rimprovera al Bene e a ogni pensiero dell’emancipazione (e qui il terreno si fa più scivoloso perché anche politico) non si può certo dire che manchi nella visione del Grande Inquisitore. Si potrebbe infatti obiettare che proprio coloro che, sentendosi responsabili di un’educazione collettiva, esercitano il loro compito nella forma dell’autorità, lo fanno perché non hanno fiducia nelle capacità dell’uomo. E’ un paternalistico senso di superiorità ciò che li spinge ad assumersi il gravoso peso di salvatori del mondo. Del resto, spiega lo stesso Cassano, “questa attenzione per i più deboli non nasce da un sentimento di fraternità e condivisione, ma dal desiderio di usarli per i propri disegni, di riprodurne la soggezione, di mantenerli per sempre fanciulli e dipendenti da sé”. Chissà, forse l’errore di Cristo risiede proprio nel generoso credito che riserva alle possibilità umane. All’opposto di una visione presuntuosa e moralistica del bene, quello che gli fa difetto potrebbe invece essere, per così dire, un eccesso di afflato democratico, perché chi pensa che ogni uomo abbia sempre diritto alla libertà, persino quella di sbagliare, si pone originariamente nella dimensione dell’essere, prima che in quella del dover-essere. In fondo, non è necessario assimilare l’uomo morale al moralista. L’uomo morale educa la virtù in se stesso, mentre il moralista la pretende negli altri. Il primo, incarna spontaneamente il bene con la testimonianza e con l’esempio, il secondo si mette in cattedra esortando gli altri a comportamenti virtuosi, indifferente alla vulnerabilità della loro natura. L’uomo morale si sente spesso inadeguato, ma è spietato con le proprie debolezze e semmai cerca di dimostrare con la prassi che un altro mondo è possibile. Lavora sulle sue fragilità e per questo non fa prediche. Non le sue parole, ma il suo comportamento è un’indicazione di via per chiunque voglia liberamente seguirlo, o semplicemente apprezzarne l’azione. E non c’è dubbio che nel racconto di Dostoevskij Cristo (che non a caso per tutta la vicenda resta in silenzio) rappresenti la forza sobria e muta della morale e non certo quella censoria e salmodiante di un aristocratico moralismo.