I brevissimi 2016 – La decima Musa di Chiara Rossi, Santa Margherita Ligure(GE).
Anno 2016 (I sette peccati capitali – la gola)
È sorprendente che la razza umana
abbia sottratto tempo a sufficienza
dal pensiero del cibo o del sesso
per creare le arti e le scienze .
«Mia eccelsa Gastarea ,
la plus jolie des Muses, ti scrivo dal treno per Fez. Stazioni piccolissime. Morbide colline. Azzurri pallidi nel cielo. Sorseggio un conturbante vino algerino, che mi riporta alla bizzarra cena astrologica, che raccoglieva persone con lo stesso segno zodiacale, in cui ti conobbi. Mi spalancasti le porte del sogno, non appena ti intuii celata dai vapori dell’enorme conca di zuppa fumante. Voglia il tuo benevolo cuore ascoltarmi.
Da quel pomeriggio d’inverno in cui, bambino, scoprii l’immenso potere seduttivo degli aromi esalati dalla cucina di mia nonna, come sai, caddi preda di un vortice di scoperte inneggianti a uno dei piaceri più sommi della vita. Se a me, predestinato in quanto pronipote del celeberrimo Brillat-Savarin, toccò in sorte la fortuna di poter sperimentare l’eleganza ateniese, il lusso romano e la delicatezza francese della preziosa alchimia di trasmutare il cibo in arte – e dunque in oro il piombo della vita -, è grazie a te se conosco le vette raggiungibili andando oltre il mero mangiare per vivere, cui ci invita l’appetito, metafora del desiderio. Sostenuto dal sapore, io, cavaliere del gusto convinto che siamo nel mondo per farne parte, per essere nutriti e nutrire, senza limiti di sorta, ho come ricompensa la voluttà.
Dovresti essere qui. Ti vorrei con me in riva all’oceano, oltre le sabbie del Maghreb, come quando rubavamo i nostri incontri al faro, là dove ogni minuscola inquietudine si vanificava di fronte a un dorato bouquet di spaghetti, alla pasta di mandorle, che si faceva allegorica scultura, all’uva passa, che era il meglio di una sontuosa torta al cioccolato. Là dove ogni nostra stagione di languori decadenti, in cui i saperi erano commisti ai sapori, veniva digerita insieme all’emblema primordiale del cosmo, della perfezione, del mistero: l’uovo, che moltiplica la vera fame. Era tuttavia davanti agli asparagi, che lessavamo nudi, dopo le golose ore d’amore, reincarnati Manet che li dipingeva, che le mie imperiali illusioni si sublimavano e perdevano ogni conforto del senso, ogni arroganza del significato. Non esisteva più la questione alimentare, ma solo la mia esagerazione nel voler divorare, ingerire, introiettare te e il cibo, a cui chiedevo di svanire, come un’ala di pernice in un sorso di Château Lafite.
Come devoti discepoli di Catone, Plinio e Galeno, che decantavano le lodi dell’asparagus officinalis, ricordi mia dèa, come affondavamo le diete catacombali per celebrare il nostro supremo vizio capitale? Ti rivedo, mentre disponevi a coda di pavone gli asparagi attorno alla focosa aragosta e io divenivo solo quel che mangiavo dalle tue mani. Succhiavo lentamente il tenero germoglio, assaporavo la polpa magnifica del rosso crostaceo e, tramite le mie mandibole elette, sentivo che la Bellezza si faceva commestibile. Non volevo, né potevo, fermarmi e in quel peccato dei sensi e della carne pregustavo altre gioie: il Camembert di cui era ghiotto Duchamp, i ricci che divorava Dalì al tramonto tra gli ulivi, le accumulazioni di cozze che traboccano dalle pentole di Broodthaers…
Come una delle Vanitas delle nature morte fiamminghe, poi tu ti dileguasti, evanescente essenza di una piccante spezia orientale, ma sappi che ancora io voracemente ti desidero, come desidero i ghiotti tartufi, una riflessiva omlette al tonno o una lirica zuppa di pesce. E anche solo il nominare queste prelibatezze evoca in me onnivori, saporiti ricordi erotici e sete e fame inestinguibili… »
Termina qui, incompleto, il manoscritto del vaniloquio di mio nonno, mangiatore da competizione, la cui salute è oramai gravemente compromessa dagli effetti letali della sua smodata golosità.
Invoco voi, autentiche Muse, figlie di Zeus e Mnemosyne, auspicando il vostro ritorno in questo Medioevo postmoderno, per spodestare le fatue dèe che usurpano l’appellativo che vi si addice, poiché credo nell’utilità dei saperi inutili, che soli potrebbero salvare il mondo, perché l’arte è ciò che meglio consola del vivere.