La fettuccia colorata_Ugo Criste, Genova
_Racconto finalista ventunesima edizione Premio Energheia 2015.
Della cittadina dove sono nato ho un ricordo vago. Rammento delle strade impolverate e delle case dalle mura intonacate molto spesso dal solo fango. E poi una confusione di suoni e voci all’alba, al tramonto che s’interrompeva soltanto per la chiamata alla preghiera del muezzin dall’alto del minareto. – Là ilàh illà allàh – modulava dalla cima delle torre, neppure se cantasse. Stavo tutto il giorno attaccato alla gonna di mia madre, e quando lei si doveva recare in qualche luogo per trasportare i prodotti del suo orto, mi legava per non perdermi con una fettuccia colorata al polso e mi tirava avanti e indietro per quel dedalo di casupole tutte identiche fra loro.
In estate il sole cadeva a perpendicolo e sembrava che andasse alla ricerca delle persone per arrovellarle con i suoi raggi. Ricordo pure le mosche. Erano ovunque. Si posavano sui cibi, sulle pareti interne della casa, sulle braccia e sul volto, soprattutto quando questo era madido di sudore.
La mattina che salimmo su di un carro, trainato da un ossuto asino, per emigrare in Europa e per andare, come diceva mia madre, in un luogo dove esisteva la parola futuro, fu un giorno per me carico di affanno. Ancora non sapevo come si presentava quel continente situato aldilà del mare. Gli anziani della moschea mi avevano raccontato che era pieno d’infedeli. Di persone che gettavano via il cibo ancora buono e che adoperavano l’acqua potabile anche solo per lavare le loro lussuose automobili o semplicemente per rinfrescare l’asfalto dei loro cortili resi roventi dal sole. Pensare di trovarmi in un paese tanto diverso per usi e costumi dal mio, mi fece atterrire, andare di stomaco, e per due notti neppure riuscii a prendere sonno.
Viaggiammo sotto il sole del deserto tutto il giorno. A un certo momento la carovana si fermò. Sentii salire simile a un brusio, gemiti di disperazione e mia madre, per non farmi vedere, mi coprì gli occhi. Subito dopo, probabilmente ripensandoci, tolse la mano e mi invitò piuttosto a osservare. Vidi spuntare dalla sabbia stracci colorati. Una maglietta lacera e un paio di blue-jeans che sembravano vuoti, come panni stesi per terra. Più avanti un sandalo. Poi crani divorati dal caldo, affossati nella sabbia. I capelli ancora attaccati. Le braccia, le mani, rinsecchite come frutti essiccati. Dai carri un ragazzo si sporge e vomita, una donna si copre il viso con un velo. Sono tutti negri, forse vengono dal Mali, forse da qualche altra terra. Sono tutti morti già da tempo. Forse a ucciderli è stata la sete, forse il caldo, di sicuro la disperazione. La carovana riparte. Guardo ancora una volta in direzione di quel cimitero e prego Allah perché alzi il vento, perché sposti una duna su quei corpi abbandonati.
All’imbrunire arrivammo in una insenatura della costa. Che vedevo il mare era la prima volta. Si presentava quasi piatto e ncredibilmente immenso. Non si vedeva la fine! La luna, ricordo, rifletteva su delle increspature di quella infinita massa d’acqua. A risultato di quel suggestivo effetto sembrava che sul pelo marino vi fossero posati migliaia di specchietti impegnati a giocare fra loro a rimpiattino.
Salimmo su di un grosso barcone di legno, gremito fino all’inverosimile di esseri umani e dopo un’attesa estenuante si partì alla volta dell’Europa. Dalla spiaggia giungevano le urla di disperazione di chi si accomiatava dal proprio figlio, dal proprio fratello e una voce altisonante invocò – Là ilàh illà allàh -.
Io, mia madre e mio fratello Yasir, di due anni più grande di me, ci sedemmo su di un lato e guardavamo il mare. Sentivamo i saluti divenire sempre più distanti. Che amarezza sapere che su quella battigia non c’era nessuno che ci dedicasse un addio! Una volta giunti al largo ci facemmo fra noi ancora più aderenti, come se temessimo di perderci dentro a quel barcone colmo di disperati pigiati fra loro. Guardavo i miei compagni di viaggio, dai loro volti esplodevano solo occhi e le loro labbra serrate forse, erano impegnate a inseguire i pensieri che si accavallavano più dello stesso mare.
Il motore del barcone, intanto, scoppiettava. Sembrava quasi si lamentasse e forse si lamentava davvero, infatti ogni scheggia di legno vibrava, tremava. Andavamo verso il buio più fitto. All’orizzonte non si coglieva alcuna luce. Solo la luna spezzando un po’ le tenebre, ci concedeva l’illusione di sapere dove si andasse. Spruzzi di onde sollevate dalla nostra imbarcazione ci resero in poco tempo fradici. Il freddo, nonostante la stagione fosse quella estiva, ci penetrò nelle ossa. Io ero tutto un fremito. Mio fratello, che per assurdo in quella occasione appariva quasi immune al gelo, fissava il mare. Provavo a scuoterlo dalla sua assenza, chiamandolo, ma ogni tentativo cadeva nel vuoto. Come se neppure mi sentisse. Nostra madre, invece, con i palmi delle mani aperti davanti al viso, pregava. Nostra madre si chiamava Nadiria. Nostro padre Mohammed. Di lui non ricordo nulla. Se ne era andato di casa quando io neppure avevo un anno, per diventare martire. Conosco, però, il suo volto e questo perché dominava l’altare che tenevamo nella sala. Alcuni suoi fratelli di fede, mi dissero e questo lo fecero fin da quando mi giunge la memoria, che aveva sacrificato la propria vita per il bene della causa. Io, avido di notizie, ascoltavo quelle parole che avrebbero dovuto rendermi fiero del mio genitore, ma nonostante fossi un bambino, mi sembrava di cogliere in quelle argomentazioni delle contraddizioni, difatti pensavo che mio padre, senza per altro risolvere i problemi di quella causa, ci aveva lasciati soprattutto da soli. Rinunciando a conoscere e vedere i propri figli crescere, in un mondo in cui era persino complicato bere un sorso d’acqua pulita.
A un certo momento il barcone cominciò a rollare. Per l’agitazione alcuni si alzarono, come se volessero guadagnare il centro dell’imbarcazione, in piedi. Il mezzo oscillò ancora di più. La gente cominciò a strillare e il panico reso sovrano, fece ondeggiare la terrorizzata massa umana. Sulla prora del barcone un tipo inveì contro quei strani passeggeri e per farsi ascoltare esplose alcune raffiche di mitragliatore in aria. Fu come pretendere il silenzio, usando senza sosta un grosso tamburo. La calca si gettò per terra. Si diresse simile a un’onda verso la poppa e nel fare questo movimento spinse, lottò contro il vicino, travolse chi aveva accanto, di fronte. Io, abbracciato a mio fratello, scivolai sotto la panca dove eravamo seduti e venni calpestato come da mille bufali! Qualcuno a questo punto, accese una forte lampada e molte voci si unirono per chiedere allo scafista, addetto al motore, di fermarsi. Costui, armato di una grossa pistola, intimò per risposta di sedersi, di ritornare tranquilli, perché altrimenti, avrebbe aperto il fuoco. Poco alla volta ritornò il silenzio. Si udiva solo qualcuno piangere sommessamente e altri che, pregando, invocavano – Là ilàh illà allàh -.
Io e mio fratello Yasir ci alzammo dal nostro rifugio e scoprimmo che nostra madre Nadiria non era più al suo posto. Mi issai in piedi sul sedile e guardando attorno la chiamai. Fu lo sguardo turbato e vergognoso di chi mi era accanto a farmi comprendere cosa era accaduto. Mi voltai allora verso la scia spumeggiante che disegnava nel mare il nostro barcone e gridai il nome di mia madre con tutta la forza che avevo in gola. Gemendo, dissi allo scafista di fermarsi. Di recuperare la mia mamma. Lui mi guardò con occhi gelidi, avidi di solo disprezzo e puntandomi la pistola mi ordinò di sedermi perché in alternativa mi avrebbe gettato in mare. Avrei voluto farlo a pezzi! Ma ero un bambino di cinque anni, mi sentii impotente e allora piansi.
Arrivammo in un porticciolo italiano, dopo aver viaggiato tutta la notte e buona parte del giorno. Si scese dal barcone talmente sfiniti che neppure si riusciva più a piangere, a disperarsi. Fu una assistente sociale a prendersi cura di me e di mio fratello Yasir. Venendo a conoscenza della nostra vicenda umana, ci disse di considerarla come una madre. Era di certo una buona donna. Tuttavia nessuno poteva sostituire nostra madre Nadiria. Lei era rimasta a metà strada. Fra l’Africa e l’Europa. Forse, chissà, il suo corpo trasportato dalla corrente era ritornato in Marocco. E forse, con lo sguardo, prima di essere divorata dai flutti, ci ha visto allontanare fino a vederci scomparire nel buio della notte. Chissà che dolore in quel momento. Chissà se i suoi lunghi capelli neri si sono liberati dal fazzoletto che li teneva di regola raccolti. Chissà che terrore che avrà avuto. Lei così minuta, così dolce. Di lei non scorderò mai la voce, ma pure quella fettuccia dai mille colori che mi legava al polso per non perdermi nella confusione del mercato. Peccato non essere stati uniti pure in quella tragica occasione. Forse, in quella maniera si sarebbe salvata. O forse, saremmo finiti in mare insieme e invocando – Là ilàh illà allàh – avremmo lasciato, abbracciati, questo mondo che tanto di noi sembra non sapere cosa farne.