I brevissimi 2013 – La lezione di musica di Sara Palmieri_Ravenna
Anno 2013 (I sette peccati capitali – l’invidia)
Di mestiere faccio la “voltapagine”. Anzi, la “voltaspartiti”. E’ un lavoro che mi sono inventata dopo aver capito che non sarei mai diventata una pianista di professione.
Non c’erano in me né la passione, né il talento. Ho studiato pianoforte per dieci anni perché era un desiderio dei miei genitori a cui non sapevo oppormi. Mi sognavano su un palcoscenico, alla tastiera di un elegante pianoforte a coda, ad esibirmi nelle più famose sale concerto del mondo. La musica, a me, piaceva ascoltarla: c’erano stati e c’erano ancora tanti ottimi artisti a scriverla e ad eseguirla, non capivo perché dovessi sobbarcarmi io la fatica! Ero una bambina ubbidiente e sopportavo con stoica rassegnazione quei lunedì e giovedì in cui era stata fissata la mia lezione di musica.
Le mie mani scorrevano senza convinzione, spesso inceppando, sulla tastiera, tra scale e sonatine mentre la mente volava altrove. D’estate, per raggiungere la casa della mia insegnante, camminavo a lungo, nella cittadina assolata e deserta, con gli spartiti sotto il braccio, e pensavo alle mie amiche che se la spassavano al mare.
Per esercitarmi a casa, i miei avevano acquistato un pianoforte di seconda mano, che avevano fatto accordare, su cui troneggiava un metronomo. Concludere gli esercizi e srotolare sui tasti ingialliti la fascia di velluto blu prima di chiudere lo strumento, era la gioia più grande. Ho sempre odiato le competizioni e, in simili circostanze, ho sempre reagito ritraendomi. La scuola di musica era frequentata da una compagna di classe, perfettina e inappuntabile, che, non potendo i suoi permettersi un pianoforte, aveva riprodotto su un tavolo, con i gessetti, una tastiera e su quella si esercitava con risultati a dir poco brillanti. Sia l’insegnante che i miei genitori me la additavano ad esempio. “Guarda Mirella, non ha il pianoforte eppure suona benissimo!” Per quanto mi sforzassi non capivo che gusto ci fosse a suonare su una tastiera disegnata e muta. Fu così che cominciò a tormentarmi un sentimento fino a quel giorno sconosciuto. Mi serpeggiava silenzioso in petto e in fondo me ne vergognavo. Ero una bambina fantasiosa e così passavo le ore sui libri di solfeggio immaginando Mirella che diventava una pianista famosa, sui palcoscenici più prestigiosi del mondo, circondata da ammiratori estatici in camerini inondati di fiori. Ma sul più bello, alla fine di ogni performance, mentre accennava un inchino con quella sua grazia stucchevole, portandosi odiosamente la mano destra sul cuore, la facevo scivolare rovinosamente, chiudendo quei deliranti tormenti sull’immagine penosa di Mirella col vestito strappato, la pettinatura scapigliata, il make up disciolto. Solo allora mi si stampava sul viso inebetito un ineffabile sorriso.
Oggi Mirella – quarantenne single e precaria – insegna in una scuola media, non fa concerti e non è diventata famosa. Io invece volto le pagine nel teatro della mia città di provincia. Sono molto richiesta dagli artisti perché sono bravissima e non mi distraggo mai. Sono un “tecnico”, che sa leggere la musica. Quando arriva l’ultima battuta sono già pronta a voltare la pagina, cercando di farmi piccola e invisibile. Lo scroscio degli applausi che chiude ogni concerto appartiene anche a me e se le luci della ribalta illuminano soltanto il pianista, è come se avessi suonato anch’io. Mi sento appagata ed orgogliosa perché ho voltato la pagina al momento giusto e la musica non si è interrotta: le note dei minuetti o delle arie, diesis e bemolle, hanno volteggiato tra la gente e l’hanno avvolta con delicatezza come piume di struzzo. Sul palcoscenico salgo dunque ogni sera, come volevano i miei genitori, come non è riuscito fare a Mirella.