La madre_Marina Cianferoni
_Estrae con violenza una sigaretta da un astuccio di plastica prima di gettarlo nella sacca da mare a fiori, stracolma, che ha messo sulla sdraio non appena arrivate in spiaggia.
La madre si concede un attimo di tregua, aspirando una boccata rabbiosa e sistemandosi il bikini su un corpo di mezza età, che ha visto giorni migliori. In uno dei momenti di oblio che la prendono da qualche anno, alza uno sguardo avido alla spiaggia, al mare oltre la barriera di ombrelloni, mentre la brezza le spettina un ciuffo di capelli striati di biondo. “Voglio godermela!” sbotta internamente. “Cosa ho fatto di male?”.
Ha appena tolto le scarpe ad una figlia forse ventenne, che le ha teso le gambe legnose senza una parola, come sempre gli ultimi tempi, con l’aria di dirle: “Tu m’hai fatto. Toglimele”. Subito dopo, la ragazza, bionda anche lei, occhialuta, si stende con goffa cautela sul lettino: il corpo inguainato in un bikini a colori forti che la fascia e la nasconde allo stesso tempo, lasciando appena indovinare la malattia, suo malgrado inconfondibile nel volto. Quindi, infila le cuffie dell’I-Pod per ascoltare quella musica che da poco tempo le ha scatenato dentro una sorta di ribellione tardo-adolescenziale. Suona improbabile, tra i suoi altri atteggiamenti da eterna bambina, ma la sta applicando alla lettera contro la donna che l’ha messa al mondo confidando nel futuro.
A poca distanza, la ragazza ha lasciato il suo bambino: uno di quegli enormi bambolotti ultima generazione, che sempre più rassomigliano in maniera stupefacente ad un originale in carne ed ossa, ma che nella fissità degli occhi e in un’immobilità innaturale, non cessano di suggerire l’orrore dell’inanimato.
“Fosse vero” sfugge all’improvviso alla madre, durante il monologo interiore che non cessa di ronzarle in testa da quando la figlia è nata e il marito se l’è data a gambe. Da allora, la sua normalità è diventata quest’altra: il mondo degli anormali; delle associazioni cattoliche che aiutano le famiglie, in estate, mettendo a disposizione un paio di file di ombrelloni perché almeno i giovani down possano socializzare e forse, un giorno, trovare un compagno e metter su famiglia. Forse. Un giorno.
È questo, ora, il sogno della madre: ha imparato a conversare con gli amici della figlia, che le si avvicinano a chiederle se anche lei sarà della banda, quella sera, per guardare la partita alla TV della pensione; e mentre si adatta alla loro parlantina infantile, ai toni e ai gesti, la donna si chiede quale sarebbe il partito migliore. Stirata sulla sdraio come una vecchia gatta sotto il sole di giugno (giugno è il mese per la fuoriuscita degli anormali), va indugiando sui loro corpi su cui l’età si fa spazio forzando i connotati immutabili; a volte, pensa con stupore, dando l’impressione fugace che nessun cromosoma 21 abbia mai alterato il loro DNA, e che siano solo una razza a parte.
No, la dimensione di quegli altri non le appartiene più: se l’è lasciata alle spalle come la pagina già letta di un libro. Ora non può che concentrarsi sul presente, come se nulla fosse successo; facendo finta di vivere infilando un costume in vendita sopra il suo, e chiedendo “come mi sta?” a madri dalle facce più stanche della sua. Confida nel futuro, anche, per la sopravvivenza: la propria, finché sua figlia vorrà ancora schiavizzarla e tenerle il muso, e quella di lei, perché possibilmente trovi la sua strada. Forse. Un giorno.
Ma si è di nuovo sorpresa a pensare. “Zitta! Stupida!”. Allora ficca la cicca spenta un palmo sotto la sabbia e si solleva, brusca (solita sensazione, del contrappeso immane del proprio ventre svuotato). Poi affonda la mano nella borsa a fiori, in cerca del portafoglio: “Vado a prendermi un caffè. Te resta lì, all’ombra”.
Ma la figlia bionda e ingrugnata non la guarda nemmeno: ha preso il bambolotto, e se lo è messo al fianco dove fa finta di cullarlo al suono di quella musica, dopo averlo allattato. Il seno grosso ce l’ha, giusto? sembra dire. E tutta la vita davanti.