La mia Africa_Angela Falconieri, Terlizzi(BA)
_Racconto finalista diciassettesima edizione Premio Energheia 2011.
Sono salito su questo treno. Sono qui seduto, cabina 4 posto 6. Non so perché l’ho fatto, anzi no, lo so benissimo. Io devo tornare a casa perché ho una famiglia, dei figli, degli amici.
In realtà non so neanche perché sia partito. Forse perché sono uno di quegli uomini occidentali pieni di sé, che camminano per strada a testa alta o che sfrecciano con le loro macchine per le strade delle metropoli, sono uno di quelli che non si ferma davanti a nulla, forse sono partito perché volevo dimostrare qualcosa. Fino ad un mese fa avrei sicuramente affermato “io sono un eroe”. Invece no, adesso affermerei “sono uno dei tanti occidentali pieni di sé”. Stupidi occidentali. Un mese fa, l’11 giugno, ero su questo stesso treno, così sicuro di me e con quell’odiosa aria da eroe, del tipico occidentale, in fondo, con la mia 24 ore ed il mio impeccabile smoking. Durante il viaggio non ho detto una sola parola, se non alla ragazza seduta di fronte a me che continuava a battere il piede per terra, seguendo il ritmo della musica del suo mp3. Stanco di quell’orribile ticchettio le ho detto: “INSOMMA, SMETTILA!”. Lei non si è arrabbiata, non ci è rimasta affatto male. Mi ha regalato il sorriso più bello che abbia mai ricevuto, poi mi ha detto: “Ehi occidentale, sei diretto in Africa? Forse dovresti cominciare ad ascoltare un po’ della loro musica. Loro ti danno il ritmo. Il ritmo della vita, tieni”. Poi si è tolta le cuffiette dalle orecchie e le ha date a me. Ovviamente, mi sono rifiutato di prenderle e le ho detto che non volevo andare in Africa per sentire la loro musica, ma per fondare un’impresa, come ogni eroe che si rispetti. Lei ha ripreso l’mp3, questa volta non ha sorriso, ha abbassato lo sguardo e ha ricominciato a battere il piede per terra. Non vedevo l’ora che quel viaggio terminasse. Guardavo continuamente l’orologio: lì, in quella cabina, c’eravamo io ed il mio orologio. Non ho rivolto, neppure una volta, lo sguardo fuori dal finestrino. A me non importava nulla della savana, volevo soltanto arrivare a destinazione, volevo solo mettere in piedi un’industria che portasse il mio nome. Di preciso, non sapevo neppure perché avessi deciso di partire, in realtà il mio stipendio era già più che soddisfacente. Durante il mio soggiorno in Africa, ho fatto un viaggio alla scoperta di me stesso, in un luogo dove nulla mi avrebbe disturbato, dove non ci sarebbe stata la vibrazione del mio cellulare, il rumore dei motori sotto casa o la voce di qualche politico che in tv fa sfoggio della sua mancata cultura. Questo è quello che ho fatto, nient’altro. Quando sono arrivato nel Burkina Faso, non credevo sarebbe stata l’esperienza più significativa della mia vita. Appena sceso dal taxi, sono stato circondato da una miriade di ragazzini, alcuni volevano aiutarmi a trasportare le valige, altri volevano vendermi caschi di banane, tutte andate a male. Io, per loro, non ero un uomo, ero una fontana di dollari.
Mi chiedevo perché continuassero a sorridermi, molti di loro erano denutriti, altri avevano una strana malattia, “l’ulcera del Burundi”. Ne avevo sentito parlare qualche volta, forse durante un convegno. Si, proprio lì. Avevo visto anche di cosa si trattasse mentre un professore faceva scorrere alcune diapositive sul suo pc e spiegava come avrebbe potuto curare questa malattia. Ricordo che il professore l’aveva definita “una nuova forma di lebbra”. Immaginavo che gli uomini affetti da quest’ulcera fossero sofferenti, invece quei ragazzi sorridevano.
Mi vergogno a dirlo, ma ebbi pietà di loro e decisi di dar loro qualche soldo. In realtà, forse, loro avevano pietà di me. Non sono un medico senza frontiere o uno di quelli che lavorano e che non hanno scopi di lucro, anzi. Il mio unico obiettivo era quello di fondare quell’industria, in un paese dove la manodopera è bassissima e i diritti dei lavoratori sono inesistenti. Io, in Africa, ero assolutamente fuori luogo, ma ci ero andato lo stesso. Certo, lì non c’era la mia villa a due piani, alloggiavo in un centro d’accoglienza per i “senza – tetto”. Andavo lì solo per dormire. Odiavo quell’odore che si percepiva appena entrati, una puzza di “povero”. Lo so, mi odio per il semplice fatto di aver pensato le suddette cose, ma non posso negare di averlo fatto. Per i primi 4 giorni, ogni qualvolta qualcuno tentava un approccio con me, mi allontanavo con fare stizzito. Strano pensare che sono lo stesso uomo, che poco tempo fa ha respinto l’abbraccio di un bambino. Una delle prime sere al centro d’accoglienza, un bimbo mi ha abbracciato, ha macchiato il mio smoking. L’ho allontanato immediatamente. Ma cosa ci facevo io lì, con uno smoking?? Questo non lo so. Forse dovevo semplicemente salvaguardare la mia identità, forse volevo dire loro “Io sono bianco, navigo nell’oro, sono felice”. Ma che felice, Felice solo di nome. Non sono mai stato davvero felice, però. A pensarci, odio il mio nome. Io non so cosa sia la felicità, gli africani ce l’hanno innata.
Se mi chiedessero cosa ricordo di più del mio viaggio io risponderei sicuramente un “sorriso”. Si proprio così. Il sorriso del quale parlo è quello di Leon, un ragazzo di circa 10 anni. L’ho conosciuto il quinto giorno della mia permanenza.
Ero deciso a tornare e avevo più volte pensato – Al diavolo l’impresa! Poi però ho conosciuto Leon. Ecco, lui non mi ha parlato inizialmente, non mi ha chiesto nulla, non mi ha neppure abbracciato. Ha sorriso e ricordo ancora quei suoi denti bianchi, incorniciati da quel volto nero e dai suoi ricciolini.
Poi, ha cominciato a ballare e a cantare e mi ha trascinato con sé. In quel momento ho pensato alla ragazza del treno. Avrei voluto tornare da lei e cominciare a battere il mio piede per terra. Anch’io cominciavo ad avere ritmo, anch’io sentivo un po’ d’Africa in me. Ma non potevo tornare indietro. Chissà dov’era andata quella ragazza e poi, chissà se avrebbe voluto vedermi. Lei mi considerava un uomo senza un briciolo di coscienza, o forse mi considerava semplicemente un uomo infelice. Adesso non mi vergognavo di ballare, io che non avevo mai ballato neppure con mia moglie. Ma Leon mi aveva trascinato con sé, proprio come un vortice, ed io, all’improvviso, non pensavo più a nulla. Io e Leon restammo a parlare per ore ed ore. Gli parlai di mia moglie, parlai poco dei miei bambini, e poi cominciai ad elencargli tutte le industrie che avevo fondato e a dirgli che ero molto ricco. Lui mi guardò e mi chiese: – Cosa ci fai con tutti i tuoi soldi? Sono infiniti? Io credo di no, un giorno finiranno, e tu della tua vita non ricorderai nulla, se non le tue imprese. Hai un hobby, una passione? –
Io gli risposi che da ragazzo suonavo la chitarra, ma che non mi interessava affatto. Ero un uomo realizzato e non mi serviva avere qualcosa che mi facesse perdere, inutilmente, il mio tempo. Leon zittì, poi mi condusse in un’immensa distesa di sabbia e disse: – Ecco la mia passione: a me piace osservare il deserto, pensi che sia degno del mio tempo? A volte, penso che mi piacerebbe contare questi granelli di sabbia, a volte mi sento anch’io uno di loro. Mi sento un granello, ogni volta che non posso far nulla per il mio popolo, per la gente che ne ha bisogno. Prova a prenderne uno, se ci riesci. Sono così piccoli che sfuggono tra le tue dita. Eppure guarda, insieme formano un’immensa distesa, non riesci neppure a distinguerli. Sono infiniti, non come i tuoi soldi. Io mi sento forte, non sono solo. Tu sei solo? -. A questa domanda non riuscii a rispondere, avevo mia moglie e i miei bambini, ai quali portavo ogni giorno un regalo. A loro volevo davvero bene, ma non passavamo molto tempo insieme. Di amici non ne avevo molti. Tuttavia avevo molti assistenti, diciamo pure utili conoscenze. Ma in fondo, io non sapevo bene cosa significasse il verbo “amare”, o forse, lo avevo semplicemente dimenticato, troppo preso dalla mia routine per pensare che a casa Mattia e Marco mi stavano aspettando, e che se Anna mi chiedeva così spesso di uscire tutti insieme, di andare al cinema, non era perché si annoiava tutto il giorno, ma perché voleva passare del tempo con me. Adesso, sapevo cosa rispondere, ma Leon non c’era, era andato via, forse camminava nel deserto. Io tornai al c’entro d’accoglienza. Ero pensieroso e quella sera andai a letto senza proferire parola, non avevo nessuna voglia di parlare.
Da quel momento in poi, ho abbandonato l’idea dell’impresa e ho cominciato a pensare che il mio fosse un vero e proprio viaggio di piacere. Sono stato nella savana, partecipavo a tutte le feste del popolo e mi fermavo ore ed ore ad osservare il deserto.
Ogni tanto, passava una donna con un’ampolla sul capo, andava a prendere l’acqua dai pozzi. Era straordinario il modo in cui riuscisse a non far versare neppure una goccia d’acqua.
Era maestosa e aveva un fantastico equilibrio. Aveva moltissime treccioline nere e due occhi grandi e luminosi, sorridenti.
Il suo sorriso mi ricordava tanto quello di Leon. Quando quel bambino era felice, sorrideva ogni singola parte del suo corpo, ogni centimetro della sua pelle. Non avrei mai più rivisto quel ragazzino, che pure mi aveva trasmesso molto, mi aveva tirato fuori dal mio piccolo mondo e mi aveva fatto sentire un granello, fino a privarmi della mia onnipotenza. Trascorrevo le mie giornate tutte allo stesso modo, eppure in ognuna di esse c’era qualcosa di diverso dalla precedente, i rumori, gli odori.
La natura in Africa prende voce, parla proprio come noi. Lo fa attraverso gli animali, i fiori, le foglie, l’acqua, il deserto. Parla in tutti i modi possibili e la gente la ascolta. La gente ascolta e sorride, sorride ininterrottamente. Avrei voluto che la mia permanenza in Africa non avesse fine, eppure dovevo tornare.
Adesso sono un uomo diverso. Sono nuovamente qui, seduto, e osservo la savana. Ogni tanto scivola qualche lacrima sul mio volto. Poi penso a Leon, a Marco e Mattia. Infine penso ad Anna. Sto tornando da lei. Chissà cosa penserà mia moglie quando si troverà davanti un uomo diverso da quello che ha sposato, chissà come reagirà quando l’abbraccerò come se non la vedessi da 10 anni. Chissà se sarà felice di vedermi. Io lo sono. Voglio renderla felice, voglio uscire con la mia famiglia tutti i giorni, voglio riempire i miei bambini d’affetto, voglio dare loro un padre, non un impresario. Voglio stringerli a me, come ho fatto il giorno in cui sono nati. “Stazione di Milano, stazione di Milano”. Devo scendere, sono a casa. Ho lasciato parte di me in Africa, ma penso di avere portato gran parte di essa in me. Lascio il mio orologio sul sedile. Voglio cominciare a godermi il tempo, la vita, voglio vivere con il ritmo, non con il ticchettio di un orologio. Come dice un proverbio Africano, noi abbiamo l’orologio, ma loro hanno il tempo. E’ questo ciò che vorrei imparare a fare anch’io. Sono rinato. Da oggi comincerò da zero.