I racconti del Premio letterario Energheia

La morte dell’Angelo, Samuele Calabria_Trieste

Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione adulti

Un flebile zèfiro alitava spasmodicamente sulle vesti stracciate e martoriate di Elisa. Anch’essa, dopotutto, sentiva di appartenere alla stessa condizione di quelle vesti succise; ma mentre queste s’erano involte di un’aria tragica, come si fossero insperanzite, Elisa aveva mantenuto quel lineare ghigno alcionio che l’era valso il permesso, accordatole dalle truppe di occupazione, di lasciare il villaggio e andarsene dovunque ella avesse voluto, purché non tornasse più. Aveva esperito, abbandonando la maggior parte dei suoi averi, la sua casa, i suoi terreni, la svenevolezza di chi, di sua spontanea volontà, veste i panni dell’esule e sceglie di partire, di cambiare.

Quella placida blandizia non era invece riuscita a penetrare nell’animo della madre Matilda, forse perché stanca, forse perché debosciata da una vita che pareva donare eterne sicurezze, tra cui spiccava la certezza della sedentarietà, dell’appartenenza, della stabilità; una vita che, dopo qualche belligerante istante, ai suoi occhi così insignificante (Matilda si era già imbattuta in altre guerre, e aveva sempre mantenuto quell’atteggiamento sornione che le aveva permesso di sopravvivere e di non inimicarsi i soldati, alleati od occupanti che fossero), aveva, per la primissima volta, significato il totale stravolgimento della sua abitudinarietà. E lo struggimento che aveva seguito il trauma della sorpresa l’aveva gettata in uno stato di rabbia e desolazione mai visti. Matilda non ne comprendeva a fondo le ragioni, ma intuiva che non avevano a che fare con la guerra in sé; e nemmeno, seppur tutto ciò giocasse una importantissima parte nello scaturire della sua ira indefinita, l’aver perduto, dal giorno alla notte, i cimeli, i possedimenti e tute le chincaglie che riteneva più sue di qualsiasi altra cosa, anche della sua vita. Ciononostante, Matilda captava quel suo stato e ascriveva il suo indecifrabile malessere al modo, inaspettato quanto terribile, in cui aveva dovuto rinunciare alla sua esistenza d’un tempo: insomma, alla sua abitudine.

– Dovevi proprio comportarti in quel modo?, rimproverava spesso alla figlia, la quale adesso, appoggiata su d’una staccionata accanto a quella che pareva essere una fattoria improvvisata, le braccia incrociate e il capo chino, rispondeva sonoramente alla madre, seduta su d’uno sgabello di legno, con un silenzio e un’indifferenza che Matilda non sopportava. E si corrucciava a tal punto da dover smaltire tramite degli sbuffi incolori il pressante stimolo di riversare addosso a Elisa tutto il suo disprezzo per quella loro penosa situazione, per le scelte della figlia; per l’aver dovuto sopportare che la figlia, per lei un bene tra i tanti, desse via come niente capra e cavoli, mollasse ogni avere e prendesse la decisione di andarsene dalla sua patria, trascinando con sé la povera madre.

– Disgraziata!, bofonchiava sordamente, per poi mugugnare insulti e ammonimenti a casaccio, ma pur sempre rivolti alla figlia ingrata, alla sua indifferenza diabolica, al suo atteggiamento da salvatrice. Era questo, dopotutto, che più rodeva le interiora della madre, ancora troppo giovane per quella saggezza senile che spinge a scovare anche nell’azione più meschina un atto di sopravvivenza e a provare una pena salvifica per chi l’ha commesso. Essere stata soppiantata nella gerarchia famigliare: ecco ciò che detestava e che alimentava il suo odio imprecisato, che affluiva ruscellando tra le sue parole e che si riversava sulla figlia ingrata. Dopo la morte del marito, un «brav’uomo, semplice ma determinato, un gran lavoratore!», (era questa la descrizione del padre che Elisa, fin dalla turbolenta infanzia, aveva impresso nella sua mente, e che sentiva ripetutamente recitata da conoscenti, parenti, amici stretti, e ovviamente anche dalla madre); dopo la morte del marito, Matilda era divenuta l’unica fonte di ricchezza della famiglia: era finalmente il fastigio della gerarchia, l’unica autorità. Ciò le aveva permesso di stabilire quei rapporti di forza che, soprattutto nei villaggi e nei paesini più isolati, permettono al patriarca, e in questo caso alla matrona di innalzarsi e apparire al pari di un capo, di una guida. La voce di Matilda era legge, egualmente a quella della madre superiora in un monastero di clausura. E se la legge veniva infranta, oppure non rispettata, le conseguenze erano ovvie. Nessuno aveva mai osato contestare le scelte di Matilda: le sue figlie più grandi, nonostante non aspettassero che di maritarsi e fuggire dal nido famigliare, non ebbero mai avuto il coraggio di contraddirla. E in minor misura i suoi due figli, l’uno sposatosi con una contadina, loro vicina di casa, poi arruolato nell’esercito e mandato in guerra, l’altro partito volontario (probabilmente per sguisciar via dalla prigione materna).

E allora, quanto più violenta doveva essere la folle rabbia provata a causa dell’impertinenza dell’ultima venuta, di Elisa, una ragazzina lungi dall’oltrepassare il solco della maggiore età, poteva saperlo soltanto Matilda. Ella si era infatti vista sottrarre la guida della casa, dei terreni, degli affari, delle relazioni con i vicini e con i membri del villaggio, a poco a poco; e tutto questo era degenerato con lo scoppio della guerra. Elisa, energica di spirito ma tutt’ora inesperta, aveva l’audacia ingenua dei fanciulli: diceva in faccia le cose che doveva dire, senza mezzi termini; e anche se il suo atteggiamento le procurava molte sconfitte, alla fine, per la sua determinazione, riusciva a ottenere quel che voleva, a far girare il mondo a modo suo. Sua madre, tutto ciò, non poteva tollerarlo.

Fu un colpo al cuore per Matilda sapere che sua figlia, quella «pisciona saccente», aveva deciso di dar via la casa, i campi, di lasciare il villaggio ed emigrare, «come quegli sporchi negri», da un’altra parte. Non concepiva il fatto di essere stata messa in secondo piano. Ma, sopra ogni altra cosa, era intollerabile la consapevolezza che adesso dovesse dipendere interamente dalla figlia, che la sua stessa vita dipendesse da una «sgualdrinella ignorante».

L’aveva definita così: quando, per poter rimanere in quella baracca sudicia, quella fattoria dove alloggiavano, dalle pareti ricoperte di gromma e muffa e dall’atmosfera irrespirabile, avendo finito i soldi, Elisa aveva dovuto tramutare il suo corpo adolescente in moneta di scambio. Il disdoro che Matilda provò per quel gesto fu la sua più grande umiliazione. Sapeva benissimo, Matilda, che fosse normale, una cosa assodata, che ai rozzi uomini di campagna, agli «uomini semplici», piacessero le ragazzette illibate, ancora pure e «non usate». E, in fondo, non provava alcun odio nei confronti di questi uomini: ascriveva, invece, tutta la colpa al fascino irresistibile delle fanciulline, così limpide e trasparenti, immacolate. «Quelle lolite», pensava, «sono la nostra rovina». E sapeva benissimo che sua figlia era una di esse.

– Dev’essere rimasto molto insoddisfatto da te, se ci ha gettate sulla paglia accanto al fango dei porci, come fossimo bestie!

Elisa non mostrava il ben che menomo segno d’interesse per le frecciatine della madre, per i suoi discorsi, per le sue opinioni. Non mostrava, a dire il vero, alcun vivo interesse nei confronti di Matilda come individuo, che considerava più un gravame accollatosi a lei per disperazione, piuttosto che sangue del suo sangue. Ciononostante, Elisa non era mai riuscita a liberarsi da quell’obbligazione doverosa, totalmente istintuale, che spinge i figli a curarsi dei genitori. Sua madre era pura presenza, un fantasma di carne, ossa e pensieri che la perseguitava, che la puniva, ma del quale, sebbene la colpa di cui l’accusava, doveva prendersi cura. La colpa, non la conosceva nemmeno Elisa.

Ella pensava, or ora, che tra poco sarebbe dovuta tornare nella camera di quel lercio fattore per soddisfarlo e guadagnarsi un’altra notte sotto un tetto, oltre che un pasto caldo (una minestra fatta con gli avanzi del pranzo del fattore, o la stessa porcheria che veniva gettata con noncuranza ai maiali). –

Io entro dentro, si sta ingrigendo tutto il cielo!, diceva intanto la madre, come per ricordare alla figlia della sua sussistenza e per destarla da quello sguardo sconsolato e anodino che l’aveva catturata fin dal momento della partenza dal villaggio. Matilda si alzò dallo scanno con tanta foga da ribaltarlo, inzaccherandosi le scarpe e le calze.

– Ah! al diavolo!, arrangolò smorzando le parole. Vedi di fare un lavoro migliore stavolta, mi sono stancata della solita zuppa insapore!, urlò, allontanandosi, alla figlia. Malgrado avessero trascorso solo due giorni in quella fatiscente fattoria, Matilda già mostrava i segni dell’impazienza e della noia. Non si poteva dire lo stesso di Elisa, che, svanita finalmente la madre, poteva lasciar scendere le lacrime e disfarsi, almeno un poco, di quella maschera guerriera che aveva indosso dall’inizio del viaggio, e forse da ancor prima. Una maschera che sulla superficie mostrava il coraggio annichilente di chi ha sperimentato il taedium vitae e che adesso lo esercita come dottrina per la propria esistenza, ma che, all’interno, ascosto da sguardi indagatori e dall’indiscrezione dei mediocri, cela il viso consunto e martoriato che ha dovuto assistere al furto della propria infanzia, ormai irrecuperabile, perduta per sempre.

Elisa osservava sempre più ossessivamente il declivio di fronte a lei, colmo d’erba secca, talmente ingiallita da far apparire quella che doveva essere la stagione della rinascita come un adusto periodo di desolazione e morte. Non riusciva a smettere di piangere: si tergeva le gote arrossite e qualche secondo dopo le ritrovava rigate nuovamente da fresche e pungenti lacrime. La sua figura era come sericea, incorporea, immobile in quel misero stato. Le vesti avevano smesso di muoversi, la calda brezza aveva cessato di gemere. I pensieri girovagavano stupidamente là, verso quei ricordi, che ella avrebbe voluto una volta per tutte dimenticare. L’acredine incivile della madre l’aveva abbattuta, diseredata dal ruolo di bambina e scagliata violentemente nella dimensione dell’età adulta. Ma Elisa non capiva più, non distingueva ciò che poteva essere considerata la normale esistenza di una bambina da quella di una donna adulta. Non si capacitava di come, nonostante il suo sguardo innocente, il corpicino così minuto, quantunque sviluppato, la sua aria da ragazzina, alcuni uomini, quei «soldati stranieri» di cui tutto il villaggio parlava, avessero potuto trattarla, in quell’occasione, come una donna. O meglio, come l’immagine che quegli esseri avevano delle donne: strumenti, giocattoli, bestie da monta. Erano arrivati davanti alla porta di casa, oltre il recinto che avevano abbattuto senza pensarci su, avevano sputato per terra, parlato con la madre, le avevano chiesto un po’ di cibo, poi avevano allungato le mani; Matilda si era immobilizzata, dietro di lei si nascondeva, semivelata dietro l’uscio della porta della cucina, Elisa, col suo visino magro, ma tutto teso verso l’azione. Si era scostata dal suo immobilismo e si era frapposta tra i soldati e la madre. Questi l’aveva guardata come si guarda un cane randagio che difende un fanciullo da un’aggressione: gli si è grati, ma in lui si scorge l’eterno aroma del randagio, della bestia.

Elisa aveva subito attirato la vista dei soldati; e questi l’avevano squadravano senza dire nulla, con un sorrisetto ebete e tutto impermalito per essersi visti sottratta la preda davanti al naso. Indagavano ogni piccola parte della creatura che si era radicata dinanzi a loro in difesa della madre. Uno di loro disse qualcosa, e furono pochi attimi, lì, con la porta spalancata, che l’indifesa Elisa capì cosa avrebbe significato continuare a vivere nel villaggio.

I vicini e gli altri paesani vennero a conoscenza del fatto in men che non si dica. La reazione che generarono fu quanto più disumana, forse peggiore del gesto di quei soldati. Additarono Elisa come una prostituta, e le riservarono il trattamento che si confaceva al suo nuovo status di subumana, di animale selvaggio.

Fu per questo che Elisa decise di andarsene; e la madre, senza più spirito né iniziativa, senza più voglia di combattere e lottare, la madre che si era fatta difendere da una figlioletta sprovveduta, che aveva preferito macchiare la vita della figlia piuttosto che portare ella stessa la croce; la madre, umiliata e inutile, non ebbe da che ridire. Si limitò a murmuri lamentosi, e, ancora una volta, ascrisse la colpa alla povera Elisa. «Se fossimo rimasti», diceva, «non ci avrebbero più dato fastidio, dato che si erano già divertiti. Ma tu hai voluto fare di testa tua! Roba da non credere… Bah!».

Poche certezze rimasero a Elisa, dopo aver lasciato il villaggio: che la sua famiglia, indifferentemente dal reale stato dei suoi parenti, era morta quel giorno; che quel villaggio poteva bruciare, e tutti i suoi abitanti finire all’inferno; e che all’inferno ci sarebbero finite anche lei e sua madre. Perché, ormai, Elisa, anche senza prove concrete, si era convinta di essere la portatrice della colpa, una colpa indefinita, ma la cui punizione era concreta: l’orrore del vuoto, l’insignificanza del continuare a vivere.

Il vento ricominciò a soffiare. Il fattore, sporco di mota e di escrementi, si fece avanti ad Elisa, da dietro le carezzò i capelli e annuso un po’ il suo odore. Emise qualche afflato misto a qualche parola, incomprensibile. Poi prese Elisa per un braccio, la guardò ridendo e la trasse stretta a sé. Iniziò a palpare la sua pelle delicata: le toccò le guance, poi il mento, gli aurei capelli che veleggiavano unti e secchi e che le coprivano l’ampia fronte. Si stancò fulmineamente di quelle smancerie romantiche e si precipitò in ginocchio. Elisa restò immobile mentre il fattore le alzava il lungo orlo del vestito verde, estremamente sbiadito, solcato da alcune rose qua e là. Sapeva già, quella povera fanciulla, che doveva fare ciò che era necessario per sopravvivere.

Tuttavia, Elisa, in quegli attimi, buttò via il conato per la vita, la volontà di sopravvivere, e, per la prima volta dopo anni, si rese conto di essere una ragazzina, un essere umano, di desiderare qualcosa, qualcosa di diverso da quella quotidiana violenza, da quegli interminabili abusi. Sferrò allora un energico calcio dritto allo stomaco del fattore, il quale emise uno stridente e acuto gridolino per il dolore. Si accasciò dipoi a terra, prono; fiotti di saliva rossastra gli uscivano dalla bocca, gli occhi erano nascosti dalle palpebre. Si raggomitolò e assunse una postura embrionale: ogni arto, ogni andito del suo corpo si contorcevano. Il suo viso divenne ben presto una smorfia urlante. Elisa provò disgusto, paura, costernazione, ma anche una forte voglia di andarsene, la stessa voglia che aveva provato allorché ebbe deciso di andarsene dal villaggio.

Il fattore tornò ad urlare, questa volta alitando grida e bestemmie, insulti di vario genere. La madre, che sentì dalla baracca il frastuono e le grida, accorse immediatamente. Giunta davanti allo steccato, guardò con occhi spalancati e increduli la scena, mollò un potente schiaffo a Elisa, la quale cadde a terra, e si mise a soccorrere, senza però fare praticamente nulla, il gemebondo urlante.

Questi dopo un po’ si riprese, si mise in piedi a fatica; Matilda gli era intanto andata a prendere dell’acqua, che poi porse all’uomo in una caraffa. Il fattore bevve fino all’ultimo sorso, ma subito vomitò il liquido che aveva appena bevuto.

– Quella stupida puttana!, continuava a gridare. Matilda non sapeva che fare, Elisa era rimasta stesa al suolo, e non sapeva che pensare. Di nuovo, un’aria incurante e anodina aveva fatto breccia in lei e le aveva ridonato quel guardo indifferente e freddo.

– Andatevene, via! via! ora! tu e quella stupida puttana! Matilda provò a giustificare il gesto della figlia, ma l’uomo non volle sentire storie. Se vi ritrovo qui vi ammazzo!, si limitò a esclamare a Matilda. Elisa, nel frattanto, si era alzata e aveva corso giù per la piccola collinetta sopra la quale sorgevano la baracca e la fattoria. Non sapeva che fare, e che pensare. In realtà, non pensava a niente. Voleva solo andarsene, partire, vagabondare nuovamente; fino a un’altra fattoria, fino a un altro villaggio, verso l’ennesima brutalità.

Passarono non più d’una decina di minuti, ed Elisa, ancora ferma alle pendici della collina, vide correre in sua direzione la madre. Questa aveva ogni muscolo della faccia in tensione, tanto da far trasparire le rughe che iniziavano a comparire sul suo viso. Giunta a un nonnulla da Elisa, Matilda le tirò un altro schiaffo, le prese i capelli e iniziò a insultarla. Elisa, oltre che una sottile smorfia per il dolore, non comunicava nulla; era come se non le importasse più, come se ci avesse fatto l’abitudine.

– Come hai potuto farlo? Dove cazzo credi che andremo? Lurida puttanella, chi ti credi di essere? Ti odio! Prima il mio uomo, poi la casa e il villaggio, e ora questo! Come credi possiamo sopravvivere? Dannata sgualdrinella egoista!

Il visino da bambola di Elisa si riempì di uno strato pulviscolare: la saliva della madre. Matilda aveva iniziato a picchiare Elisa, sferrando schiaffi e pugni, su tutto il corpo, ma principalmente in faccia. Dopodiché, prese dalle tasche di Elisa alcuni pezzettini di pane, sputò sulla figlia ingrata e se ne andò, percorrendo la strada sterrata che sorgeva lì vicino. La destinazione non importava.

Elisa tossì, tossì molto. Quello spettacolo farsesco le era parso più inconsistente, più irreale di qualsiasi altro nella sua breve vita. L’ira che riversò verso il mondo e l’umanità si tramutò in una contrizione sterminata. Si tastò le guance e il naso, croii e tumefatti, così come tutto il suo viso. Stille lacrimose subissavano in alternanza con fiotti di sangue. Le mani piccine stringevano fili d’erba secca e s’interravano nella terra, sollevando alcune piccole glebe. Per le dita, scorrendo giù, in basso, fino al suolo, il sangue macchiava quel giallore nerastro di cui s’era dipinta la terra col suo diaspro colore. Su quella creatura, supina, tremante, iniziò a riversarsi la pioggia primaverile. Quell’equorea linfa, che il terreno avrebbe nutrito con parsimonia, dissimulava, come fosse stata mandata da Dio, il lagrimoso dolore del piccolo angelo, che aveva digià chiuso le faci azzurre, e si era lasciato cullare dalla corrente dello zèfiro e dal suono della pioggia verso il sonno estremo.

L’ultima cosa che sentì Elisa fu il croscio della pioggia sulle sue membra e tutt’attorno a lei. L’effluvio di petricore le riempì le nari. Il suo viso si fece sereno, dilavato del sangue dall’acqua celeste. Il corpo suo tutto si rilassò e abandonò la rigidezza che aveva provata da quando era venuto al mondo. L’ultimo suo pensiero si levò al padre, che prima di chiunque altro aveva infranto la fragile bellezza di quell’anima pura. L’ultima sua preghiera andò alla madre, che non seppe mai odiare e che continuò ad amare fino alla fine. L’ultima domanda, la rivolse a Dio, e fu la domanda che non avrebbe mai avuto il potere di porre a nessuno, poiché sapeva già la risposta ch’ogni uomo, ogni donna le avrebbe dato. Ma a Dio lo poteva chiedere; poteva finalmente chiedere: perché?