I racconti del Premio letterario Energheia

La noce, Rodolfo Andrei_Roma

Racconto finalista venticinquesima edizione Premio Energheia 2019

Tutti in paese la chiamavano Bianca, ma il suo vero nome era Adele.

Faccia pulita, sguardo dolce ma deciso, e una vitalità che le sbocciava fuori

da tutti i pori con una prepotenza inaudita. Erano i primi anni ‘40, così bui

e incerti per tutto il popolo italiano e, nonostante tutto, proprio grazie a

queste sue virtù Bianca riusciva ad affrontava quel periodo così

preoccupante sempre con il sorriso sulle labbra.

Con la propria amatissima bicicletta marca Bianchi Campagnolo, Adele

aveva instaurato un rapporto così particolare a tal punto che le era valso il

soprannome di Bianca. Quell’umile mezzo di trasporto a due ruote,

dall’inconfondibile color celeste chiaro, era la sua infinita gioia, anche se

ad ogni pedalata concepiva un cigolio così fine e penetrante tanto da essere

udito da centinaia di metri ancor prima di entrare in paese.

Tutti i giorni Bianca, appena finita la scuola, percorreva chilometri di strada

con la propria bicicletta per andare al podere delle Casalte da zia Lisetta,

costretta a letto da diverso tempo, per portarle qualcosa da mangiare.

Bianca amava moltissimo fare quel percorso: uscita dal paese si immetteva

nella strada del Cavernano, oltrepassava Poggio Faloppo, affrontava il

salitone di Fontecornino e, poco dopo, si trovava davanti alla vecchia

fattoria di zia Lisetta.

Appena varcava il cancello del podere il cane Spicchio le andava incontro

scodinzolando a più non posso per la contentezza, gioie che la ragazza gli

ricambiava con mille coccole. Bianca adorava quel cagnolino quanto la

propria bicicletta, e quello spicchio di pelo bianco, che risaltava prepotente

su un manto nero lucente, la faceva impazzire dalla felicità. Dopo che i due

si erano affettuosamente salutati, Bianca faceva visita alla zia portandole

quel poco da mangiare che la madre le aveva potuto preparare.

Al ritorno, dopo essersi congedata dalla zia, inforcava di nuovo la sua

Bianchi per affrontare la salita di Poggio Faloppo e, dando sfogo alla

propria fantasia, si immaginava di pedalare a fianco dei più grandi scalatori

della storia ciclistica.

Prima di scendere per via Solferino transitava davanti al palazzo Comunale

del paese, da mesi occupato dalle forze armate Tedesche, e delegato a

quartier Generale di zona.

Negli ultimi tempi il passaggio davanti a quell’edificio era diventato più

piacevole per Bianca; la giovane sentinella tedesca, posizionata di lato

all’ingresso principale recapitava alla ragazza un sorriso così folgorante e

quasi seducente, tanto da farle dimenticare la fatica che lei aveva fatto

tornando dalla salita di Fontecornino.

Immancabilmente Bianca veniva colpita dallo sguardo di quel giovanissimo

soldato, che sembrava renderlo innocente davanti alle crudeltà di quella

guerra ingiusta e disonesta,.

Sguardo che Bianca ricambiava con piacere.

Il paese di Chianciano Terme, arroccato in quel lembo di terra toscana

posto tra la val d’Orcia e la val di Chiana era diventato un punto strategico

di notevole importanza per le forze militari tedesche. Gli alti comandi

nazisti avevano collocato in quella zona alcuni battaglioni a difesa dei

confini per coprirsi le spalle dalle possibili incursioni degli alleati

provenienti dal sud d’Italia.

Fino a qualche mese prima la piccola cittadina toscana, e tutta la zona

circostante, sembrava poter rimanere lontano dai teatri di guerra

sviluppatisi in tutta la nostra Penisola. Con il suo turismo termale

Chianciano accoglieva per lo più persone bisognose di riposo, combattenti

e feriti di ogni genere, oppure civili fuggiti dalle loro città bombardate.

Ma dalla fine del 1942 con l’avanzare delle truppe Angloamericane

provenienti dal meridione lo scenario cambiò bruscamente, costringendo le

forze tedesche a creare nuovi punti di resistenza contro i sempre più vicini

alleati nemici.

In un pomeriggio di fine agosto, proprio davanti al Palazzo Comunale,

appena prima di imboccare la discesa di via Solferino, l’ultima pedalata

fece saltare la catena della bicicletta di Bianca, che di colpo si bloccò.

-”Tutto a posto, signorina?”- Chiese la sentinella di guardia.

Bianca alzò la testa e, mentre raccoglieva da terra gli ultimi libri, e alcune

noci cadute dal cestello della bici, vide la sentinella dal dolce sorriso che la

guardava fissa.

Era la prima volta che sentiva la sua voce e, anche se il suo italiano era

piuttosto incerto, il sentirlo le fece ugualmente piacere.

-”Tutto a posto grazie, non è nulla”-.

Rispose lei mentre, in ginocchio, raccoglieva le ultime cose da terra.

Il soldato tedesco aiutò Bianca a rimettere la catena alla bicicletta e

raccogliere le noci sparse sulla strada, cadute per la brusca frenata.

– “Buone queste frutte, anche da noi in Germania essere. Come si chiama in

Italia?”-

– “Noci, si chiamano noci, me le ha date mia zia Lisetta”-

Rispose Bianca, offrendogliene un paio.

– “Grazie, mio nome Bose, grazie”-

– “Io sono Bianca”- disse, e immediatamente si congedò risalendo in

bicicletta e lanciando al soldato un tenero sorriso di riconoscenza.

Mentre l’esile figura della ragazza, scendendo la via del paese si faceva

sempre più piccola, le tornarono alla mente gli occhi di quel soldato;

occhi così celesti, così freddi ma profondi e colmi di tanta tenerezza.

Anche Bose fece un grosso sospiro, come per voler sentire nuovamente

quel sapore di gioventù che aveva assaporato pochi minuti prima, poi

s’infilò le noci in tasca e tornò al suo solito posto di sentinella, proprio di

lato al grosso portone in legno del palazzo.

Nei giorni successivi Bianca continuò a passare davanti al Municipio,

anche se altre strade l’avrebbero condotta ugualmente a casa, portando nel

panierino alcune noci del raccolto di zia Lisetta, iniziato già dai primi

giorni di settembre.

Poi, voltandosi verso il palazzo del comando tedesco, con la coda

dell’occhio sbirciava per vedere se Bose era di sentinella e, quasi per

incanto, la bici rallentava, mentre un paio di noci balzavano

improvvisamente fuori dal cestello della bici per finire tra le mani del

biondo soldato tedesco.

Bianca non aveva più parlato con Bose, dopo quel giorno di fine agosto.

Di lui conosceva solo il nome e quel caldo sorriso, poche cose che le

avevano però restituito un po’ di coraggio e di speranza in quel clima di

guerra e di tensione.

Altri giorni, altri passaggi e altri sorrisi si susseguirono tra i due giovani

ragazzi, nelle settimane a venire. Poi una mattina al ritorno da scuola,

Bianca notò un’anomala agitazione che invadeva tutta la piazza del Comune

e i vicoli circostanti.

Soldati armati di tutto punto scendevano da alcuni camion militari, mentre

davanti al portone del palazzo del Comune era stato posizionato un

reticolato con grosso filo di ferro, dove quattro militari con enormi fucili

stazionavano impalati poco distanti.

Bianca non riusciva a capire il perché di tutto quello scompiglio.

Appoggiò la bicicletta al muro antistante il Municipio e sbirciò oltre il

portone semichiuso per scorgere Bose, ma del giovane tedesco nessuna

traccia. Alcuni ufficiali salivano e scendevano freneticamente le scale del

palazzo, mentre svariati ordini in tedesco venivano impartiti ai militari che,

in fila indiana e ordinatamente, si incamminavano verso la torre

dell’orologio. Nel frattempo dalla pensione Flora, proprio dirimpetto alla

fontana della piazza, un gran numero di graduati germanici frettolosamente

uscivano dall’albergo, seguiti come fedeli cagnolini dai loro aiutanti e

scagnozzi vari.

-”Schnell, schnell”-

La voce del grosso e panciuto soldato che le intimava di muoversi scosse

bruscamente Bianca, risvegliandola da quel torpore di sbigottimento.

Bianca tolse con rabbia la mano del soldato che le aveva bloccato il

braccio, mentre il militare fu subito richiamato da un Ufficiale che, in un

tedesco autoritario, gli faceva presente che c’erano cose molto più

importanti da sbrigare che perdere tempo con una ragazzina.

Bianca salì nuovamente sulla bicicletta mentre nelle orecchie le risuonava

quel vocione che le intimava con cattiveria: “Schnell, schnell” e,

imboccando via Solferino, in un attimo fece ritorno a casa..

La disordinata confusione che aveva notato in piazza si stava diffondendo

per tutte le vie del piccolo paese toscano e, arrivata a casa, la situazione non

era assolutamente diversa. Il padre stava organizzando la partenza dei due

figli maschi, raccomandando loro di dirigersi velocemente verso le grotte

della Parcia, proprio sotto Sant’Albino, e di rimanere lì nascosti fino a

nuovi ordini.

Era appena passato l’8 settembre, e l’armistizio aveva creato un clima di

guerra ancora più violento di quello vissuto fino ad allora; molti uomini

venivano reclutati per le forze naziste e fasciste e, se rifiutavano, venivano

dopo un processo sommario e sbrigativo, fucilati. Il padre di Bianca da anni

non aveva più la gamba destra, lasciata a morire nel campo di famiglia

abbracciata a una mina esplosa mentre arava quella fetta di terra; era quindi

esonerato da questa richiamata alle armi.

Una sera, subito dopo cena, mentre Bianca stava aiutando la madre a

rassettare la cucina, si sentirono alcuni leggeri tocchi alla porta di casa.

Il padre, appoggiato con la testa sul tavolo, aprì subito gli occhi

svegliandosi da quel dormiveglia che lo aveva cullato fino ad allora. Le due

donne, dopo aver appoggiato i piatti ancora sporchi sul tavolo, si strinsero

forte l’un l’altra. Subito dopo la porta piano piano si aprì e fecero capolini i

riccioli scuri di Francesco, cugino di Bianca.

– “Checco, cosa ci fai qui? E’ pericoloso”-

Disse la madre di Bianca sorpresa alla vista del nipote.

Checco era sceso in paese dalle grotte della Parcia proprio per poter

incontrare Bianca e, anche se sapeva benissimo quanto poteva essere

pericoloso uscire dalla boscaglia, era ben consapevole che era un rischio da

correre per una causa così importante.

– “Ho poco tempo Bianca, ma tu ci devi aiutare. Abbiamo bisogno di te e

della tua bicicletta per portare i viveri e non solo, a chi è nascosto lassù

nella macchia.”-

-”Nooo”-, disse immediatamente la madre, stringendo Bianca ancora più

forte a sé, e senza far parlare oltre Checco.

– “Non se ne parla nemmeno, è ancora una ragazzina, non se ne parla e

basta”.

– “Bianca tu sei l’unica” – continuò Checco – “Sei l’unica che ha la forza

e la possibilità di passare oltre i posti di blocco di Poggio Faloppo. In fin

dei conti è da tempo che vai tutti i giorni da zia Lisetta, i nostri compagni

partigiani sono nascosti poco più avanti”-

Un gelido silenzio invase la stanza, non una sola parola fu detta per

interminabili minuti, mentre il padre osservava le due donne senza

pronunciarsi affatto.

-“Dovresti portare alcuni biglietti per poter tenere in collegamento le

brigate di Montepulciano con quelle di Chiusi” – continuò Checco

stringendo con forza la mano di Bianca – “E’ molto importante per tutti noi,

so che è un compito rischioso ma è fondamentale per individuare e

trasmettere gli spostamenti delle forze nemiche. Senza di te sarà tutto più

difficile”.

Bianca guardò Checco negli occhi e fece un cenno di assenso con la testa,

mentre la madre piangendo a dirotto andò a chiudersi in camera.

Checco abbracciò affettuosamente a sé Bianca, dandole un dolce bacio

sulla guancia:

– “Domani qualcuno ti darà istruzioni precise, e ti farà sapere il posto

dell’appuntamento”-, e guardandola negli occhi: – “Grazie cugina, grazie di

cuore a nome di tutti noi, e di tutta l’Italia” -.

La porta si richiuse delicatamente e, nell’oscurità più completa, i riccioli

neri di Checco andarono nuovamente a mescolarsi con il fitto buio della

notte.

Il pomeriggio seguente qualche goccia d’acqua, e sporadici sprazzi di sole,

accompagnarono Bianca e la sua fidata bicicletta celeste nel percorso

stabilito.

La ragazza era da poco uscita da scuola e aveva avuto indicazione del

luogo preciso per incontrare i compagni nascosti. Nel cestello qualche

pezzo di pane, qualche tozzo di formaggio e un po’ di frutta, non moltissime

cose, giusto per non dare troppo nell’occhio e non far sospettare i soldati nel

caso l’avessero fermata al posto di blocco. Mentre alcuni minuscoli foglietti

erano stati nascosti all’interno della canna centrale della bicicletta.

Bianca sentì un brivido gelido lungo tutta la schiena ma era decisa a dare

una mano per la libertà, sapeva che anche lei nel suo piccolo era una pedina

importante per resistere al nemico e riuscire a cacciarlo. Aveva anche messo

un po’ d’olio sulla catena della bici, proprio per non provocare quel solito

rumoroso cigolio, sapeva bene che adesso non c’era bisogno che la

sentissero arrivare, non ce n’era proprio bisogno, anzi.

Imboccò come al solito via Solferino per poi uscire da Porta Rivellini e

ridiscendere sulla strada del Cavernano. Fino a quel punto non trovò

sbarramenti alcuni, ma arrivata all’altezza di Poggio Faloppo una

camionetta tedesca era posizionata proprio in mezzo alla strada, mentre due

soldati con elmetto e fucile facevano da spalla al mezzo.

Bianca ebbe un leggero sussulto, anche se prima di partire era stata avvisata

e messa in guardia dal padre: – “Bianca sono fiero di te, sei una ragazza

speciale, conta sempre nella tua forza e riuscirai ad andare sempre dove

vorrai, ti voglio bene bambina mia” –

Il braccio destro del soldato si alzò con vigore mentre un raggio di sole,

filtrato da quelle nuvole scure, brillava sulla canna del fucile che il tedesco

teneva in spalla.

– “Alt, alt. Dove andare, bambina?”.

Bianca, dopo un lungo e profondo respiro, si arrestò proprio davanti a lui e,

alzando la testa, notò l’altro soldato poco distante che immobile e

silenzioso si asciugava la fronte dal sudore.

Lo guardò meglio, era Bose. I loro sguardi si incrociarono silenziosi,

-”Vado da mia zia a portarle da mangiare, abita nel podere delle Casalte,

poco dopo Fontecornino, è inferma da mesi e non si può alzare dal letto”.

Il soldato con calma si avvicinò alla bicicletta di Bianca, tolse il fazzoletto

a quadri rossi che copriva le cibarie esaminandole accuratamente; pane,

formaggio e alcune pere erano appoggiate nel cestello di vimini poi, sempre

con calma, girò intorno al mezzo a due ruote, continuando a scrutare la

ragazza. Subito dopo il militare allungò la mano e prese una pera dal cesto,

gli dette un morso, mentre dubbioso rifletteva su quello che aveva detto

poco prima Bianca.

Lì vicino Bose guardava tutta la scena in assoluto silenzio.

– “Quindi vai da tua zia malata, che si trova qui vicino? Bene, vengo anche

io con te e ti accompagno”-,

Quelle parole furono come una lama tagliente da spaccare in due il cuore di

Bianca. Rimase pietrificata senza una reazione, senza riuscire a dire nulla, e

fu in quel preciso momento che Bose, appoggiando una mano sulla spalla

del compagno esclamò:

– “Stai tranquillo Huter, dice la verità, conosco la ragazza, so che va da sua

zia malata. Percorre questo pezzo di strada con la bicicletta tutti i santi

giorni, è ben allenata lei” -.

Poi, subito dopo elargendo uno dei suoi soliti caldi sorrisi,

– “Allora signorina ci auguriamo che lei ripassi da qui anche domani” –

disse Bose, facendo una risata di cuore in coppia con l’amico.

Bianca non avrebbe mai immaginato di trovare Bose a quel posto di blocco,

ma sapeva benissimo che quel biondo soldato dagli occhi di ghiaccio aveva

intuito senza ombra di dubbio che la zia non sarebbe stata la sola a

partecipare a quel pranzo.

La grossa quercia posta sul ciglio della seconda curva, dopo il podere delle

Casalte, era il luogo stabilito per la consegna dei viveri e non solo: Bianca

si fermò in quel punto preciso. Un attimo dopo sentì dietro di sé un leggero

fischio e, girandosi di scatto, vide Checco nascosto da una frasca che,

allungando la mano, prese furtivamente il pacco con le cibarie e i foglietti,

per poi allontanarsi rapidamente e inoltrarsi di nuovo nella boscaglia.

– “A domani, se ci riesci cugina , e grazie ancora Bianca” – .

Gli sussurrò Checco mentre svaniva tra gli arbusti spinosi.

Nelle settimane seguenti più volte bianca riuscì a passare oltre lo

sbarramento di Poggio Faloppo, portando così il suo piccolo e personale

aiuto alla causa partigiana. Più volte rivide Bose, il soldato dal sorriso dolce

e comprensivo, e ne fu enormemente felice.

L’inverno stava lasciando il passo ai primi giorni di primavera e i campi si

stavano risvegliando da quel freddo formicolio, mentre gli alberi stavano

nuovamente ricominciando a vivere. Durante questi duri mesi si erano

susseguiti molti rastrellamenti e varie rappresaglie da parte di forze naziste

e di gruppi di fascisti contro la giovane popolazione della zona, e molte vite

erano state spazzate via per una guerra inutile e colma di dolore. Quella

mattina il via vai che invadeva il paese era davvero impressionante; dalla

piazza del Comune una miriade di automezzi stava uscendo dal centro

abitato, ordinati e incolonnati simili a un lungo serpentone verde, mentre

enormi casse di legno e grossi pacchi di cartone venivano caricati su

camion telonati, dove i soldati salivano ordinatamente per mettersi poi a

sedere sulle panche di legno del cassone. Gran parte dei Chiancianesi

guardava curiosa questa scena inusuale, mentre una lunga fila di mezzi

gommati, stracolmi di militari, oltrepassava Porta Rivellini e, dopo aver

lasciato alle spalle la storica Villa Simoneschi, si inerpicava lungo le

tortuose curve che portavano verso Montepulciano.

Anche Bianca, appoggiata alla propria bicicletta, guardava con attenzione il

passaggio di quell’Armata Tedesca ormai allo sbando, ispezionava uno ad

uno quei grossi camion nella speranza di rivedere per l’ultima volta

quell’amabile sorriso. Poi, come per incanto, da sotto l’elmetto grigio

spuntarono gli occhi azzurri di Bose.

Silenziosamente i loro sguardi si incrociarono e un complice sorriso

abbracciò dolcemente le loro labbra; come era successo più volte in

passato, mentre il giovane tedesco fece uscire dalla tasca una piccola noce,

facendola intravedere a Bianca.

La ragazza per un attimo sentì il cuore fermarsi, non immaginava che Bose

avesse ancora con sé, dopo tanto tempo, quel frutto, mentre silenziosamente

una lacrima le scendeva furtiva sul viso.

Ormai sono passati più di settant’anni da quel periodo così brutto e incerto,

e Adele per tutto il paese di Chianciano Terme è ancora la piccola Bianca,

mentre la vecchia bicicletta Bianchi Campagnolo, ormai arrugginita e

corrosa dal tempo, riposa beatamente nel garage sotto l’abitazione

dell’anziana donna. Ogni 25 aprile la banda musicale del paese inonda le

vie e le piazze del piccolo borgo toscano con quelle note di libertà che

furono riguadagnate dopo tanti sacrifici.

Bianca è consapevole in cuor suo di essere stata anche lei partecipe di

questa faticosa e meritata riconquista e, seduta in cucina, ascolta incantata

quella musica quasi celestiale, salutando dalla finestra il passaggio dei

suonatori con un fazzoletto tricolore in mano e guardando con piacere il

suo immancabile cestino di noci sistemato al centro della tavola.