I brevissimi 2013 – La parola e la morte di Gianluigi Nardo_Sedriano(MI)
Anno 2013 (I sette peccati capitali – l’invidia)
Premio Domenico Bia – racconto scelto dall’Associazione Energheia
“Ta fotta minchia“: stavolta non erano le pecore o l’asino a fare arrabbiare Proto, ma quel “figlio di puttana“ del letterato che voleva tornarsene in città. Prima, col fatto della vacanza lì sul monte Turgo, lo aveva conquistato con le parole e ora che il pastore non poteva più fare a meno di ripensare e ripetere tutte le sere le parole imparate, voleva abbandonarlo. E pensare: se non fosse stato per lui, ora il letterato chissà dove sarebbe, dopo essersi perduto in mezzo a rocce e strapiombi di quella montagna, sempre maledetta per i forestieri.
Dopo averlo salvato, Proto gli aveva insegnato, giorno dopo giorno, tutti i sentieri più agevoli e i punti pericolosi dai quali guardarsi. Gli diceva di stare attento, quando andava in alto, a non abbandonare e allontanarsi dal sentiero, specialmente quando era in un bosco pianeggiante. In questo caso doveva osservare l’esposizione al sole per non perdere l’orientamento. Così, con parole del suo dialetto, faceva le raccomandazioni al letterato.
“Non sono tranquillo ad andare da solo sul Turgo, è troppo pericoloso”. A questo Proto rispondeva che l’avrebbe accompagnato, insieme al gregge, per fargli conoscere meglio la montagna. L’altro si sentiva rassicurato e, il giorno dopo, quando si ritrovavano ai piedi del monte, aveva tra le mani un libro da regalargli.
Quando il ragazzo cominciò a leggere e a capire quello che era raffigurato in quel libro per bambini, iniziò un’avventura straordinaria. “Ascolta il rumore delle foglie degli alberi, è lo stormire, ricordati: stormire” ripeteva il letterato. Proto voleva sapere anche come si diceva quando le foglie non facevano alcun rumore. “Silenzio, si dice silenzio” era la risposta dell’altro, che si dedicava a questo insegnamento ogni giorno con maggiore piacere. Il pastore era intelligente, ma non sapeva niente al di fuori della sua occupazione, non aveva mai frequentato la scuola.
Per il letterato, abituato a insegnare a ragazzi di scuole superiori, era una situazione strana. Un giorno pensò, persino, di essere un padre che stava allevando un bambino. Per uno scapolone come lui fu una sorpresa piacevole: tentò in ogni modo di rimuovere l’idea, senza riuscirci. Anche per Proto questo incontro e quel continuo dialogo fecero nascere una curiosità nuova. Era come se avesse scoperto un pozzo dal quale cavare ogni giorno tesori vivi sempre sorprendenti. La cosa più difficile e affascinante era dare senso alle parole, e col significato provare l’emozione che contenevano.
Ora il letterato voleva abbandonarlo, e lui non poteva sopportare questo distacco. Non aveva mai avuto un padre vero e proprio. Il suo se ne era andato al creatore, con il fegato sfasciato dall’alcol, quando Proto doveva compiere quattro anni. Con quella vicinanza, erano nati in lui, sentimenti nuovi, di gratitudine, ammirazione e invidia. Avrebbe voluto ma non sapeva come fare, per trattenere l’altro, lì sul Turgo.
Proto era maestro nell’uso del bastone. Con un colpo solo in mezzo agli occhi, ammazzava le pecore quando si ammalavano e non solo le sue ma anche quelle dei compagni. Non aveva mai provato con un uomo.
Quando il letterato lo salutò augurandogli buona fortuna e gli girò le spalle, il nodo del bastone gli piombò in mezzo al cranio. Quello vacillò e subito un altro colpo lo fece crollare bocconi.
Proto si portò ai piedi dell’uomo disteso e con un’ultima impietosa bastonata, gli fece schizzare frammenti di cervello dappertutto. L’uomo rimase immobile, braccia e gambe allargate, la faccia piantata nella terra.
In preda all’eccitazione Proto gli andò subito addosso. Lo rivoltò a faccia su per prendersi tutte le parole del morto. Ormai erano sue, ormai poteva riempire il suo tempo e la sua vita con quella ricchezza immensa. Udì solo lo stormire delle foglie e il malinconico belato delle pecore; il resto, silenzio.