La porta che guarda l’Africa. A Lampedusa c’è un monumento, opera di Mimmo Palladino, dedicato alla memoria dei migranti che hanno perso la vita in mare
Amani – 8 Aprile 2011 – di Renato Kizito Sesana
La porta di Lampedusa si apre su un mare dove si stima che negli ultimi dieci anni siano perite diecimila persone, tentando una difficile traversata. È in un certo senso un’opera incompiuta. Può restare segno di pietà e luogo di raccoglimento, diventare un freddo monumento funebre, oppure il simbolo di un’Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarietà nuova. Starà a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.
Guardando questa porta, capiamo che la globalizzazione non è un’astrazione, non è solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, non sarà una nostra nuova modalità per dominare il mondo. La globalizzazione è composta di persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, che vogliono essere responsabili della loro vita (sognano possa diventare più umana) e per questo sono disposti a venire in Europa, a farei lavori più umili: accudire i nostri ammalati, cucinare il nostro cibo e pulire le nostre città.
Il nostro mondo europeo è ormai piccolo e c’è, al di là di questa porta, un mondo più grande che ci chiede di partecipare e di condividere. Gli altri non sono più i “moretti”, per i quali le nostre nonne o bisnonne davano una lira, affinché fossero battezzati con il nome di un loro caro; gli altri sono persone come noi: vogliono che la loro dignità e i loro diritti siano rispettati. Non possiamo più pensare al nostro piccolo mondo come al centro dell’universo; al di là dei nostri confini – i quali perdono sempre più significato – c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita.
Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro. L’Europa ha incominciato a capire che il diritto internazionale, costruito negli ultimi secoli, il quale nega la possibilità di interferire con gli affari interni di un paese – anche se è in atto una persecuzione o un genocidio – andava, forse, bene prima della globalizzazione. Adesso è superato. Ma è già anche superato il diritto di intervento umanitario: di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, l’Europa viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarietà con promesse che non mantiene mai (come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8), ritornando ai meschini interessi nazionali e alzando barriere sempre più alte.
In questo momento – e speriamo che sia breve – l’Europa crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della “nostra roba” e della “nostra identità”, invece che come “colui senza il quale vivere non è più vivere”.
Accettando l’altro non gli facciamo un favore: aiutiamo noi stessi; evitiamo di diventare maschere e di immedesimarci sempre più in un’identità immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, un’identità statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come società. È una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini, piuttosto che l’avventura del mare aperto.
I poveri, però, si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di uno sfruttamento interno ed esterno, di guerre che non capiscono e non vogliono; vengono a cercare da noi il sogno di quell’european way of life, che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico sviluppo. C’è chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia, anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali, come le migrazioni oggi in atto. Così chi in Europa tiene gli occhi aperti, incomincia a capire che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Quando ero bambino la scuola e un certo mondo di adulti, cercavano di trasmetterci la convinzione che gli austriaci erano il nemico per eccellenza. Oggi questo fa ridere o fa pena. È bastata una generazione per far dimenticare pregiudizi che potevano sembrare eterni. Oggi, i nostri ragazzi si sentono sempre più cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente – a meno che siano succubi di martellanti propagande – che la convivenza civile può essere fondata solo su una solidarietà globale, altrimenti è un egoismo mascherato.
Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione, nelle quali è centrale riconoscere in ogni persona, prima di tutto, la comune umanità, fonte di dignità e diritti. Solo successivamente si vedono le differenze, le quali si completano, anzi, mi creano e mi danno vita, perché senza queste differenze non potrei essere me stesso.
Riguardando questa porta non la vediamo più come un monumento ai morti, ma come un grande segno di speranza per i vivi. Non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare: li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderosi di condividere la nostra comune umanità. Essi, che hanno già attraversato un’altra porta – quella che si apre sull’incontro con l’Infinito, con colui che è davvero e definitivamente l’Altro – avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere. E hanno aperto questa porta per noi.