La ragazza di sale_Anna Rita Lisco, Bari
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia 2000.
E’ da un po’ di tempo che non riesco a pensare. Dico, prendersi cinque minuti buoni e starsene lì a riflettere sulla propria esistenza… in poche parole un esame di coscienza. Piera dice che è normale, per una come me, che ha sempre da fare, tra università, lavoro e tutto il resto, la sera non hai neanche la voglia di guardare la Tv e ti butti giù sul letto con gli occhi pesti. Ieri però ho preso un po’ di tempo e mi sono stesa sul divano a guardare il soffitto. Non ricordo quando è stata l’ultima volta. Forse a Maggio, durante l’esame di statistica. Piera dice che riuscirò a finire il corso, sono in gamba, ho l’intelligenza molto sviluppata. Da bambina credevano fossi stupida: avevo
l’insegnante di sostegno e il pomeriggio una studentessa liceale mi aiutava nei compiti.
Mia madre mi seguiva attentamente e sovente era lei a farmi da insegnante.
E’ sempre stata una donna semplice, mansueta.
Una di quelle persone calme, che se ne stanno sedute al loro cantuccio in silenzio e quasi hanno paura di parlare. Quando però le chiedevo chi fosse mio padre, d’improvviso alzava la voce, s’imponeva dinanzi a me con la sua figura minuta di bambina col viso diventato rugoso troppo in fretta.
– Non ha interesse chi sia. Io ti ho allevata, da sola e tuo padre è come se fosse morto!
Poi si allontanava evitando il mio sguardo corrucciato.
Ricordo che mi faceva male pensare a mio padre, soprattutto da adolescente. Avrei voluto accanto, una figura rassicurante durante la crescita. Mia madre era troppo gracile, silenziosa. Forse se avessi saputo che era morto avrei messo il cuore in pace, ci avrei pensato con rassegnazione. Ma lui era vivo, in qualche parte dell’Italia o addirittura del mondo, forse viaggiava su piroscafi di lusso o era ufficiale di marina. Non so perché ma collegavo sempre la figura di mio padre ad un uomo di mare. Forse perché abitavamo in una palazzina proprio di fronte alla spiaggia e dalla cucina, sembrava che dalle finestre l’acqua potesse entrare ed avvolgerti, annegarti.
Mi piaceva guardare dalla finestra… Ma adesso, no, non voglio pensare, voglio chiudere questi occhi che mi fanno male, bruciano. Ho comprato un collirio ma non è servito a nulla. Sarà il sale e l’umidità che penetrano dalle fessure, o forse sarà che ho bisogno degli occhiali. Ho spesso dolore alle ossa, le mie amiche mi chiamano “l’ospedale ambulante”, mia madre non fa che andare avanti e indietro dal medico, carica di medicine e coperte varie, dice che dovrei andarmene in giro con gli scialli; dice che non dovrei scendere più in spiaggia, il pomeriggio e sedermi su quello scoglio ad est, quello più liscio, nascosto dal chioschetto che d’estate è gremito di gente, lo scoglio dove mi posso stendere e non mi vede nessuno perché è il più basso di tutti; dice che dovrei smetterla di pensare che un giorno o l’altro un uomo risorgerà dalle acque, come d’incanto ed io riconoscerò in lui i miei lineamenti, e come in tutti quei film sdolcinati correrò verso quella figura sconosciuta gridando “Papà!”, lui mi accarezzerà e torneremo alla riva sorridendo come ebeti… eppure fino a ieri questa immagine non mi sembrava così banale; era così vera, ci credevo come quando credi che la tua squadra del cuore vincerà il campionato o che tua madre la domenica cucinerà le lasagne.
Ma adesso mi compatisco un po’, sì, diavolo, provo pena per me, per quella ragazza di marzapane che la notte non guarda la tv, ma socchiudendo gli occhi s’immagina che un giorno sarà felice, perché potrà tornare indietro e ricominciare tutto daccapo e rivivere l’infanzia come una bambina normale, in una famiglia normale… normale… che significa?
Piera dice che la normalità è tutto quello a cui la gente si attiene, tutto ciò che ordinario, comune.
Io ridevo.
– Secondo te sono normale?
Dissentiva.
– Resta così, è meglio. Chi cerca di diventare normale diventa prima o poi pazzo.
– Ed io non lo sono?
Era lei a ridere.
– Ognuno di noi, chi più chi meno ha uno scampolo di pazzia. C’è chi riesce a nasconderlo e chi meno.
– Io non sono riuscita nell’intento.
– No.
E’ dolce, Piera, di una dolcezza estrema. Quando ti parla, sembra che tu sia un bambino che ha bisogno di affetto e attenzione. Sembra che ti voglia accarezzare con le parole.
Dice che già alle elementari, aveva deciso che sarebbe diventata una psicologa; le piaceva analizzare la gente, fare domande, indagare sulle loro personalità.
Quando mi chiede qualcosa, sembra che lo chieda a se stessa. Socchiude gli occhi e parla lentamente, poi prende le mie mani e le chiude fra le sue.
– Cos’è?
– Si chiama autolesionismo.
– Da cosa dipende?
– Sono molteplici i fattori: disistima, mancanza di affetto, di punti di riferimento…
– Si può guarire?
– Sì. Se vuoi.
Ieri mi sembra così lontano. A volte i giorni sono così monotoni, simili, che alle fine sembra che i piccoli avvenimenti facciano parte di un giorno solo. I ricordi si accavallano e ciò che sembra sia successo soltanto ieri è successo tanti anni fa.
Io sono rimasta a guardare il soffitto. Sul divano, mentre mia madre cuciva vicino alla finestra. Qualche spiffero le faceva dondolare un ciuffo bianco che, ogni due punti sul calzino, ricacciava dietro l’orecchio.
– Tuo padre era un omosessuale.
Me lo ha detto così. Quasi senza respirare.
Ha continuato a sollevare l’ago e a nasconderlo con le mani aggrinzite, mentre quel ciuffo continuava a dondolarle sugli occhi.
Il soffitto sembrava fatto d’aria, di schiuma, di onde. Potevo, d’un tratto scendere dallo scoglio situato ad est, quello nascosto dal chioschetto e farmi un bagno, nel cuore dell’inverno, ridere come un pazzo, e pensare a quell’uomo con la faccia buona, la barba un po’ incolta che mi tendeva le mani grandi per abbracciarmi.
Io gli misuravo le spalle.
– Che spalle grandi che hai! Papà fatti la barba, punge! Papà cogliamo i fiori per la mamma?!
Poi non ho pensato più e il soffitto si allontanava, anzi la casa veniva scoperchiata da un uragano ed io e mia madre eravamo risucchiate, diventavamo sottili come due acciughe e finivamo sotto sale in qualche scatoletta al supermercato.
– Io non lo sapevo. Lui non lo sapeva. Perdonami se non te l’ho detto prima. Mi vergognavo. Poi l’ho cacciato. Non ce la facevo. Era buono.
Ma…
E continuava a fare buchi sul calzino, con quell’ago senza filo, singhiozzava forte ed io non avevo il coraggio di correre da lei e cingerle quelle spalle così piccole, di donnina con i capelli che le cadevano sugli occhi, con quel sale che si scioglieva sulle labbra secche.
– Anna. Giurami che non lo farai mai più.
Il soffitto era tornato sulla testa. Guardai i polsi, poi il soffitto, i polsi, il soffitto.
– Piera dice che si può guarire. E’ stata lei a convincermi a dirtelo.
Tu vivevi in un’illusione che ti stava uccidendo. Dice che i tuoi dubbi stavano finendo per annullarti. Non volevo credere che tu giorno dopo giorno stavi morendo…
Giuramelo…
– Credevo che lui fosse andato via per colpa mia… mi guardavo allo specchio e mi veniva da vomitare… la colpa è mia dicevo… poi, non lo so, io non ho visto più niente, la finestra, e poi il mare e poi mi sono girata… Piera dice che si può guarire, dice che si può guarire…
Ripetevo e intanto la guardavo e lei guardava me, con quegli occhietti neri e quel maledetto ciuffo di capelli bianchi che le copriva mezzo volto.
– Giuramelo.
Aveva fatto sparire tutti i coltelli e le forbici sparse per casa. Mi aveva riempito di coccole, piccoli regali. Ma da quel giorno, quando mi aveva trovato sotto la finestra con i polsi sanguinanti non aveva più sorriso.
Io ho continuato a pensare alle onde che mi bagnavano i piedi. Qualche volta, anche d’inverno mi toglievo le scarpe e le calze di spugna e mi immergevo fino alle caviglie. Il mio scoglio sapeva difendermi benissimo da sguardi indiscreti.
Ho sempre amato il mare ed un giorno egli s’ergerà dalle onde e correrò verso lui, gli misurerò le spalle e rideremo insieme come pazzi.
Adesso lui non c’è e mi sento una ragazza di sale. Non so perché mi definisco tale ma mi piace pensare che io sia figlia di una conchiglia, di uno scoglio, di un’onda, di un soffio di mare.
Poi ieri ho smesso di guardare il soffitto.
– Mamma.
Lei ha sollevato il capo, con gli occhi rossi.
– Lo giuro.