I racconti del Premio Energheia Europa

La sposa immacolata_di Merav Fima, Omer(Israel)

pianoforte1Racconto vincitore Premio Energheia Israele 2014.

 

Lei mi aveva avvertito che lui mi avrebbe abbandonato, che mi sarebbe stato infedele come io lo ero stata ai miei voti, ma non potevo essere infedele alla chiamata del mio cuore. E anche se mi ha lasciato, non è stato per i motivi che lei aveva immaginato. So che sarebbe rimasto, se non fosse stato costretto a fuggire.
Ma era più di mezzo secolo fa. L’anno era il 1948; mi mandarono, all’età di 27 anni, dalla mia città natale francese in Terra Santa, in un remoto villaggio tra colline della Giudea, per unirmi alla congregazione di Notre-Dame de Sion e contribuire a curare le Suore sofferenti per una grave epidemia di influenza – essendo stata identificata dalla Superiora della mia abbazia locale come esperta in erbe e rimedi naturali, un’abilità ereditata da mia madre provenzale.
Quell’inverno, le notti di Gerusalemme erano fredde e mi ritrovavo a tremare appena mi stendevo sul letto sotto la singola trapunta di lana, tenuta sveglia dallo scricchiolio del vento che portava con sé la chiamata del muezzin, incapace di addormentarmi, anche dopo aver ripetuto il rosario fino alla nausea. Ma quando il sole attraversava le nuvole, a mezzogiorno, il suo calore mi accarezzava e desideravo gettarmi nelle sue braccia invitanti. Sola nell’Abbazia, dove soltanto io ancora camminavo sulle mie gambe tra le suore malate e dove tutte le preghiere e le attività in programma erano arrivate ad un punto morto, violai i suoi cancelli di ferro per esplorare le colline adiacenti, sostenendo che il giardino dell’Abbazia non poteva fornire tutte le piante necessarie per preparare il rimedio desiderato; e io, quindi, non avevo altra scelta che cercare erbe selvatiche oltre le sue mura di pietra merlate. Dal momento che anche la Madre Superiora era confinata a letto con dolori muscolari lancinanti e allucinazioni e con un disperato bisogno del mio promesso elisir, non c’era nessuno che mettesse in discussione le mie assenze prolungate o mi vietasse di vagare per la felicità del mio cuore.
Fu in uno di quei soggiorni in una collina a terrazze, il più lontano possibile dall’Abbazia, che l’ho incontrato. Devo essere stata attirata dalla musica che si udiva sempre più forte dal suo flauto di canna, sorprendendo le pecore nere che giacevano in stato confusionale sul prato intorno a lui. Avevo, in precedenti occasioni, individuato quelle stesse pecore che saltellavano – pazze di gioia – di collina in collina, ma la musica, come un tranquillante, le sedava mentre si sdraiavano con la schiena al sole. Avendo trovato una corteccia di albero abbastanza ampia da nascondermi dalla sua vista, mi tolsi il grembiule bianco, lo stesi su una chiazza di erba selvatica, mi distesi, e chiusi gli occhi, permettendo alla sua musica di portarmi in un viaggio incantato verso terre lontane. Io non avevo mai sentito musica (ad eccezione di quella per organo e clavicembalo che accompagna il canto corale degli inni) da quando mi ero dedicata a Dio all’età di 14, e non avevo certamente mai sentito musica di questo genere prima – le sue cadenze esotiche inviavano un brivido lungo la schiena, cullandomi verso il sonno – un sonno più profondo di quanto avessi goduto in tutte le settimane da quando ero arrivata in Ein Kerem.
Mi svegliai per trovare l’uomo chinato su di me; dal mio punto di vista privilegiato sul terreno, il suo torso sembrava prolungare l’altezza dei pini. Sorrise quando si rese conto di quanto ero sorpresa, un sorriso che rivelava una fila di denti bianco-perla scintillanti in contrasto con la sua pelle color caramello; un sorriso ribadito dal calore e dalla gentilezza dei suoi occhi scuri. Allungò le sue braccia muscolose verso di me – le sue mani ruvide all’esterno, ma morbide all’interno – sollevandomi delicatamente in piedi come se fossi un agnello ferito. Affascinata dalla sua presenza, emozionata dal suo tocco, notai improvvisamente il mio grembiule ancora a terra – macchiato di verde e marrone dall’erba umida – e si chinò per recuperarlo. Lo raggiunse per primo e, invece di darmelo, lasciò che drappeggiasse sul suo avambraccio.
Poggiando una mano rassicurante sulla mia schiena, mi portò in un luogo appartato sotto l’albero fiorito di melograno, nei pressi di un ruscello sfuggente, mormorando “Habibti”, una parola che non riuscivo a capire. Ma ogni suono emesso dalla sua voce profonda e melodiosa, non importa il suo significato, sarebbe stato piacevole per le mie orecchie. Volevo appoggiarmi a lui, per riposare la mia testa sulla sue spalla, ed in qualche modo le mie labbra sfiorarono le sue. Non avevo mai sentito prima il respiro di un uomo contro la mia guancia, non mi ero mai sentita così sicura prima.
Solo i rintocchi delle campane della chiesa mi richiamarono dalle mie fantasticherie. Mi voltai e staccai il mio corpo dal suo, pungendo la mia caviglia scoperta su una spina del cespuglio di rose che, fino ad allora, ci aveva avvolto nel suo squisito profumo.

***

Sono tornata il giorno dopo e quello successivo per trovarlo oziare nello stesso punto, suonando la sua melodia ipnotica.
Anche se completamente distratta dal nostro incontro, in qualche modo riuscii ad inventare l’affidabile sciroppo di limone e miele di timo. Una ad una, le suore tornarono ai loro doveri e al sacro culto, e il mio tempo libero fu nuovamente limitato. La Madre Badessa, che mi aveva promosso da Novizia al rango di Infermiera in riconoscimento del mio contributo alla ripresa della comunità, ora mi lanciava occhiate severe ogni volta che mi sorprendeva a sognare ad occhi aperti durante il suo sermone o uno schiaffo sul polso se scarabocchiavo invece di trascrivere l’inno della giornata.
Alla fine mandò la sua vice dietro di me, un giorno mentre io uscivo per immergermi nella natura. Non potrò mai perdonare quel suo spiarmi, deprivandomi per sempre della mia unica possibilità di vera felicità, invidiosa che il meglio della sua stessa vita era trascorso inappagato. Se non fosse stato per lei, avremmo potuto continuare a godere dei nostri abbracci di mezzogiorno indisturbati.

***

Il rigido inverno si era piuttosto addolcito al tempo in cui la Madre Badessa mi chiamò nel suo studio. Più numerosi, i fiori sbocciavano ogni giorno che passava, gli uccelli appena tornati dalle loro spedizioni a sud allegramente cinguettavano, e il sole splendeva più luminoso. Mandorli ornati di fiori profumati, come maestose spose, proclamavano l’arrivo della primavera. Ci siamo sentiti così sicuri tra i loro fiori candidi, dimenticando che non ci potevano camuffare – lui nel suo galabiyah bianco e io nella mia veste nera inamidata.
“Siediti, bambina mia,” ordinò appena entrai inchinandomi nel suo ufficio. “C’è qualcosa che vorresti confessare?” Mi esaminò al di sopra del bordo dei suoi occhiali, gli occhi verdi ingranditi dalle lenti spesse.
Abbassando gli occhi, mormorai qualcosa sul fatto che ultimamente dedicavo più tempo allo studio della natura che delle Sacre Scritture.”.
“Con “lo studio della natura” io credo che tu indenda dire l’esplorazione di impulsi corporei e desideri.” Io sbiancai; come poteva aver scoperto il mio segreto più intimo?
Si alzò dal suo posto dall’altra parte della scrivania, attraversò a grandi passi la stanza, e premette pesantemente il palmo della sua mano sulla mia spalla.
“Hai commesso una gravissima trasgressione con il tuo desiderio per un altro essere umano e infedeltà verso il nostro Padre Celeste. Devi pentirti, fare penitenza per i tuoi peccati carnali, e riprendere i tuoi voti sacri; altrimenti dovrai lasciare l’Abbazia e badare a te stessa.”
Mi guidò attraverso il lungo, cupo corridoio verso la mia cella – nude pareti bianche con un crocifisso di legno come unico ornamento, sovrastante un angusto letto in ferro battuto, una scrivania in legno e una sedia, e un lavabo in porcellana. Il mio unico conforto era la finestra, che incorniciava il frutteto dell’Abbazia, colmo di olive, fichi, melograni e viti.
Le lacrime mi scorrevano sulle guance mentre mi buttai sul letto rigido e sentii la chiave girare nella serratura; io non so se fossero lacrime di desiderio per il mio amato o lacrime di disperazione per la durezza del mio destino e la difficoltà della situazione che avrei dovuto affrontare.
Trascorsi le successive due settimane in un sonno confuso, interrotto solo dagli occasionali colpi di pistola, che pensavo fossero un segno della festa degli abitanti del villaggio. Speravo solo che il mio amato non stringesse nessun altra donna al petto durante il ballo celebrativo, frustrato dalla mia prolungata assenza.
Quando la Madre Badessa entrò nella mia cella portandomi la mia porzione giornaliera di pane e acqua, mi alzai verso di lei per la prima volta in quindici giorni. I miei piedi a malapena mi reggevano, per come ero indebolita dal mio recente digiuno.
“Vi chiedo perdono, Madre, ma non ho altra scelta che lasciare l’Ordine e perseguire la mia passione.”
“Sia, naturalmente, come tu desideri, mia cara, ma ricorda le mie parole, lui ti abbandonerà e la vera felicità continuerà a sfuggirti se farai un passo oltre le nostre mura. Spero che tu abbia considerato attentamente le tue opzioni.” Ho baciato la sua mano tesa, afferrato il mio mantello di lana nero, e sono uscita da quella camera claustrofobica con un inchino.

***

Avevo perso ogni cognizione del tempo e tutto al di là delle mura merlate di pietra del monastero sembrava stranamente buio e tetro, in netto contrasto con la ricchezza del giardino dell’Abbazia e la fervente attività delle Suore che lavoravano la terra. Non ho alzato lo sguardo mentre attraversavo il giardino, ma con la coda dell’occhio ho visto una delle suore lampeggiare verso di me un sorriso beffardo. In quel momento ho capito che era stata l’informatrice.
Ero stupita del silenzio delle strade, di solito così colorate e vivaci con le grida di gioia dei bambini che giocavano e delle capre belanti. Più mi avvicinavo, più il paese mi appariva deserto. E’ stato allora che ho realizzato che non avevo nemmeno sentito il muezzin nei giorni passati. Questa impressione fu più forte quando ho raggiunsi la casa di pietra con la porta blu, dove sapevo che il mio amato viveva.
Il filo per stendere i panni, sempre sovraccarico di abiti e biancheria appesi al sole ad asciugare, era completamente nudo e il pollaio vuoto. La casa maestosa era immobile. Nessuna musica di flauto proveniva dall’interno e nessuno era seduto a bere il caffè al cardamomo speziato giocando a backgammon sulla veranda ad arco. Nessuno rispose alla porta, anche dopo ripetuti colpi battuti in un graduale crescendo nella loro urgenza. In un primo momento mi sentii sollevata; cosa avrei detto a sua madre o alle sue sorelle se mi avessero trovato lì? Come avrei spiegato la nostra relazione? O peggio ancora – che sarebbe successo se suo padre, lo Sceicco, avesse aperto la porta, pensando di trovare uno dei suoi discepoli per un seminario? Almeno non sarei sembrata fuori luogo nel mantello scuro gettato sulle spalle, completato da un velo bianco. Forse avrei potuto sostenere che ero stata invitata ad esaminare il loro bestiame per somministrare un nuovo vaccino contro l’afta epizootica?
Alla fine mi sono spazientita e ho spinto la porta aperta. L’interno era immobile come l’esterno. Cuscini ricamati erano sparsi sul pavimento, libri e giornali sparsi su tutto il tappeto persiano, e bicchieri colorati di marrone fango stavano sul tavolino damascato basso. Non c’era traccia di umanità.
Crollai su uno dei cuscini di seta, ricamati con fili d’oro, e iniziai a piangere per la mia solitudine e disperazione. Poi caddi in uno stato di torpore prolungato, non so per quanto tempo, e mi svegliai al suono di soldati che urlavano ordini sotto la finestra. Un paio di loro, in mal assortite e mal calzanti uniformi, bussò alla porta con il calcio di una pistola, che puntarono su di me quando raccolsi abbastanza forze per mettermi in piedi e aprire la porta. Alzai le mani in segno di sottomissione totale. Dopo aver abbassato l’arma, in qualche modo riuscii a capire dai gesti delle loro mani che tutti gli abitanti del villaggio erano fuggiti tre giorni prima – svuotando ogni casa durante la notte e raggiungendo i loro parenti in Giordania, Libano, o Siria – e che i soldati erano arrivati per prendere qualsiasi prigioniero residuo. Fu allora che mi resi conto che, proprio come Madre Badessa aveva predetto, il mio amato veramente mi aveva abbandonato; sicuramente non per i motivi che lei aveva immaginato (a meno che lei non avesse saputo dell’evacuazione e mi avesse nascosto le notizie) ma mi aveva abbandonata comunque.
Cercai di spiegare ai soldati che avevo vissuto, fino a poche ore prima, nella vicina Abbazia ed ero di origine cattolica francese, senza alcun interesse per la guerra e nessuna voglia di sostenere o ostacolare entrambi i lati. Poi ebbi l’intuizione che avrebbe salvato la mia vita: dissi ai soldati della mia esperienza in rimedi naturali e delle mie competenze farmaceutiche, e offrii di stabilire una clinica in quella stessa casa, forse un ramo della Croce Rossa, al fine di trattare chiunque si fosse ferito in battaglia. I soldati ispezionarono la casa e fecero cenno col capo per affermare la loro approvazione. Poichè era la casa dello Sceicco, era piuttosto spaziosa, con molte camere per i diversi tipi di lesioni e malattie.
L’accordo mi andava bene, perché mi tenne occupata durante i mesi in cui ci fu la guerra tra gli ebrei e gli arabi. Ero contenta di rimanere nella casa del mio amato, sperando che sarebbe tornato alla fine della guerra e mi avrebbe sposato, come ricompensa per la mia pazienza e la mia incrollabile devozione – finalmente concedendomi la felicità duratura che desideravo.
Mentre aspettavo l’arrivo dei miei primi pazienti, preparai la casa e riordinai le camere, immergendomi in album di famiglia, immaginando come sarebbero stati i nostri figli, e bagnando i cuscini su cui lui stesso aveva dormito con acqua di rose adulterati con le mie stesse lacrime. Accarezzavo i suoi strumenti musicali, considerandoli troppo sacri per suonarli, e aspiravo il suo inconfondibile profumo dalle vesti ricamate ancora appese nell’armadio, venerando le piastrelle di ceramica dipinta su cui aveva camminato.
Ma non ha mai fatto ritorno. Alcuni mesi più tardi, fu dichiarata l’indipendenza israeliana e quegli stessi soldati, ora recanti distintivi d’onore, tornarono per sfrattarmi dalla ex-residenza del mio amato, sostenendo che la casa ora era necessaria per far risiedere gli immigrati ebrei che erano stati espulsi dai paesi arabi e i sopravvissuti all’Olocausto europeo. Non ebbi altra scelta che tornare in Francia e condurre una vita tranquilla ma solitaria nella mia città, prendendomi cura di tutti coloro che vivevano in miseria.

***

Ora sono tornata in un pellegrinaggio finale in Terra Santa. Anche se ho abbandonato ogni speranza di rivederlo, non posso fare a meno di chiedermi se mi riconoscerebbe, tutta curva e rugosa come sono oggi. E anche se il paesaggio Ein Kerem è rimasto più o meno lo stesso, le case appaiono in rovina e la vernice blu sui telai delle porte e finestre ha iniziato a scrostarsi. Eppure, nonostante il deterioramento, è oggi un quartiere esclusivo da tempo inglobato nei confini comunali di Gerusalemme, abitato da artisti in cerca di ispirazione.
E quello stesso punto verginale dove ci siamo abbracciati la prima volta – fiorente ogni anno nuovamente con la progenie di quegli originali melograni, rose selvatiche e fiori di mandorlo – è stato scoperto e fatto proprio da innumerevoli amanti sin d’allora.