La storia di Blessed e di Anwar_Naomi Brice
_Racconto finalista seconda/terza edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Lucrezia Lenti
Aveva il sangue di uno zingaro, nascosto dai suoi lineamenti, rivelato dai
suoi occhi. Come gli zingari, la sua gente aveva lasciato la sua casa e si
era messa in viaggio non per sentieri già battuti, ma seguendo i monsoni.
Era scesa nella terra del sole e degli alberi spinosi, delle piogge e delle
stagioni aride. Ma aveva il sangue di uno zingaro. Lo rivelava pienamente
quando era lontano dalla città, lontano, nella terra che conosceva
ed amava più di ogni altra cosa. Viaggiare non lo stancava, anzi gli rinvigoriva
l’anima, gli dava spazio per pensare, per rinnovarsi. Quando davanti
ai suoi occhi si stendeva l’orizzonte e la terra rivelava i suoi segreti
a lui e a pochi altri come lui, allora egli si sentiva vivo, desto, cosciente.
Aveva il sangue di uno zingaro che, nascosto nella sua anima, traspariva
dai suoi occhi tristi; quegli occhi che erano diventati grandi scrutando
l’orizzonte infinito, contemplando la terra che sussurrava i suoi segreti
soltanto a lui ed a pochi altri. La sua pelle bronzea e dorata godeva
al calore del sole, i suoi piedi si curvavano e si riposavano sulla terra
sotto di lui. Egli sorrideva con il sorriso di un uomo che comunica con
la terra sulla quale cammina. C’erano tante cose che egli non capiva,
cose che erano estranee alla sua mente, ma questa no, la terra, il suo profumo
portato dal vento, gli animali e le piante, queste cose egli le capiva
bene. E capiva questa terra come non avrebbe mai compreso nessu-
n’altra cosa; essa era familiare alla sua anima. E la sua anima cantava
in armonia con la musica della terra. Il suo silenzio si adagiava sulla musica
della natura, lasciando la sua anima libera di cantare la sua straordinaria
armonia. Egli sorrideva.
Il suo malessere era scomparso già dai primi chilometri del safari: nel
momento in cui la strada aveva cominciato a crepitare sotto le ruote ed
il traffico si era snellito. Ed allora anche la sua stanchezza ed il tumulto
che agitavano la sua anima erano scomparsi, spazzati via dal vento
creato dalla 4×4. La città, il lavoro, la famiglia, gli affari erano tutti stati
cancellati, scivolati addosso mentre viaggiava. Nelle sue orecchie
non strideva più la musica della città, una musica per la quale egli non
riusciva a trovare parole o armonie, una musica che la sua anima non
riusciva ad intonare.
Egli amava il canto di questa terra tanto quanto non avrebbe mai amato
nessuna donna. Lo amava a tal punto che le donne credevano che egli
non le amasse. Ma non era vero. Egli amava, e profondamente, ma la
terra era il suo primo amore e non è nella natura delle donne essere seconde
nel cuore di un uomo. La terra aveva conquistato il suo cuore e
le donne non dovevano competere. E la tristezza dei suoi occhi rivelava
la sua solitudine.
Intorno al fuoco del safari, egli mi raccontò la storia dei suoi occhi da
zingaro e del suo cuore nomade e vagabondo.
C’era una volta in una terra che ora si chiama Pakistan, che prima era
stata chiamata India dai Britannici e prima ancora era stata chiamata
con il nome che Allah le aveva dato e che quella terra aveva accettato
come suo, una famiglia molto devota. Questa famiglia era molto ospitale;
seguiva le leggi del Corano: digiunava durante il Ramandan che
celebrava secondo l’usanza. Questa famiglia viveva in un villaggio nella
terra che Allah aveva chiamato con un nome che poi sarebbe stato
dimenticato dall’uomo. Il padre era un agricoltore, come suo padre lo
era stato e come lo sarebbero stati i suoi figli. Quest’uomo amava la
terra ed amava l’odore intenso della terra al cominciare delle piogge,
il profumo fresco e verde del raccolto misto al sapore salato del sudore
della fronte. Egli amava il sole che riscaldava la terra e la sua pelle.
Ogni giorno, egli aggiungeva alle sue preghiere un ringraziamento ad
Allah che aveva creato l’uomo per lavorare la terra.
Anche sua moglie aveva a cuore la terra e la amava dello stesso amore
che ella nutriva per suo marito. Essi erano cresciuti insieme su quella
terra ed in quel suolo affondavano le loro radici e da quel suolo erano
state alimentate. Ella era stata benedetta e sapeva bene che la sua
gratitudine sarebbe stata illimitata.
Ma c’era un solo motivo di tristezza nei loro cuori. Erano stati benedetti
con la nascita di sette bei figli maschi: alti, forti, vigorosi e lavoratori,
devoti ed obbedienti. Ma non avevano avuto figlie. La moglie
dell’agricoltore sentiva la mancanza della compagnia di una figlia.
Avrebbe tanto desiderato provare la gioia di preparare la sua bambina
per il giorno delle nozze. Ella aveva tanto goduto della intimità di sua
madre ma non avrebbe potuto fare altrettanto. Comunque Allah aveva
donato loro dei figli forti e belli e lei ne era felice.
Un giorno una carovana di zingari arrivò in città. Gli zingari erano guardati
con paura e sospetto. Tutti sapevano che in un tempo remoto gli
zingari avevano abitato in questa terra come lo provavano i loro tratti
somatici, ma poi erano partiti ed avevano deciso di non tornare più. Gli
zingari avevano gli occhi scuri e grandi di chi è abituato a scrutare l’orizzonte
e a non chiuderli su se stessi. Non erano musulmani e non erano
devoti. Ma riparavano suppellettili, arnesi e finimenti e raccontavano
le storie dei mondi in cui viaggiavano. Essi avevano montato il
campo lontano dal villaggio e stavano quasi sempre tra di loro.
Questo gruppo di zingari sembrava particolarmente malconcio, vestito
di stracci.
Ma quell’annata era stata dura per tutti e nessuno fece commenti. Una
notte si sentì dal campo degli zingari un gemito che avrebbe intenerito
anche il più duro dei cuori. Cominciò al crepuscolo e continuò per
tutta la notte.
“Qualcuno dovrebbe andare a vedere” disse la moglie dell’agricoltore
con voce tremante.
“Non io” disse l’agricoltore. “C’è qualcosa di maligno in quei gemiti”
rispose deciso.
Ed aveva ragione; c’era qualcosa di terribile in quelle grida e nessuno
del villaggio osò lasciare la propria casa per paura degli spiriti che sicuramente
aleggiavano in quella notte senza luna. All’alba il pianto
cessò ed il silenzio rimase interrotto solo per un attimo, prima che il muezzin
richiamasse i fedeli alla preghiera.
Al termine delle preghiere, quando le anime degli uomini si furono riprese
da quella notte terribile, l’agricoltore condusse gli uomini al campo
degli zingari e ciò che trovarono li inorridì. Erano tutti morti, colti da
una malattia. Gli uomini del villaggio rimasero attoniti ed increduli.
“Certo è opera dei demoni”
“Certo sono stati puniti per qualche terribile crimine”
“Certo avremmo potuto aiutarli” esclamò l’agricoltore mentre gli occhi
si riempivano di lagrime. “Ora dobbiamo servirli nella morte come non
abbiamo mai fatto quando erano in vita”.
Con grande riguardo seppellirono i morti, togliendo loro soltanto i
gioielli. Scavarono due fosse, una per gli uomini ed una per le donne e
li deposero con il capo rivolto ad est per accogliere il giorno. L’agricoltore
si assicurò che ciascuno fosse trattato con il massimo rispetto.
Quando arrivarono all’ultima carrozza degli zingari, udirono un suono
insolito in quel luogo di morte. Tutti sobbalzarono. Fino a quel momento
avevano parlato a voce bassa e lavorato in silenzio e così questo suono
li aveva spaventati tutti.
“E’ uno spirito”.
“E’ un demone”.
“E’ l’angelo della morte”.
“E’ un bambino” disse l’agricoltore e saltò sulla carrozza.
Tra le braccia della madre morta, giaceva una bimba che gridava dalla
fame e dalla paura.
“Piano, piano” raccomandò l’agricoltore con voce pacata. “Dolcemente…”,
ripeté mentre prendeva la piccola dalla braccia della madre “vieni
qui tesoro, ti porto al sole che ti riscalderà e la brezza gentile asciugherà
le tue lagrime”.
Gli altri uomini fissavano la bambina.
“E’ maledetta”.
“E’ malata”.
“E’ male”.
“E’ benedetta da Allah” concluse l’agricoltore. “Portatemi i gioielli di
sua madre”, egli ordinò mentre tornava al villaggio stringendo dolcemente
la bimba nelle sue braccia.
Appena la moglie scorse il marito con la bambina, aggrottò le ciglia con
disapprovazione. Ma poi vide quegli occhi grandi e scuri, adornati da
lunghe ciglia nere e il suo cuore si sciolse in oro liquido. “Lei è benedetta”,
disse la moglie dell’agricoltore e così decisero di chiamarla Blessed.
Blessed crebbe nel villaggio chiamando padre l’agricoltore e madre sua
moglie e fratelli i loro sette figli. Era una fanciulla bella, piena di grazia
e di saggezza. All’inizio gli altri abitanti del villaggio avevano temuto
che ella avrebbe portato guai, ma a mano a mano che Blessed cresceva
si erano resi conto che non solo era benedetta ma che era anche
una benedizione.
Blessed amava la terra, il profumo delle piogge e del raccolto, l’odore
dell’aria e del sole. Ma i suoi grandi occhi scuri con le lunghe ciglia nere
guardavano sempre lontano all’orizzonte e si chiedeva che cosa ci fosse
oltre quell’orizzonte. Spesso si allontanava da casa e dal villaggio per
esplorare la terra intorno a loro. Le piaceva in particolare andare nei boschi
selvaggi ed osservare uccelli ed alberi.
“Dove sei stata?” la rimproverava la madre.
“Nei boschi”, rispondeva Blessed mostrando la legna che aveva raccolto
appositamente.
“I boschi sono pericolosi”, replicava la madre.
“Ma gli alberi sono miei amici”, rispondeva Blessed.
Blessed cresceva in grazia e bellezza. Svolgeva le sue faccende domestiche
con nobile eleganza.
“E’ tempo di parlare di matrimonio” le disse sua madre un giorno.
“Lui arriverà”, replicò Blessed.
“Come fai a saperlo?”, chiese sua madre.
“Ho sentito il suo canto. Verrà. Non devi preoccuparti”.
La madre di Blessed era molto preoccupata sul comportamento della figlia
e la sorvegliava in tutti i modi.
“Madre”, disse Blessed un giorno, “non devi preoccuparti. Quando verrà
egli andrà dritto da mio padre. Sarà molto rispettoso”.
“Come fai a saperlo?”
“L’ho visto”, replicò Blesser e sorridendo, diede un bacio a sua madre.
“Non devi preoccuparti, non ti procurerò mai disonore. Mai”.
Un giorno un giovane arrivò nel villaggio. Il suo nome era Anwar. Era
alto, affascinante ed aveva i capelli scuri e lisci, un sorriso caldo ed onesto
e le mani laboriose ed abili. Era un uomo intelligente in grado di costruire
e riparare qualsiasi cosa. La sua specialità era di rendere più facili
i lavori pesanti. In particolare gli piaceva escogitare dei modi per
portare l’acqua più vicina al villaggio in modo da ricevere i sorrisi delle
donne, non più costrette a portare le loro giare d’acqua così lontano,
ed i loro sorrisi gli rallegravano il cuore.
Anwar si spostava di villaggio in villaggio escogitando nuovi modi di
fare le cose. Si guadagnava bene da vivere con il suo lavoro e godeva
di tutto ciò che vedeva e sentiva e di tutte le avventure che gli capitavano
lungo il suo cammino. Era un uomo felice. Un giorno arrivò nel
villaggio dell’agricoltore. Anwar aveva sentito che il villaggio aveva bisogno
del suo aiuto per via del pozzo. Quindi ci andò, attraversando la
campagna sulle sue lunghe gambe ed intonando una canzone con il suo
forte tono da baritono, anche se un po’ stonato. Gli piaceva cantare e
non gli importava se molto spesso finiva per stonare un po’.
Mentre camminava attraverso i campi, canticchiando, Anwar notò un
lampo di luce colorata balenare tra gli alberi. Non ne era sicuro ma gli
sembrava di aver visto qualcuno danzare tra le fronde. Infatti si trattava
di Blessed. Rapita dall’incanto degli alberi e dalle loro armonie,
Blessed non aveva udito la canzone di Anwar se non quando egli non
era stato abbastanza vicino. Non appena lo udì si buttò a terra e si nascose,
spiando tra i cespugli per vedere chi stesse arrivando. Anwar si
fermò per un momento e pensò di aver visto soltanto una donna che rac-
coglieva legna per il fuoco. Ma nel profondo dei suoi pensieri si chiedeva
se invece non si fosse trattato di una fata dei boschi che danzava
tra i suoi alberi.
“E’ buon segno”, pensò “in ogni caso”.
Anwar si recò direttamente a casa dell’agricoltore che sapeva essere il
saggio del villaggio e che sicuramente gli avrebbe procurato del lavoro.
Si presentò rispettosamente alla moglie e chiese dell’agricoltore. Ella
gli indicò i campi, Anwar la ringraziò gentilmente e si incamminò nella
direzione indicatagli fischiettando tra sé.
L’agricoltore fu felice di incontrarlo ed insistette affinché rimanesse con
loro. Anwar accettò con quel suo sorriso nobile e gentile, che non lasciava
mai le sue labbra ed i suoi occhi. E così quella sera Anwar e Blessed
si incontrarono. I loro occhi si toccarono, attraversando la stanza,
ed in quell’istante la moglie dell’agricoltore capì che Allah aveva mandato
quel giovane per loro, per Blessed.
“E’ arrivato”, sussurrò la moglie dell’agricoltore a Blessed mentre preparavano
la cena.
“E’ arrivato”, Blessed annuì con un sorriso pudico.
Quella sera Anwar raccontò loro le storie dei suoi viaggi. Con loro grande
piacere egli narrò di quella volta in cui aveva attraversato l’oceano, inseguito
dal monsone, in un sambuco, in rotta verso l’Africa. Gli occhi di
Blessed erano spalancati dalla meraviglia mentre egli raccontava le storie
del grande e selvaggio continente. Da quel momento il suo sangue di
zingara, a lungo sopito nelle vene di Blessed, si risvegliò, ed il suo cuore
cominciò a battere con il desiderio di viaggiare della sua gente.
“Vorrei andare in Africa”, Blessed disse ad Anwar un pomeriggio.
“E ci andrai”, lui le rispose, con un sorriso dolce e gentile.
Blessed e Anwar si sposarono. L’agricoltore, sua moglie, i loro figli e
tutto il villaggio ne furono felici. I festeggiamenti furono lunghi e pieni
di gioia. Anwar e Blessed erano la coppia più bella del villaggio e
tutti concordavano nel ritenere che non si fosse mai vista in tutto il mon-
do una coppia più bella e così ben assortita. L’unica cosa che rattristava
tutti era sapere che presto essi li avrebbero lasciati. La moglie dell’agricoltore
pianse mentre salutava Blessed. Ella abbracciò la madre e
le sussurrò nell’orecchio: “Non piangere madre perché tu hai sempre saputo
che io sarei dovuta andare via un giorno, io non ho altra scelta se
non quella di girare il mondo”. La moglie dell’agricoltore annuì riconoscendo
la verità delle sagge parole della figlia.
Quella notte la moglie del fattore pianse nelle braccia del marito.
“La mia bambina!” singhiozzava. “Se n’è andata! E non tornerà mai più”.
“Non è stata mai nostra!”, replicò il fattore, sebbene anche lui piangesse,
“Allah ce l’ha soltanto data per un po’ di tempo insieme ai nostri figli.
Così come è arrivata da noi, ora deve andarsene. Che sia fatta la volontà
di Allah”.
Blessed scrutò l’orizzonte, suo marito le era vicino. Ella lo guardava in
viso e gli sorrideva. La sua gioia rifletteva quella del suo sposo.
“Un giorno”, ella sussurrò “mi porterai nell’Africa dei tuoi. Mi sembra
un bel posto in cui vivere”.
“Certamente mia diletta. E’ un bel posto e lì vedrai le spiagge dorate e
lucenti ed il mare colore turchese”, e continuò a descriverle le bellezze
dell’Africa.
E così Blessed e Anwar attraversarono la campagna. Anwar riprese il
suo lavoro e Blessed lo aiutò imparando velocemente fino a diventare
un ottimo aiutante. Si muovevano sempre verso il mare. In ogni villaggio
in cui si fermavano erano ben accolti ed accuditi e ad ogni villaggio
si facevano più vicini il mare ed il sambuco che li avrebbe portati
in Africa attraversando l’oceano.
Ogni sera, a cena, Anwar raccontava a Blessed le storie delle terre lontane
dell’Africa. Le raccontava del sole e degli alberi spinosi, dei grandi
alberi di baobab, degli animali e delle piante. Blessed non si stancava
mai di ascoltare, e con i suoi grandi occhi dolci e spalancati cercava
dolcemente di immaginare le grandi terre che la attendevano.
Un giorno, mentre Blessed attendeva il suo primo figlio, ed i giorni del
parto si approssimavano, essi raggiunsero un villaggio.
“Rimarremo qui”, disse Anwar “fino alla nascita di nostro figlio”.
“Va bene”, rispose Blessed “è un bel villaggio”. Blessed era felice di riposarsi
in quanto, nonostante amasse viaggiare, cominciava ad essere
stanca.
Anwar trovò per loro una stanza confortevole e andò a presentarsi agli
uomini del posto. Ben presto trovò lavoro. Le donne del villaggio portavano
a Blessed cibo e bevande. Quando si accorsero che era vicina al
parto, le mandarono una levatrice.
La levatrice era una vecchia donna che aveva fatto nascere tutti i bambini
del villaggio da tre generazioni. Era alta e magra con mille e mille rughe
che il sole ed il vento avevano amorevolmente inciso sul suo viso.
“Tsk, tsk”, mormorò a Blessed “sarà presto. Molto presto. Ora devi riposare.
Basta lavoro”. La levatrice sorrise, rivelando di aver perso tutti
i denti. Blessed rispose che avrebbe riposato, la levatrice le assicurò
che sarebbe ritornata ogni sera dopo la preghiera.
“Grazie madre”, le disse Blessed quando si congedò da lei.
“Non c’è di che, ragazza mia”.
Quella notte cominciarono le doglie.
“Anwar”, rantolò Blessed “E’ ora”.
Anwar si vestì velocemente e corse a cercare la levatrice.
“C’è ancora tanto tempo”, disse la levatrice mentre preparava le sue cose
e chiamava sua figlia per aiutarla. “I primi bambini ci mettono sempre
tanto tempo ad arrivare. Si fanno velocemente ma escono lentamente”,
ridacchiò tre sé e sé.
Blessed non gridò mai, sopportò il dolore con calma e perseveranza. La
levatrice era molto contenta di lei. L’alba spuntò senza che essi potessero
accorgersene e poi il sole di mezzogiorno scivolò sulle loro teste.
Anwar camminava avanti ed indietro davanti alla porta, preoccupandosi
e pregando, pregando e preoccupandosi. La levatrice usciva, non appena
poteva, per rassicurarlo.
Quando il sole cominciò a tramontare all’orizzonte, simile ad una grande
palla di fuoco, persino la levatrice cominciò a preoccuparsi. La notte
passò lenta e Blessed sopportò il dolore coraggiosamente, in silenzio.
Alle prime luci dell’alba ella partorì un maschio, un bimbo grande
e forte. Quando la levatrice depose il bimbo nelle braccia della madre,
ella comprese che Blessed era troppo debole e che non ce l’avrebbe fat-
ta a superare la giornata.
La levatrice avanzò verso i primi grigi bagliori dell’alba. Vide Anwar
che stava in piedi e guardava verso Est.
“È un maschio”, ella disse.
“Allah sia lodato”, Anwar rispose. “Posso andare da lei?”
“Sì”, rispose la levatrice lentamente, ed una ruga profonda attraversò la
sua fronte corrugata.
“Che cosa?” Chiese Anwar. Le prese la mano “Che cosa c’è?”
“Blessed è molto debole. E’ stato un parto difficile. Non penso che ce
la farà”.
“No”, rispose Anwar.
“Sia fatta la volontà di Allah”, replicò tristemente la levatrice.
Quel pomeriggio Blessed teneva la testa appoggiata sulla spalla di suo
marito. Il suo respiro era leggero e la pelle pallida e perlata di sudore.
“Sono così stanca”, mormorò.
“Allora dormi mia diletta”, Anwar rispose.
Blessed chiuse gli occhi e si addormentò. Non si risvegliò più.
Anwar aveva il cuore spezzato. Rimase in quel villaggio fino a quando
non furono assolti tutti gli obblighi che egli aveva verso i vivi ed i morti.
Poi prese suo figlio ed i suoi attrezzi e si incamminò verso il mare. Si occupò
di suo figlio come una madre ma sempre viaggiava verso il mare.
Alla fine i due raggiunsero un porto ed Anwar trovò da imbarcarsi per
entrambi. Il capitano del sambuco gli disse che avrebbe dovuto aspettare
qualche settimana fino all’arrivo del monsone. Anwar rispose che
avrebbe aspettato. Alla fine arrivarono i monsoni che li avrebbero portati
via. Anwar e suo figlio furono i primi a salire a bordo.
Lungo il viaggio ebbero molte avventure, ma questa è un’altra storia.
Dopo alcune settimane scorsero i lidi dell’Africa. Anwar sollevò suo figlio
e gli mostrò il grande continente che diventava sempre più grande
davanti ai loro occhi. “Questa è la terra di tua madre”, egli disse. “Questa
è la terra benedetta”.
E intorno al fuoco, in mezzo ai cespugli africani, io cominciai finalmente
a comprendere il mio amico ed i suoi occhi tristi, tristi.